Livio Romano, Niente da ridere


Niente da ridere
Pagine: 332
Isbn: 9788832207293
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: 29 aprile 2021
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Pubblicato per la prima volta nel 2007, Niente da ridere racconta le vicende di un trentacinquenne gravato dalla responsabilità di badare a una famiglia (molto) allargata di cui deve soddisfare le esigenze più diverse: dall’ospitare parenti, amici alla lontana e sconosciuti, a regalare soldi allo zio affinché allenti le sue pressanti richieste, fino al punto di inventare impegni al solo scopo di lavorare in pace, di nascosto, nella masseria di campagna, lontano dalle figlie, dalla moglie e dalla fragorosa confusione di una vita da cui all’apparenza sembra fuggire, anche se in realtà ne è il fulcro. Un personaggio insieme vitale e malinconico, generoso e narcisista, incantato e cinico, che posticipa all’infinito l’incipiente crollo nervoso a colpi di ansiolitici. Insomma, il perfetto uomo del nostro tempo, raccontato con una lingua tumultuosa e indomabile, in un intreccio effervescente di situazioni fra il comico e il grottesco, ambientate in un Salento inconsueto, distante dagli stereotipi a cui il cinema e la letteratura ci hanno abituato, ma del quale, in certi improvvisi scorci di paesaggio, emerge tutta la selvaggia bellezza.



«Una naturalezza fantastica» (Rockstar)
«Un linguaggio rapido, pieno di ammicchi da cogliere al volo» (Tuttolibri)
«Una storia comune, quindi zeppa di follie» (nazioneindiana.it)


Livio Romano in una foto di Sara De Carlo Livio Romano in una foto di Sara De Carlo

Livio Romano è nato nel 1968 a Nardò, in provincia di Lecce, dove vive. Insegna italiano agli stranieri. Ha esordito con tre racconti in Sporco al sole a cura di Michele Trecca, Gaetano Cappelli ed Enzo Verrengia (Besa Booksbrother, 1998) e con un racconto in Disertori (Einaudi), a cui sono seguiti i romanzi Mistandivò (Einaudi, 2001), Porto di mare (Sironi, 2002) e Niente da ridere (Marsilio, 2007), il saggio Da dove vengono le storie (Lindau, 2000) e il lungo reportage dalla Bosnia Dove non suonano più i fucili (Big sur, 2005).
Wikipedia gli dedica una pagina.

Come inizia

Quando casco dentro a un mar d’impicci
Sora Alprazolam vien da me
sussurrandomi parole di quiete
lascia che sia oh sì lascia che sia.


Ché a quanto pare sono qui, nel reparto ortopedia di un grande ospedale, c’ho ’sta gamba tutta ingessata, appesa tramite una benda doppia a una gruccia che usano anche per le flebo. Un finimondo. Ho scaraventato la Cinquecento rossa di mio padre contro una Fiesta beige guidata dal maresciallo in pensione della Marina, quello con la casetta tutta archi e dipinta di verde che abita nella stessa contrada della mia casa di campagna. Ho incuneato il piccolo cofano dentro una ruota anteriore del ciccione e, prima di finire contro il muretto rosa della masseria, ho visto la Fiesta perdere le staffe e svanire in una piccola cava di tufo in disuso. Una di quelle cave che un tempo venivano solcate a forza di picconate, con le pareti ineguali forgiate dalle mani degli antichi scavatori.
La Fiesta beige vecchio tipo. Quella tutta spigoli degli inizi degli anni ’80. Io la sperono e quella cambia la sua traiettoria puntando dritta la cava. E poi sparisce alla mia vista e io stesso non ci vedo più niente, con questo volante sottilissimo che non risponde ai miei comandi, la vetturetta rossa che fila con l’acceleratore schiacciato e il motore su di giri sebbene io non stia effettivamente schiacciando alcunché, solo mi porto le braccia alla testa prima di sentire le gambe appallottolarsi nel piccolo catino dei comandi a pedale. E la botta tremenda contro il vetro. Gambe e piedi si aggrovigliano in un fantasioso misto carne e tela di jeans e lamiera arrugginita di Fiat Cinquecento del ’72. E il culo che fa un sobbalzo, porta il mio petto contro il volante sottile e la fronte addosso al parabrezza a disegnare la casa dell’Uomo Ragno, indi ricadere all’indietro e lì rimanerci, sì che la voce piagnucolosa eppure acuta che chiede soccorso si rivolge verso il tettuccio della Cinquecento, e mica verso, chessò, l’esterno, verso la campagna, la strada, qualcuno. No. Io là con le gambe imbrogliate in una matassa di freno acceleratore frizione pietre del muretto che si sono raccolte nell’incavo dei pedali. Il maresciallo sparito, rovinato dentro alla cava. La mia testa all’indietro che invoca «aiutatemi» al tettuccio, e si lamenta e frigna ché non sente più gli arti inferiori che un tempo erano stati i propulsori del corpo intero e adesso son ridotti in asparagi. Frigna per aver ucciso il maresciallo. Perché quando uccidi un sottufficiale, sia pure in pensione, si sa, tutta la Polizia ti si scaglia poi addosso. E perché – forse soprattutto per questo –, pur fissandosi in questa mania di non guardare altro che il top di pelle finta della Cinquecento, la mia testa comprende benissimo che dell’auto del ’72 sarà rimasto ben poco, un paio di fanali da rivendere allo sfasciacarrozze, i sedili da regalare ai bambini per farne salottini per le loro capanne. Fracassata, come le mie gambe, come il povero maresciallo Colopi finito nel precipizio per via del mio tamponamento. [...]

Rassegna stampa
  • «Tutti sul noir. Io invece narro il Salento “civile”» (Claudia Presicce, «Nuovo Quotidiano di Puglia», 9 maggio 2021)


  • «Uno come Romano meriterebbe di tornare a essere una delle voci più lette della narrativa italiana» (Davide Grittani, «Il Corriere del Mezzogiorno», 22 luglio 2021)



  • I libri di Livio Romano pubblicati da Fernandel: