Primo Fornaciari, Alberi


Alberi
Pagine: 104
Isbn: 9788832207712
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: 9 aprile 2024


«Perché proprio adesso pensava a quei frutti secchi dimenticati sugli alberi, e ai giorni lontani della sua stupida giovinezza?»

Chi sono i protagonisti di questi brevi racconti? Persone che vivono vicino agli alberi, a volte del tutto inconsapevolmente. Qui sperano, si illudono, amano e invecchiano. E in mezzo alle loro storie, visti o non visti, curati o mutilati, accarezzati o sognati, in silenzio respirano e crescono gli alberi. Inutile fingere, di loro non sappiamo niente. Sul conto di queste grandi presenze vegetali che, ci piace credere, vegliano sulle nostre vite, non ci facciamo domande, anche se forse sono loro i veri destinatari della creazione, in questo pianeta nel quale gli umani, una generazione dopo l’altra, si agitano nel disordine quotidiano.
«Chi è, chi cammina sotto gli alberi del lungofiume?», recita il frammento di un quaderno di Kafka. Una frase che sembra un buon viatico per la lettura di questa raccolta di brevi prose. Una domanda che sembra alludere a un comune destino di anonimato.

Primo Fornaciari Primo Fornaciari

Primo Fornaciari (Ravenna, 1964) ha scritto su quotidiani e riviste locali e ha pubblicato diverse monografie su tematiche legate alla memoria, al territorio e ai suoi protagonisti. Oltre alla scrittura si occupa di educazione e giardinaggio. Legge molto ma pigramente, e ama i libri, che forse colleziona, ma senza esagerare. Vorrebbe stare più tempo nei boschi, preferibilmente in compagnia, ma anche da solo.


Ailanto

Da diversi anni ormai Albert Maria S., docente presso un istituto professionale meccanico e idraulico, era certo che la vita fosse uno scherzo. Ossia che le nostre esistenze tutte si svolgessero non sotto il segno benevolo di Giunone e Afrodite, o gli auspici proficui di Mercurio, per non parlare di Apollo e della sua corte di Muse, bensì proprio sotto le insegne lacere e indecenti di Pulcinella. O peggio, dell’infernale Arlecchino. Era giunto a questa conclusione dopo infinite amarezze venutegli dalla sua professione. Tutte quelle mattine, di sole di nebbia o di cielo nuvoloso, passate in aule scolastiche ridipinte a tenui tinte ansiolitiche come di ospedale psichiatrico, erano ormai, nelle sue meditazioni, solo un mucchio di rottami. Cominciò a pensare proprio ai rottami. Avrebbe voluto dipingerli. Si chiese se qualche artista della così detta arte povera avesse lavorato sul tema. In arte è stato fatto tutto, pensò, e di certo anche i rottami. Consultò libri in biblioteca. Poi abbandonò quest’ultimo consolatorio pensiero culturale e si concentrò direttamente sulla materia. Cominciò a spostarsi lungo il cerchio della periferia cittadina in visita ai ferrivecchi. Dapprima, timidamente, si limitò a guardare le cataste metalliche da fuori, poi prese confidenza e compì vere e proprie visite. Si presentava con il suo titolo di professore di scuola tecnica, dicendo che doveva organizzare, programmare, studio-lavoro, stage e altro bla bla burocratico. Grazie a queste scuse poteva passare pomeriggi interi seduto accanto ai mucchi di rottami. Venne presto ignorato dagli operai, e così, in tutta calma, cominciò a disegnare. Aveva comprato un album, che in poco tempo riempì di schizzi, disegnando cumuli di lamiere accartocciate, tubi, staffe, ghiere, orci sfondati, molle, reti, catini, radiatori eccetera. Una volta si appartò a disegnare, o forse a meditare, in un punto isolato del piazzale di uno di questi ferrivecchi. Attorno alle cataste, a fare da corona, crescevano fitti gruppi di ailanti. Pensò a come sono goffe queste piante in inverno: gregarie, infestanti, si spogliano completamente e restano come grigi fittoni di ferro piantati in terra, poi, quando viene la bella stagione, si abbelliscono di foglie e svettano con l’ambizione di farsi bosco. Addirittura, quando crescono abbastanza e si trovano ad avere lo spazio sufficiente in un giardino, diventano imponenti e sono chiamati, per la loro bellezza, alberi del Paradiso. Ma basta divagare di botanica, pensò Albert Maria. Non era più come quand’era giovane e si aggirava per giardini a osservare ammirato le piante. Ora non ammirava più niente. Nemmeno i rottami: si limitava a registrarne la presenza, si studiava di ritrarli senza enfasi, teneva mappe del loro sbocciare tutto attorno alla città. Rottami e basta. Una volta che si fece sera in fretta e gli operai se n’erano andati, dimenticandosi di lui, restò lì seduto, in pace, per un tempo indefinito. Tutto intorno era silenzio, le ombre delle cataste metalliche si ergevano mute, con la solennità di antiche piramidi.

Rassegna stampa
  • «Una lingua lieve e precisa, capace di aprire squarci su vite intere descrivendo gesti semplici» (Federica Angelini, «Ravenna & Dintorni», 11 aprile 2024)