Luca Martini, L'uovo di Pasqua



Chiedere aiuto a un amico, alla fine solo questo mi venne in mente di fare.
Luca Martini
«“Sono geloso di tutto ciò la cui bellezza non muore”. Lo diceva Oscar Wilde, penetrando con le parole nel significato profondo di un sentimento così dannoso e logorante, legandolo strettamente all'idea di un'attrazione eterna. Il protagonista di questo racconto è proprio così, talmente conscio della bellezza della donna con cui condivide la propria vita da domandare al suo migliore amico di metterla alla prova. Una seduzione, un test per capire se la donna cederà, confermando i propri dubbi, o ne uscirà virtuosa, cancellando tutte le paure. Alberto così facendo rischia, rischia di scoprire la verità, verità che alla fine non sembra soddisfarlo poi tanto. E proprio quando tutto sembra appianato, un evento inaspettato lo riporta nelle profondità ancestrali di un dubbio non risolto, un'ossessione che lo accompagnerà per il resto dei giorni, consumandolo lentamente, in una condanna eterna. E allora è proprio vero quello che diceva Montaigne, e cioè che l'avaro soffre della sua passione più del povero, mentre il geloso soffre più del cornuto. Cos'è un'ossessione come la gelosia se non la paura di perdere un bell'oggetto che si dice di amare?»
Nell’affannosa costruzione di un pensiero che schiacciava il mio orgoglio in un angolo buio, senza darmi tregua, pensai che quella fosse l’unica soluzione che mi rimaneva da mettere in atto.
Mi capitava di svegliarmi all’improvviso, nel cuore della notte, di accendere la lampada sul comodino e di restare a guardarla in silenzio, senza che lei si accorgesse di nulla. Potevo rimanere così, con i gomiti affossati nel materasso di lattice e lo sguardo perso nei suoi capelli, anche per un’ora, sempre nella stessa posizione, sempre senza dire o fare assolutamente nulla.
Nulla tranne che pensarci.
Di giorno mi trovavo persino a fissare i suoi indumenti piegati sulla sedia. Entravo in camera da letto e li accarezzavo, alla ricerca di una risposta a una domanda che non avevo ancora il coraggio di formulare. Poi, quando la sera rientrava a casa, aspettavo che andasse a fare la doccia per raccogliere fra le mani i suoi abiti ancora tiepidi e ripetere lo stesso rito. Me li passavo sul viso, li annusavo e li assaggiavo, sperando di trovare altre tessere da incastrare con quelle che già avevo disposto su quella scacchiera che solo la mia testa era in grado di vedere. Oggi capisco che cercavo più conferme che smentite, e questa è una cosa che non sono mai stato in grado di spiegarmi.
Comunque, ho passato settimane così, anzi, mesi interi.
Con il trascorrere del tempo il pensiero cresceva, impedendomi di vivere, fino a sfociare in una vera e propria ossessione, difficile da gestire e troppo confusa da spiegare.
Una cosa comune, si dirà. Tipica degli italiani, lo sosteneva anche un sondaggio apparso sul Corriere della Sera qualche tempo prima. Forse era normale, ma se la leggi su un giornale è un conto. Quando la vivi, giorno dopo giorno, dubbio dopo dubbio, assenza dopo assenza, diventa qualcosa che ti consuma, che ti distrugge, che ti toglie ogni piacere di vivere.
Ero diventato schiavo della mia ossessione, figlio del sospetto, genitore di ogni incertezza. Una trinità della diffidenza, in cui ero padre, madre e spirito santo al contempo, senza alcuna possibilità di espiazione.
Stavo cadendo nel vortice della paura, quella incontrollabile, e dovevo fare qualcosa.
Così, dopo mesi di riflessioni contorte e di notti insonni, passate a guardarla e a non pensare ad altro, ho trovato il coraggio di provarci e mi sono deciso.
Ho incontrato Paolo e gli ho domandato di sedurla.
Sì, volevo metterla alla prova, e volevo che fosse proprio lui a farlo, l’amico fidato al quale potevo dire tutto, o quasi. L’amico di una vita, quello al quale mia moglie riservava sempre una parola gentile, una giustificazione, uno scostarsi i capelli dietro l’orecchio.
I capelli dietro l’orecchio.
Ho letto anche questo, non ricordo su quale giornale, forse Focus, o roba del genere. Si diceva che per la donna il gesto di cacciarsi i capelli dietro l’orecchio mentre parla a un uomo rappresenta un autentico e inconsapevole gesto di seduzione. Già, un aprirsi a lui, un fargli capire che sì, sono sposata, ma sarei anche disponibile se tu lo volessi. Certo, devo salvare la faccia, s'intende, però se te la giochi bene potrei anche cedere.
C’è qualcosa di più sensuale e invitante di una donna che si sistema i capelli dietro l’orecchio, abbassando lo sguardo e ipotizzando un sorriso?
Conosco Paolo da quando andavamo alle scuole medie, tre anni trascorsi nello stesso banco e cinque anni di liceo in classi diverse, ma sempre e comunque insieme. So che non lo farebbe mai, anche se sono convinto che mia moglie gli sia sempre piaciuta. E come potrebbe essere diversamente? È una donna bella, educata, colta. Una donna affascinante, la creatura perfetta al fianco di un uomo fortunato.
A pensarci bene non avevo grandi motivi per essere geloso.
Qualche messaggio a orari strani, sì, ma col lavoro che fa e i contatti con le gallerie d’arte di mezzo mondo, ci sta. Se non altro per i fusi orari.
Qualche appuntamento inaspettato, un avvisare all’ultimo istante che non sarebbe tornata per cena, un invito a non attenderla a casa sveglio, certo.
Ma chi non lo farebbe quando il lavoro che svolge consiste nell'organizzare gli eventi per la più importante galleria d'arte della città?
Io stesso, che sono un semplice direttore commerciale di un’azienda tessile, mi trovo spesso a cena con qualcuno all’ultimo momento, per cogliere l’attimo propizio e chiudere contratti importanti per la società. Allora, basta un sms o una telefonata per avvisare che si fa tardi. E nessuno pensa male.
Nessuno tranne me.
C’è stato un momento in cui la mia mente ha fatto click e i miei occhi hanno cominciato a guardare in maniera diversa il suo mondo e le cose che lo popolavano. È successo una domenica pomeriggio, dopo una telefonata strana, più silenziosa del solito, aggiustata con l’inaspettato arrivo di uno scultore scozzese all’aeroporto e un uscire in tutta fretta, senza scordare, però, di mettere il profumo preferito. La scusa ha retto, ma io ho iniziato a guardarla con paura. E tutto è diventato scuro, ombroso.
Dapprima ho pensato di andare da un detective privato.
L’avevo già trovato, proprio in pieno centro.
Agenzia investigativa Beta, specializzata in controlli coniugali e tradimenti vari.
Il cavalier Rizzo mi aveva spiegato tecniche, sistemi e tempistiche. E mi aveva anche fatto un ottimo preventivo, una cifra accettabile per ritornare a vivere. O per morire del tutto.
Poi, sempre una domenica pomeriggio, una puntata del tenente Colombo mi aveva aperto gli occhi. L’investigatore privato coglieva in flagrante la moglie fedifraga e si faceva dare del denaro per non spifferare il suo tradimento al marito. E tutto andava vanificato. Un grande quel tenente Colombo.
Cornuto, mazziato e truffato.
Lo chiamai la mattina successiva.
Non se ne faceva più niente.
«Perché?»
«Lo chieda al tenente Colombo».
E avevo riattaccato il telefono senza aggiungere altro.
Potevo soltanto immaginare la faccia paonazza e rubiconda del cavaliere Rizzo, insignito, con contributo, del cavalierato di Vittorio Veneto dopo trent’anni di onorato servizio tra corna, figli drogati e spionaggio industriale. Sì, con contributo, perché so per certo che il buon Rizzo aveva sborsato dieci milioni di lire per ottenere l’onorificenza grazie all’intermediazione interessata di un mio amico banchiere affiliato alla massoneria. Lo stesso che mi aveva indicato l’uomo giusto per un pedinamento coniugale perfetto.
Be', un paio di bestemmie mi sa che le ha tirate.
Sul momento risi a quel pensiero, poi tutto tornò nero, e quell’ombra si riflesse sul volto di mia moglie appena rientrata a casa dopo un vernissage, per amplificarsi a dismisura nel suo sorriso ingiustificato.
«Perché tutto questo buon umore?»
«Ho conosciuto una persona importante, uno che potrebbe dare una svolta alla galleria».
«Bene, sono contento per te», commentai senza troppa convinzione.
«Grazie», mi disse mentre apriva la cerniera della gonna e con il piede destro si toglieva la scarpa sinistra.
«È bello?»
«Perché questa domanda?»
«Si fa per parlare».
«Ah».
Un senso di vuoto si insinuò tra di noi.
«Allora? È bello o no?»
«Non è male, ma cosa c’entra scusa? La cosa importante è che si tratta di un uomo ricco e influente, uno che vuole investire in opere d’arte».
E di colpo ripiombai nella depressione più cupa animata da un’ansia che non mi permetteva quasi più di dormire. Era diventata una vera ossessione. Mi sentivo come un ragno che continua a tessere la sua tela all’infinito, fino al punto da non capire più dove siano i contorni. Continuavo a tessere, a camminare, a tessere. E proprio mentre mi muovevo sulla rete appena costruita mi è venuta l’idea. Ho guardato la toilette fine ottocento che Paolo aveva regalato a Cristina per il suo ultimo compleanno e ho capito che era lui la persona che poteva aiutarmi. Paolo negli anni le aveva procurato gli affari migliori, grazie a certi dipinti fiamminghi che aveva periziato per una casa d'aste milanese, svelando a Cristina alcuni pezzi poco noti di sicuro interesse commerciale. E aveva avuto ragione, facendole fare ottimi affari.
Quel mobiletto di legno di mogano, tutto intarsiato in ebano chiaro, mi spinse a fare l’impensabile.
«Stai scherzando, Alberto, vero?»
«No, Paolo, non sto scherzando. Te l’ho detto che non ci dormo più».
Dopo avermi ascoltato a lungo se ne andò arrabbiato, quasi indignato per la richiesta.
Ma io avevo bisogno di lui.
Lo cercai sul telefonino per giorni.
Dapprima mi evitò, poi un giorno rispose e lo convinsi a incontrarmi in un bar fuori mano, proprio dentro un centro sociale di periferia. Un posto anonimo e squallido, come la richiesta che gli stavo riproponendo.
Dopo l’ennesimo rifiuto mi misi a singhiozzare davanti a lui, implorandolo di aiutarmi.
Mi rincuorò, stringendomi le mani, attraversando la mia angoscia con il corpo e con il pensiero.
Alla fine accettò, dicendomi che non avevo niente di cui preoccuparmi, che Cristina era una donna seria e innamorata, e che non mi avrebbe mai tradito.
«Grazie, ho bisogno di sapere. Se hai ragione tu, ritornerò a vivere. Se invece non è come pensi, allora me lo dirai e mi metterò il cuore in pace», gli dissi tirando il fiato con i denti. «Perché in quel caso tu me lo dirai, vero?», insinuai stringendo gli occhi a feritoia.
«Certo, che domande fai?»
Allentai i muscoli della faccia e riportai gli occhi alla loro forma abituale.
«E se lei dovesse prendersela? Perderei la sua amicizia, e io ci tengo molto, questo lo sai».
«Rinsalderesti la nostra, e salveresti un amico».
Sorrise e mi disse di stare tranquillo. Anch'io lo rassicurai, dicendogli che nel caso avrei pensato a tutto io e le avrei confessato la mia debolezza. Conoscevo Cristina, avrebbe compreso la mia ossessione, forse anche apprezzato la mia gelosia. E tutto si sarebbe sistemato, inclusa l'amicizia fra lei e Paolo. Cristina ne sarebbe uscita a testa alta con il sorriso sulle labbra, più forte e più sicura di prima. Sicura dell’amore di un marito devoto, un marito sciocco ma innamorato di lei fino alla follia.
Passarono alcuni giorni in cui mi pervase una strana eccitazione. Non conoscevo i movimenti di Paolo, non sapevo come e quando si sarebbe svolta la prova. E proprio questo mi teneva sulla corda, insieme all’idea di ricevere una telefonata sul cellulare, che avrebbe squillato più forte del solito. Avrei letto Paolo cell e avrei risposto con il cuore in gola, sul filo di una verità, pronto a cadere, senza rete. Ogni sera guardavo Cristina rientrare a casa. La osservavo, scrutavo i suoi movimenti e lo stato d’animo che la pervadeva. Cercavo un indizio tra le pieghe di quel corpo sempre più attraente: una scarpa nuova, un paio di calze seducenti, un profumo più deciso. E la mia mente volava, rimescolava, concludeva.
Il tempo scorreva, ma di Paolo nessuna notizia.
Dopo dieci giorni di silenzio mi decisi a chiamarlo.
Mi spiegò che non aveva ancora trovato il momento giusto.
Così pensai di agevolarlo. Gli dissi che avrei inventato un improvviso viaggio d’affari in Francia, da un cliente che non visitavo da tre anni. Ci stava, Cristina non avrebbe sospettato nulla.
La sera stessa informai mia moglie della mia imminente partenza.
«Quanto starai via?»
«Tre giorni in tutto. Giovedì sera sarò di ritorno».
«Mi porti il foie gras e il Sauternes
«Certo, ci avevo già pensato».
Mi baciò e andò a letto senza nemmeno accendere la televisione.
Facemmo l’amore, come non capitava da molto tempo.
Ne restai sorpreso, e lo ricollegai naturalmente alla bella notizia che le avevo appena dato. Era felice perché me ne andavo o per il foie gras di cui andava ghiotta?
La prima, pensai.
Neanche a dirlo.
In realtà non partii. Meglio, non andai in Francia. Presi tre giorni di ferie e mi limitai a spostarmi in un agriturismo a trenta chilometri da casa. Restai in camera tutto il tempo, scendendo solo per mangiare. Quei tre giorni li passai disteso sul letto, a pensare e a leggere stupidi libri sull'amore di Willy Pasini.
Al mio ritorno la trovai in casa.
Mi salutò con gioia, come sempre. Tirai fuori dalla valigia le preziose leccornie francesi che mi ero procurato da un amico che aveva un’enoteca e mi misi in ascolto.
Non sembrava cambiato niente, ma qualcosa doveva pur essere successo.
Quella notte non chiusi occhio e non facemmo l’amore.
La mattina dopo, appena arrivato in ufficio, comparve sul telefonino la scritta Paolo cell.
Le mani cominciarono a friggermi.
«Ti devo Parlare, Alberto».
«Tutto bene?»
«Sì, ma preferisco parlartene a voce. Vediamoci al bar dell’altra volta. Facciamo alle tre».
Arrivai in anticipo di una buona mezz’ora. Avevo la pancia in subbuglio e una agitazione psicomotoria di portata colossale. Entrai nel bar. Il locale era ancora più squallido di quel che mi ricordassi. Mancavano ancora due mesi alla Pasqua, ma in vetrina, fra caramelle impolverate e pupazzi tristi, c’erano già un sacco di enormi uova di cioccolato di marca scadente, che costituivano il montepremi di una lotteria pasquale.
Acquistai tre biglietti da due euro l’uno.
Lo feci senza un vero motivo, così, tanto per fare qualcosa.
«Questi sono buoni, me lo sento», mi disse il barista sogghignando. «Ha visto che bellezza il primo premio? Dieci chili di cioccolata».
«Caspita».
Mi appoggiò sul palmo della mano i biglietti, con un’aria solenne e orgogliosa.
«Buona fortuna».
Annuii senza nemmeno ringraziarlo, restando a fissare quelle orribili uova pasquali di cioccolato al latte, con la testa affondata in altri pensieri.
Anche Paolo arrivò in anticipo, ma solo di dieci minuti.
Ci sedemmo davanti ad un caffè caldo, anche se a me pareva gelido.
«Allora?»
Mi teneva sospeso senza svelare la minima emozione, come un presentatore di un reality show che sta per annunciare l'eliminazione dei concorrenti.
«Te l’avevo detto. Puoi stare tranquillo».
«Ti ha respinto?»
«Sì, è stata molto gentile, ma non ne ha voluto sapere».
Ero incredulo. Mi raccontò come era andata, con dovizia di particolari, incalzato dalle mie domande. Per un attimo rimasi deluso, ma fu soltanto un attimo, un incomprensibile momento nel quale mi mancò qualcosa da mettere in tasca e portare a casa.
«Ma dove glielo hai chiesto?»
«A casa mia, la sera della tua partenza. Dovevo mostrarle un quadro di Pieter De Witte che sto periziando, e con la scusa di un consiglio l’ho invitata da me. Ci siamo seduti sul divano, abbiamo bevuto qualcosa, le ho parlato della simpatia che avevo per lei da anni e ho cercato di baciarla, ma mi ha allontanato, dicendo che sono matto».
«Oddio Paolo, non sto nella pelle».
«Te lo avevo detto, Otello».
Non potevo crederci, mi ero sbagliato. Mi ero fatto divorare da un tarlo maledetto, senza motivo, senza una vera ragione, solo per farmi del male. Mi sentivo come quando si marcia in salita per chilometri con uno zaino di quaranta chili sulle spalle e, una volta arrivati sulla vetta, lo si butta a terra, spossati ma felici per la conquista.
Lo ringraziai, pagai i caffè e lo abbracciai come non facevo dai tempi del liceo.
Paolo rimase sorpreso dal mio gesto d'affetto e si lasciò andare a un sorriso impacciato.
Tornai a casa a piedi, camminai per chilometri, sano e leggero, come un bambino.
Non stavo per morire, gli affari andavano bene e mia moglie era ringiovanita di colpo di quindici anni, riacquistando gli stessi lineamenti di quando ci eravamo sposati, poco più che ventenni, felici e incoscienti.
Quella sera mi chiamò per dirmi che faceva tardi, ma poco mi importava.
Si scusò, le dispiaceva terribilmente visto che ero appena tornato, ma le dissi di non preoccuparsi, che il lavoro doveva venire prima di tutto.
La sera guardai una partita di calcio della Premier League e andai a letto senza aspettarla sveglio. E per la prima volta dopo mesi mi addormentai senza problemi, stanco e spossato, come uno studente che ha appena passato un esame impegnativo.
Tutto tornò come prima, come per magia.
Mi convinsi di aver fatto la scelta giusta, tanto più che Cristina non mi parlò mai delle avances di Paolo e il loro rapporto professionale continuò come e meglio di prima.
Dopo un paio di mesi una sera tornò a casa più tardi del solito.
Si sedette vicino a me.
Aveva un’aria seria, che si affrettò a nascondere con un sorriso improvvisato.
Teneva un foglio in mano.
«Oggi pomeriggio sono stata dal dottore».
«Che c’è? Non ti senti bene?»
«Da qualche giorno no».
«Che succede?»
Mangiò un po’ d’aria poi si decise. «Sono incinta».
«Incinta?»
«Sì, di sei settimane».
Mi fece un sorriso a trentadue denti, poi mi fece leggere il certificato del ginecologo, rimanendo in attesa di una reazione. Lo rilessi una decina di volte, senza riuscire a fissarla negli occhi.
«Be'? Non dici niente?»
«Scusa, è che non me l’aspettavo», le risposi scrutandole finalmente gli occhi.
Quando terminai di parlare l’ansia mi attanagliò la gola, strangolandomi senza pietà. La mente cominciò a correre all’indietro e un senso di panico partì dal cervello per scaricarsi sulle dita delle mani, che iniziarono a formicolare, bollenti.
«Non sei contento?»
«Penso di sì, e tu?»
«Tanto».
Restammo seduti per un po' sul divano, vicini, senza toccarci.
Poi Cristina appoggiò la testa sulla mia spalla e iniziò a parlare di nomi, completini premaman e depressioni post parto.
Io faticavo a seguirla, perduto nei miei pensieri senza contorno. Si alzò in piedi e mentre entrava in cucina disse che quella sera dovevamo festeggiare. Disse che il foie gras sarebbe stato perfetto e che dovevo andare a comperare una bottiglia di champagne.
Poi corse in bagno e la sentii vomitare.
Io rimasi sul divano, a pensare allo spot nel quale un bambino salta un cane al rallentatore e piomba su una pozzanghera grande come una piscina, con il jingle della Plasmon a rimbombarmi nelle orecchie e un sacco di sorrisi fasulli a rincorrersi nelle immagini.
Mi sentivo come quella pozzanghera.
La suoneria del cellulare squillò e mi riportò sul pianeta nel quale stavo vagando senza meta.
«È il bar Arcobaleno, la chiamo per la lotteria».
Avevo vinto il primo premio, proprio una bella sorpresa pasquale.
Dieci chili di schifezza al latte pronti per essere divorati.
Riattaccai e i miei dubbi scivolarono via come l’acqua che sentivo scorrere in bagno, mentre l’ansia cominciò ad abbandonarmi e una nausea di cioccolato iniziò a salirmi su, verso la gola.

© 2009 Luca Martini