Elena Battista, I pesci dormono sospesi


Ho aperto gli occhi in una stanza che subito non ho riconosciuto. Non è casa mia. C’è più luce, le pareti sono più spoglie. Accanto a me non c’è nessuno. Sono sempre stata una donna impulsiva. Ho sempre agito d’istinto, preso treni. Mi è sempre parso un pregio. Ora non lo so più.
Quando ho conosciuto Alberto non ero più una ragazzina. Mi piacevo, mi sentivo una donna piena di possibilità, ma avevo qualcosa nel cuore che premeva fino a farmi male. Mi sentivo piena d’amore, un amore inutile e senza padrone, che rischiava di marcirmi dentro. Lui invece nel cuore aveva una voragine. Aveva gli occhi grandi e liquidi di un cane che è stato spesso abbandonato. Io sognavo qualcuno da amare, lui sognava di essere amato. Ci siamo capiti e ci siamo buttati d’istinto nello stesso sogno. Miracolosamente, ha funzionato.

Sento un rumore, di là. Antonia dev’essersi alzata. Lei, così grande e grossa, cerca di non fare rumore per non svegliarmi. Crede che io dorma. Invece tengo gli occhi bene aperti, guardo la vaschetta di plastica trasparente che c’è sulla scrivania ai piedi del letto in cui ho dormito. Nella stanza di Alice, sua figlia. Questo fine settimana è con suo padre, e Antonia mi ha presa con sé. Ha capito che sono come una bestia ferita e da qualche giorno mi tiene sul divano, ogni tanto mi fa una carezza. Una tazza di tè, un po’ di musica. Lei lavora e io piango.
Elena Battista
«Questo è il racconto di un’attesa. Mi piaceva far tornare le immagini degli animali, che per definizione non si dominano, per raccontare di questa donna che per amore deve imparare il rispetto dei tempi e dei vuoti degli altri. Il pesce rosso (che invece è nero), Alberto paragonato a un cane, Adele che si paragona prima a una bestia ferita e poi in trappola, Antonia che sembra un animale che fatica a stare nelle sbarre».

Alberto è bello. Lo è sempre stato, anche se quando ci siamo incontrati non lo sapeva. Io gliel’ho ripetuto tante volte, per fortuna per molti anni non mi ha creduto. Ha un profilo elegante e mani bellissime. Si dice così degli uomini brutti, si descrivono solo i particolari riusciti, ma lui è bello davvero. Ha le gambe lunghe e muscolose e un sorriso che fa sciogliere il ghiaccio. Ha vissuto per più di quarant’anni sentendosi meno di zero. Poi si è ribellato e la rabbia ha portato via tutto, come un fiume di fango.

Muovo le gambe sotto il piumino, cade per terra il libro che ho preso in mano ieri sera. Moby Dick. Era sul tavolo di Alice, accanto alla vaschetta trasparente di Martin.
«Adele, sei sveglia?» la voce viene dall’altra stanza.
Esito un po’ prima di rispondere. Non so perché. Mi schiarisco la voce e cerco di dare alla risposta un tono allegro: «Sì».
Sento il pavimento di legno scricchiolare piano.
«Credevo dormissi ancora» mi dice Antonia nel quadro della porta. La riempie del tutto, sembra un animale troppo grosso per la sua gabbia.
«No, mi ha svegliata la luce. Non sono abituata, noi dormiamo con le persiane chiuse».
Mi mordo la lingua. «Dormivamo. Ma mi piace, così».
«Alice non vuole che mettiamo una tenda al lucernario. Dice che vuole vedere il cielo, dal letto».

Alberto non mi ha detto che non mi ama più. Gliel’ho chiesto mille volte, se mi amava ancora. Sta zitto e qualcosa si spegne. La sua inquietudine non cerca più i miei occhi. Mi sorride, mi dice che non è colpa mia. E io ci credo. Voglio crederci. Pensavo di essere solo luce nella sua vita, di illuminare il buio che ha dentro. Non mi dice che non mi ama, ma non mi dice più che mi ama. Non riesce a sentire nulla. Io mi agito, scalcio e soffro rumorosamente. Sono come un grosso animale in trappola. I sentimenti di Alberto per me si sono impigliati da qualche parte, si devono essere strappati.

«Ti va un caffè?» chiede Antonia.
Sì, mi va. Ho imparato a berlo senza zucchero, da quando Alberto è andato via di casa. Porto il lutto della nostra vita insieme, ho dovuto amputare i gesti morbidi delle abitudini comuni. Non faccio più colazione, non apparecchio più con i biscotti e la zuccheriera. Tengo la tazzina in mano, e bevo il caffè amaro guardando i tetti di fronte. Conto i giorni, lotto con la mia impazienza di rimettere insieme i pezzi che si sono salvati. Sono una donna insofferente, le cose mi sembrano sempre perfette o insopportabili.
«Lo so che è difficile» dice Antonia. Mi volta le spalle, controlla la caffettiera . «Ma devi lasciargli tempo di pensare, spazio per capire che persona è diventata».
Non rispondo. Ho una specie di mareggiata dentro, che mi tappa lo stomaco.
«Sei sempre stata così, devi fare, parlare, spiegare. Capire. Invece ora devi imparare a stare ferma. A respirare. Accettare di essere sospesa. È il solo modo che hai di amare Alberto, adesso. Non chiedere risposte, lascia che le domande si sollevino come pennacchi di fumo e guardale galleggiare».
Antonia mi ha versato il caffè. Lo giro con il cucchiaino per farlo raffreddare. Dallo sgabello della cucina vedo la vaschetta di plastica trasparente sulla scrivania di Alice. Dentro c’è Martin. È nero, con due lunghe pinne frastagliate. Immobile. È da stanotte che lo guardo. Mi sono svegliata, come sempre da quando è andato via Alberto, alle tre e mezzo. Dal lucernario entrava il chiarore della notte e nella vaschetta, proprio nel mezzo, Martin era sospeso, fermo. Sembrava una di quelle palle di vetro con dentro quel che rimane di una vita fossile.
«Stanotte, vedendolo così, ho pensato che fosse morto. Invece dorme. Dorme immobile al centro esatto della sua vaschetta trasparente».
Antonia non dice niente. Beve il caffè, mi guarda.
«Vorrei gridare» le dico. «Vorrei chiamarlo, andare da lui, scrollarlo per le spalle, prenderlo a schiaffi, riempirlo di baci. Riportarlo a casa. Affittare un aereo e far piovere sulla città biglietti con su scritte tutte le cose che abbiamo sbagliato, e quelle che possiamo ancora fare insieme. Vorrei aprirgli la testa e gridargli che no, non può proprio finire la storia tra noi, è troppo preziosa, è troppo bella».
Lei continua a guardarmi. Non parla. Non capisco se sorride o se è una smorfia di dispiacere.
«Cosa devo fare, Antonia? Alberto è l’uomo della mia vita, non riesco a smettere di amarlo. Mi dice che non sa, che non vuole parlare. Che quello che siamo stati è passato, e che non sa niente del futuro».
Nell’altra stanza, Martin muove la coda. Si è svegliato. Scrolla le pinne. Riprende a muoversi lentamente nell’acquario. «I pesci dormono sospesi» mi dice Antonia. «Nemmeno io lo sapevo, prima che il padre di Alice le regalasse Martin. Anch’io la prima volta che l’ho visto fare così ho pensato fosse morto. Invece è il suo modo di sopravvivere. Prendono le distanze e galleggiano al centro esatto del loro mondo. Interrompono qualsiasi movimento aspettando che torni la luce».

© 2008 Elena Battista