Caterina Falconi, Sulla breccia


Sulla breccia

Radio e Tv


  • Intervista a Radio Città del Capo (novembre 2009)

  • Pagine: 120
    Isbn: 9788895865065
    Collana: Fernandel
    Data di pubblicazione: marzo 2009
    Leggi come inizia


    «Così scoprirono di essere simili, e capirono di covare lo stesso rammarico per aver mancato occasioni di felicità»


    Quante volte le nostre scelte sono dettate da uno spirito rinunciatario, dalla paura della felicità? Quante volte propendiamo per il “male minore”, senza sapere a cosa realmente andremo incontro?
    Silvia è una ragazza che abita in una cittadina arretrata e maschilista. Si affaccia alla vita adulta sognando l’autonomia e l’amore di Angelo, ma per inerzia sposa l’amico di lui, Marco, ritrovandosi intrappolata in un’esistenza avvilente da cui sembra non esserci via d'uscita.
    Alla fine, ciò che sembrava quasi impossibile accade: nella notte di Ognissanti Silvia affronta i propri fantasmi, tra il buio e la vita, verso un imprevedibile finale quasi lieto...

     Caterina Falconi

    Caterina Falconi è nata ad Atri (Te) nel 1963. Laureata in filosofia, ha lavorato due anni nel reparto pediatrico di un ospedale africano come volontaria. Attualmente è educatrice in un istituto di riabilitazione di Giulianova, dove vive con le due figlie. Ha vinto il premio Teramo nel 1999. Sulla breccia è il suo primo romanzo. Nel 2014 per l'editore Galaad ha pubblicato Sotto falsa identità.

    Come inizia


    Silvia abitava in una cittadina antica che aderiva come una cuffia alla cima di una collina tondeggiante.
    Era una mattina di luglio, e una colata di sole sbiadiva i mattoni delle case, i vicoli, i vasi di geranio nei balconi.
    Silvia passeggiava con la sua amica Cinzia sotto le mura. Senza parlare, rilassata. Osservava l’ombra dei cipressi fremere addosso alle pietre brune. Gli alberi nerastri sul ciglio della strada. Il cielo era un risucchio turchino e le rondini lo attraversavano come schegge.
    Silvia aveva diciannove anni e Cinzia ventidue. Una settimana prima Silvia aveva superato l’esame di maturità alle magistrali con un risultato più che decente. S’era presentata come privatista, preparata dalla madre che era la preside del classico, e da una zia professoressa di matematica. Il padre, noto avvocato locale, aveva trafficato perché venisse promossa. Fino a quel momento Silvia aveva frequentato in modo discontinuo e con scarsissimo profitto il quarto ginnasio e due anni dello scientifico. Le due sorelle maggiori, secchione e griffate, studiavano legge e medicina a Roma, e Silvia intaccava con i suoi insuccessi l’immagine della famiglia. Per questo la madre, che era una donna autoritaria, quasi un tritacarne, una volta risolta la raffica dei problemi organizzativi dell’inserimento della seconda figlia all’università, aveva deciso che bisognava rimediare un diploma alla piccola. [...]

    Rassegna stampa

  • Un pizzico di felicità in un finale inaspettato (Camilla Cannarsa, dgmag.it, 24 marzo 2009)
    Il futuro di Silvia non è roseo come quello delle sue sorelle.
    Lei non ama studiare e il diploma di maturità lo ha preso grazie a qualche accordo preso dal padre con i professori. Forse, invece dell'Università, sarebbe meglio che studiasse per il concorso da maestra. Sua madre, autoritaria come un generale, vorrebbe che tutto fosse organizzato, deciso, programmato.
    Cinzia, la sua amica del cuore, è una rossa mozzafiato e fa in modo che Silvia curi il suo aspetto un po' trasandato. Marco e Angelo fanno parte del suo futuro, che però ha giocato con il suo destino e invertito i loro ruoli.
    Silvia è innamorata di Angelo, ma rimane incinta di Marco. Per "riparare" al danno, dovranno sposarsi e vivere tristemente un matrimonio senza parole e senza amore. Di aborto non se ne parla perché è peccato, dice la madre. Dopo il matrimonio, Silvia perderà il bambino spontaneamente.
    Nonostante la sua inerzia e la pigrizia con cui ha affrontato la vita, Silvia riuscirà a ritrovare un pizzico di felicità e a dare a questo romanzo un finale inaspettato.

  • Intervista a Caterina Falconi (Simone Gambacorta, 25 aprile 2009)
    Non mi stancherò mai di ripetere che la casa editrice Fernandel è fra le migliori in Italia. Non mi stancherò mai di ripetere che Giorgio Pozzi, il titolare, è un eccellente talent scout. Non mi stancherò mai di ripetere che grazie a Fernandel hanno visto la luce libri molto belli. Non mi stancherò mai di ripetere che Fernandel ha tenuto a battesimo ottimi narratori. Non mi stancherò mai di ripetere che Fernandel ha fatto benissimo a pubblicare "Sulla breccia" di Caterina Falconi. Non mi stancherò mai di ripetere che "Sulla breccia" (pp. 120, Euro 12) è un romanzo duro e teso, profondo e denso, doloroso e dolente, zeppo di psicologia e di criticità, e non mi stancherò mai di ripetere che vale davvero la pena di leggerlo. Non mi stancherò mai di ripetere che Caterina Falconi scrive benissimo e che le sue pagine (come dicono all'Accademia della Crusca) mi si tirano. Per questo ho voluto intervistarla: buona lettura. E leggetevi il libro.

    Due libri di racconti, poi, oggi, un romanzo. Un'evoluzione fisiologica o una sfida?
    "Credo un'evoluzione fisiologica. Dai primi racconti pubblicati, ogni volta che scrivevo, veniva fuori una storia più dilatata. Le storie lievitavano sotto le mie dita, per rubarti un'espressione che hai riferito a Gianluca Morozzi. Avevo sempre meno paura di non riuscire a trovare le parole giuste per descrivere situazioni, personaggi. E la mia ossessione si è spostata sulle trame. Adesso mi chiedevo... E' abbastanza verosimile? Come saranno i mobili in quella stanza? E la luce? E lei...che cosa l'ha portata a fare determinate scelte? Perché va ad incastrarsi con lui e non con un altro? E nel frattempo l'altro che fa? E così via. E a un certo punto ho lambito la novantacinquesima pagina, che è il limite oltre il quale un racconto lungo può diventare un romanzo...ero pronta."

    Cosa cambia quando si scrive un racconto e quando invece si scrive un romanzo?
    "In un racconto la vicenda riguarda fondamentalmente i protagonisti. Gli altri personaggi ed i fatti che li riguardano sono accennati, perché il fulcro narrativo non si sbilanci. Il romanzo ha un impianto narrativo molto più complesso. C'è sempre una trama da sviluppare, ma i personaggi secondari e i loro vissuti hanno una certa autonomia. Si innestano al contesto, come moduli, orientati in svariate direzioni, purché non prevalgano sui protagonisti."

    "Sulla breccia" parla di amore, di sentimenti, di scelte: come mai questo combustibile?
    "E' inutile negare che nel romanzo c'è anche una forte componete autobiografica. Il ‘combustibile', come lo chiami tu, ricalca un po' il mio personale approccio all'amore, vissuto come ossessione. Il tema delle scelte invece scaturisce dall'interrogarmi sul perché certe persone, innegabilmente dotate e affascinanti, preferiscano zavorrarsi legandosi a compagni passivi e conformisti, piuttosto che osare una relazione ad armi pari con chi potrebbe ‘sfamarle'. E credo che una delle risposte sia: perché, nonostante ripetute conferme esterne, sentano di valere poco. Perché sono state lese da antichi ricatti e da un antico disamore, e credono di non meritare. E poi ci sono altri fattori ...ad esempio il caso. Conosco tipi che hanno avuto il culo di imbroccare subito la strada giusta. Di intruppare in un compagno compatibile. Ma sono veramente pochi."

    Mi pare che nella storia contino molto anche le rinunce: quelle che sanno di silenzio, di rassegnazione, di retromarcia, e che però poi impongono di fare i conti con se stessi.
    "I personaggi di questo romanzo, più che rinunciare,una volta nell'incastro di vite imboccate per superficialità, per distrazione, sembrano non farcela a venirne fuori. Sono attanagliati dall'incapacità di fare una scelta diversa. Certamente l'omissione è la peggiore delle colpe, e alla fine la vita ti presenta il conto."

    Non credo "Sulla breccia" possa definirsi un romanzo al femminile, penso piuttosto possa parlarsi di un romanzo di donne. O meglio: il romanzo d'una donna sulle donne, sulle donne viste soprattutto in rapporto all'amore e agli uomini.
    "Io non nego che possa esserci una scrittura al femminile. Ma penso che ogni scrittura sia contaminata da scritture complementari. E' vero che racconto di una donna e delle altre, e per farlo a volte guardo penso e scrivo come un maschio. Ma cerco di sezionare anche i personaggi maschili. Angelo in particolare. Mi snerva quel suo scollare i contenuti affettivi e sentimentali dalla trappola delle convenzioni. Eppure è un uomo di formidabile intelligenza. Dov'è che si incaglia? Mi chiedevo mentre cercavo di indossarlo per descriverlo... Un uomo così, nella vita, mi avrebbe fatta impazzire. E non dico che non sia successo."

    I tuoi personaggi sono anche molti tipizzati psicologicamente...
    "Sono tipizzati perché sono convinta che in letteratura, come nella vita, ad imporre alle vicende un certo andamento, a sospingere in determinate direzioni, siano le storie pregresse, per usare uno slang da medico di base. Il passato si imprime nella psiche, e scava solchi che inevitabilmente ci risucchiano. Ci vuole un grande coraggio per spalare i propri detriti ed aprirsi nuovi varchi. E il prezzo di questo coraggio è la solitudine, e qualche volta la pazzia. Silvia alla fine ce la fa, a dare una picconata alla sua parte depressa. Ed Angelo cozza come una falena contro il proprio desiderio. E tutti fanno i conti con il passato, in un'ottica quasi psicoanalitica, che poi è il criterio della mia lettura del mondo... da brava paziente. Da paziente istruita."

    Poi c'è il piccolo centro, la piccola provincia che fa da teatro alla vicenda...
    "C'è il teramano. Questo strano ibrido di campagna e costa. Di finta apertura e sotterraneo conformismo. E sono la malignità, la maldicenza, a connotare lo sfondo della vicenda di Silvia. Quel mondo di comari bellicose che ce l'hanno con lei, che non si è fatta assorbire."

    Cos'è che avevi più a cuore mentre scrivevi: cosa volevi che la storia dicesse?
    "Avevo a cuore un uomo. E me stessa. E poi c'era come un rumore di oggetti spaiati nella mia testa. La voglia di raccontare. E le suggestioni che mi accendono ogni giorno. I particolari vividi che assorbo. Un continuo dolore. Avevo bisogno di sistemare tutte queste cose in una storia. Ma non è stata una ricerca di senso, per citare Francesca Bonafini (autrice del romanzo ‘Mangiacuore', anch'esso edito da Fernandel, ndr): il senso è dato dall'interpretazione. Volevo trovare dei nessi. Individuare l'ordito di certe relazioni. E crearmi un mondo parallelo, più consono a me, in cui immergermi, e attirare gli altri... per esempio i lettori."

    Il tuo romanzo è fatto di problematicità, di criticità, di implosioni, però non ha un epilogo asfittico, anzi, al contrario...
    "L'epilogo ha sorpreso pure me. Mi è uscito fuori così, come una ‘complicanza' nel decorso della storia. Non ero preparata a tanto ottimismo,e mi ha fatto un po' paura." Il romanzo lo ha pubblicato Fernandel, di Giorgio Pozzi. Se non sbaglio, la sua presenza è stata qualcosa di più d'una presenza...
    "Giorgio è un amico. E un gran signore, se si può ancora parlare di signorilità. E in questo senso, nel garbo, nella finezza, nella generosità, è molto simile a te. Lavorare con lui è piacevole, per via delle affinità nel guardare al dolore e alla scrittura con gli stessi occhi. Eppure, nella nostra collaborazione, ormai quinquennale, non si sono mai mescolati elementi personali. Molti miei racconti sono stati ‘segati' (per usare un'espressione pozziana che fa impazzire le mie figlie), altri amputati. L'unico mio merito è avere capito che persona preziosa mi stesse accordando fiducia. Giorgio è un grande editor, e un talent scout. E uno coraggioso, nelle scelte editoriali, nel promuovere autori eterogenei e difficili. E' anche un maestro. Rimettendomi alle sue critiche e ai suoi elogi ho imparato il mestiere. Gli sono molto grata."

  • Sogni e speranze, fatalità ed errori (Carina Spurio, 25 aprile 2009)
    Silvia e Cinzia abitavano nello stesso vicolo ed erano cresciute assieme. Silvia aveva diciannove anni e Cinzia ventidue. Cinzia aveva i capelli rossi e gli occhi verdi. Viveva il presente senza tante complicazioni...
    «Un'ora dopo passeggiavano per i viali deserti della villa comunale. Cinzia e Angelo davanti. Marco e Silvia dietro. Angelo avrebbe preferito la brunetta, con quell'aria dolce e intelligente, ma la strafiga gli aveva lasciato intendere di essere disponibile...»
    «Più facile lasciarsi andare al bacio di Cinzia, che gli riempì la bocca di un liquido sapore di chewing gum. Facile lasciarsi sbottonare i jeans addossato a un pino bitorzoluto. Cinzia infilò la punte delle dita nei suoi slip. Sfiorò la sua erezione. Silvia si voltò, li vide, e provò una tale rabbia, un gelosia così intensa da fare la prima di una lunga serie di stronzate che le avrebbero rovinato la vita: baciare Marco».
    Due anni dopo Silvia e Marco si erano sposati. Nell'avvilente routine quotidiana Silvia sperava nell'arrivo di qualcuno che la portasse via, qualcuno che somigliasse ad Angelo. Silvia e Angelo si erano ritrovati avvinghiati nel buio totale...
    «Posso chiederti perché hai sposato Marco? Se sono troppo invadente stoppami...»
    «No, non sei invadente. L'ho sposato perché l'ho guardato dalla parte sbagliata. Marco stava a destra...»
    «E io davanti a voi, quella mattina alla villa».
    «Con Cinzia...»
    «Con Cinzia, già».
    «Già».
    «Ero confuso. Se non avessi fatto la cazzata di baciarla...».
    «Hai fatto di più».

    Sulla breccia sogni e speranze, fatalità ed errori.
    Dentro la storia, Silvia e il suo segreto.
    Dentro un segreto lo smarrimento e la consapevolezza di amare Angelo. Nell'imprevedibile finale, il senso di un'identità perduta riaffiora nella perdita e negli intrecci del destino che sembrano prendersi gioco degli esseri umani e dei loro sentimenti.

    Caterina, Sulla breccia atterri o decolli?
    «Né l'uno né l'altro. Sulla breccia è una nicchia, c'è dentro uno dei mondi che ho inventato. Posso entrarci e uscire quando voglio, riposarci. Vorrei fabbricarne altre di anse così...dici che mi sto alienando?»

  • Uno strano "romanzo di guerra" (Rino Mele, cronachesalerno.it, 10 maggio 2009)
    Ho appena terminato di leggere uno strano romanzo di guerra, "Sulla breccia", guerra quotidiana e minima, difficile da percepire (ancora più da analizzare) ma in cui il senso di ostilità e di perdita, di lutto e aggressione si ipertrofizza e strazia ad ogni giro di frase, l'incurvarsi della sintassi scarna e vivace, spire di un dialogo chiuso che è ripetuta ansia di parlare a se stessi. La protagonista si sdoppia in due volti, due corpi adolescenziali (Silvia più monacale e Cinzia "con gli occhi verdi enfatizzati dal kajal e le ciglia ispessite dal rimmel"). Partecipe di una dualità che presto si frantumerà, ed è la condizione femminile questo essere sempre altrove, in un altro corpo di donna (la madre o un fantasma), per difendersi dall'incubo e dal desiderio che la vita concede alla sua poca identità, e a quella di ognuno. Come passare indenne tra gli sguardi degli uomini di un paese arcaico e senza storia? Silvia si sposa presto secondo i rigidi canoni sociali, impigrisce nella violenza matrimoniale. L'incipit del romanzo è già fin dall'inizio tutto il romanzo, schema di un labirinto da cui non si esce se non per entrare nel suo riflesso che ne raddoppia la pena. Con Cinzia si vedrà sempre meno ma la sua immagine è il conforto di uno specchio ingannatore, metà del suo "io" è lontano ma non per questo è più salvo. Il marito Marco, l'amico medico Angelo che diventa il sogno rovesciato del suo sconforto, che sembra mostrarle un varco, una via apparentemente non sbarrata. Poi, la metà dell'intero si cancella, cade nel nulla, Cinzia muore. Il romanzo va avanti così secondo lo schema del gioco del domino, una tessera si lega alla successiva e metonimicamente formano insieme già una sequenza, e così di seguito, un dolore vicino a un corpo e il corpo lo divora. Il romanzo ha una rude e aspra prospettiva femminile: al centro un corpo di donna e, intorno, la voracità di uomini distratti. Il linguaggio è volutamente mimetico rispetto al mondo maschile, quasi a sottrarre alla sua cecità la cupezza del possesso: lancinante ferità che, anche chiusa, butta sangue. Nel romanzo di Caterina Falconi (edito da Fernandel, Ravenna) la tensione del racconto è più forte della sapienza linguistica che gira a volte intorno a se stessa. Quasi autoreferenziale, si ripete e gode di meravigliare per una testarda e ingenua sfrontatezza. Il tema del lungo racconto della Falconi è il dolore che il corpo di una donna custodisce e alimenta, e tira su, cura fino a farsi più male, e può portare la morte. (Come nella novella quinta della quarta giornata del "Decameron": il corpo della donna è sottratto alla storia, ma tutto si svolge nella geometria della sua ricostruzione: i fratelli di lei uccidono il suo amante perché lei continui a riempire il cielo vuoto del dominio impossibile). Lo schema del testo della Falconi è teatrale, brevi veloci dialoghi in cui i personaggi si mostrano secondo la ripetizione dell'ansia della possibile vicendevole cattura, i protagonisti sembrano insetti predatori raccontati da un entomologo, e le stesse prede soggiacciono a un istinto di dominio. Il tema della sessualità e della maternità s'intrecciano fittamente fino a urtarsi. La seduzione del romanzo è la sua forma diaristica, quel voler registrare tutto, il limite è il linguaggio troppo mimetico di quella realtà bassa e dolorosa, che esso riesce a evocare ma non a interpretare compiutamente. Una trama arsa e intensa e un linguaggio che non sempre risolve la drammaticità delle situazioni in rappresentazione, sciogliendosi in immagini (e può essere un pregio, un po' filmiche, un po' televisive): alla fine, ed è un tempo di sospensione, la protagonista sdoppiata ritrova - in una scura visione lucente - la parte persa di sé.

  • Dopo la presentazione a Teramo (Manuela Valleriani, abruzzocultura.it, 11 maggio 2009)
    Giovedì 7 maggio, presso la Sala Carino Gambacorta della Banca di Teramo, si è svolto l’ennesimo appuntamento culturale promosso dall’istituto di credito teramano per questa stagione: la presentazione del romanzo “Sulla Breccia” di Caterina Falconi (Fernandel, 2009).
    L’evento ha visto la presenza del Presidente della Banca, l’Onorevole Antonio Tancredi, dell’autrice e del critico letterario Simone Gambacorta.
    Caterina Falconi, originaria di Atri e residente a Giulianova, già vincitrice di un’edizione del Premio Teramo, ha pubblicato due raccolte di racconti con la ‘raffinata’ casa editrice Fernandel; “Sulla breccia” è il suo primo romanzo.
    Giorgio Pozzi - nella sua doppia veste di editore ed “editor” - ha il merito di aver scoperto numerosi talenti in ambito letterario (tra i quali ricordiamo il teramano Roberto Michilli) ed è per l’autrice amico e ‘mentore’, ovvero colui che le ha insegnato il mestiere. Condividono un atteggiamento “ossessivo” nei riguardi della scrittura, che li ha portati a lavorare in modo estenuante alla stesura del libro, e che certamente è uno degli ingredienti a cui si deve la perfetta riuscita di questo romanzo.
    Un romanzo breve, dotato di forza icastica e crudezza - ma anche di momenti delicati e parimenti intensi - che non risparmia pugni nello stomaco e turbamenti, senza per questo risultare scontato nel suo epilogo, tutt’altro che desolante.
    La storia principale è quella di Silvia, che fa da ‘filo rosso’ ad una vicenda ambientata in un piccolo centro di provincia e variamente ‘intessuta’ di scelte e rapporti personali, sentimenti, tradimenti, dolore e famiglia.
    La storia di ciascuno di noi, insomma - pur nelle differenze che ciascuna vita porta con sé - e che qui trova “sulla breccia” di un piazzale (“breccia è una parola che etimologicamente rimanda ad una ‘rottura’) lo scenario dei suoi avvenimenti più drammatici e dunque la metafora di una condizione, esistenziale e persistente, di infelicità.
    Non si riesce a staccare gli occhi (e il cuore) dalle pagine di questo libro, che avvince e conquista perché - come ha sottolineato Simone Gambacorta nella sua relazione - assolve al principale compito della letteratura, quello di mettere in luce la vulnerabilità degli esseri umani.
    Il sistema dei personaggi - che in un romanzo deve essere necessariamente più complesso rispetto a quello richiesto dalla forma del racconto - è ben costruito dell’autrice, che indugia in una caratterizzazione fisica e morale di ciascuno di essi, evidenziando in particolare “le motilità interne senza sconfinare in un eccesso di psicologismo che nuocerebbe alla narrazione” (Simone Gambacorta).
    L’equilibrio tra le varie parti del libro è garantito anche dalla presenza di brevi sequenze descrittive - di luoghi ed atmosfere - che servono a ‘stemperare’ la drammaticità del contenuto, e nelle quali la scrittura vira verso effetti ‘pittorici’ di chiara ascendenza paterna (il papà dell’autrice è il noto artista Gigino Falconi), da cui non è esente neanche l’episodio onirico - catartico in una lettura psiconalitica - che investe Silvia nella parte finale del romanzo.
    Per il resto lo stile è fortemente asciutto e funzionale alla narrazione: ‘crudo’ - come ha evidenziato la stessa Caterina Falconi - quando la situazione lo richiede, più ‘morbido’ nei momenti in cui la tensione si allenta e “la protagonista si ritrae dai suoi agìti”.
    In conclusione, Caterina Falconi è un’autrice che ha vinto la sfida con il romanzo (la prova più ardua per uno scrittore) perché “Sulla breccia” emoziona senza pietismi, e soprattutto perché costringe a guardarsi dentro e a riflettere su quei comportamenti umani - frutto di antichi disamori -che sono dolenti per sé e per gli altri, ma che non rinunciano alla speranza che questa disvelata “verità sull’esistenza” (Simone Gambacorta) possa non essere l’unica realtà possibile.

  • La capacità di ritrarre con effica­cia la quotidianità del "piccolo centro" (Simone Gambacorta, «La città», aprile 2009)
    Dopo due libri di racconti, Caterina Falconi ap­proda al romanzo e lo fa con Fernandel, una delle più intelligenti case editrici italiane. "Sulla brec­cia" è una storia dura e intensa, che non rispar­mia scosse (meno male) e che sorprende per la tenuta della scrittura. Ne è protagonista Silvia, una giovane donna che a un certo punto della vita si trova costretta a guardare in faccia la re­altà coniugale (e senti­mentale) in cui è immersa. Il fatto che la Falconi sia di Giulianova le ha consentito di ritrarre con effica­cia la quotidianità del "piccolo centro", tra perbenismi bigotti, dicerie e comari di turno. Ma quel che più si apprezza di "Sulla breccia" è la psicologia dei personaggi, le cui fisionomie emergono senza troppi giri di parole (anche grazie agli ottimi dialoghi). Caterina Fal­coni non ama sbrodolare, cerca l'asciuttezza, cerca la rasoiata, cerca la nota che strappa (il bello è che la trova), ed è per questo che "Sulla breccia" è un romanzo di una durezza tutta psicologica e incen­trata sul (chiamiamolo così) male matrimoniale. Al centro della storia c'è una mente assediata da pensieri che non accettano (più) d'essere elusi: lo specifico di una vita coniugale sbagliata, sembra dire l'autrice, sporca soprattutto il quotidiano, con l'abitudine e la rassegnazione che diventano com­promessi sempre più muti. Ma la corruttela origi­naria che porta a questo sta nell'aver imboccato una strada senza averla davvero voluta e senza averla davvero scelta. Il problema è che poi arriva un giorno in cui non è più possibile sottrarsi allo specchio, anche se non è mai troppo tardi per spe­rare in un colpo d'ala che redima un destino e lo sollevi da un avvilente rasoterra. Speriamo che Ca­terina Falconi ci regali presto un altro romanzo bello come questo.

  • Un incontro totale (Bartolomeo di Monaco, paginatre.it, 20 luglio 2009)
    È il romanzo d’esordio dell’autrice che nel 1999 vinse il premio Teramo.
    La storia si svolge “in una cittadina antica che aderiva come una cuffia alla cima di una collina tondeggiante.” Siamo nella provincia di Teramo, dove la Falconi è nata nel 1963.
    Silvia Mancini appartiene a quella gioventù annoiata che non ha ancora avvertito il proprio destino. I genitori sono riusciti a farle prendere il diploma magistrale e stanno trafficando per trovarle un lavoro. La ragazza trascorre il suo tempo passeggiando con l’amica Cinzia, una che non si fa mancare i suoi amorucci estemporanei. Rimprovera a Silvia di non fare altrettanto. Un rapporto analogo si ripete tra Marco e Angelo, il primo impiegato da poco nell’ASL, il secondo appena laureato in medicina e praticante come guardia medica. Angelo ha perduto la fidanzata Rirì investita da un’auto pirata e ancora non è pronto ad affrontare un nuovo amore.
    Dietro l’angolo del loro destino li attende l’incontro con le due ragazze, un incontro fatale.
    L’autrice ha una scrittura piacevole e disinvolta che a tratti ricorda quella della scrittrice lucchese Francesca Duranti. Lo stesso brio saporoso che fa trasparire ogni tanto qualche malizia.
    Silvia, che avrebbe voluto sposare Angelo e invece sposa Marco, è schiava di questo errore e la sua vita si consuma tra delusione e noia. La sua è una esistenza contaminata e repressa, rappresentativa di una condizione abbastanza diffusa anche ai nostri giorni, in cui la fretta di sentirsi emancipati e liberi impedisce una analisi attenta dei propri sentimenti. Un tempo, la scelta del proprio partner era preclusa ai diretti interessati da una tradizione che impegnava i futuri sposi sin da bambini in forza di una decisione che spettava soltanto ai genitori. Non si aveva la possibilità di manifestare i propri sentimenti e si andava incontro ad un destino desolato. Oggi che si potrebbe evitare l’infelicità coniugale, la si provoca con la smania di una emancipazione ricercata con dissennatezza e a qualunque costo.
    Così, per tutta la vita, come accade a Silvia, si è rosi dal rimorso e si vagheggia una via d’uscita che ci riserbi un po’ di felicità: “Presto qualcosa sarebbe accaduto.” È questo il tema principale del romanzo. L’attesa di un dono che non può non esserci riservato, un dono rischioso, a cui abbiamo diritto soprattutto nella sventura. Il problema sarà, caso mai, non perdere la testa e cadere in un nuovo precipizio.
    Il dono, dunque, come possibile trabocchetto, come ulteriore prova della nostra insufficienza a trattenere la felicità. Il linguaggio dell’autrice si fa duro, scarnifica la sofferenza, frusta l’indecisione e lo smarrimento. Angelo non ha il coraggio di andare avanti in un rapporto d’amore qual è quello anelato da Silvia. Silvia avverte la solitudine e il pericolo della disperazione. Si lascia andare, si dà ad altri uomini tradendo il marito e Angelo: “Era convinta di non meritare niente di meglio”. Sente tuttavia che può ancora farcela ad afferrare un po’ di quella felicità che le spetta. Ma come? Scrive l’autrice: “In un giorno la vita di Silvia si impennò e virò bruscamente. Come spesso accade quando un nuovo destino ci assale, il mutamento arrivò da dove nessuno se lo aspettava.”
    Si passa attraverso delle vere e proprie disintegrazioni perfino allucinatorie, come se il mutamento del proprio destino non possa nascere che da una deflagrazione la quale faccia tabula rasa del passato confondendo per un istante morte e vita, e mettendoci alla prova di una scelta che non può fallire, poiché sarà l’ultima e definitiva. Silvia e Angelo sono così il simbolo di una infelicità prodotta dalla mancanza di coraggio, che può essere risolta solo a costo di una lacerazione che, liberando noi, va però ad abbattersi sugli altri.

  • Scritto da un'acuta annotatrice dell'animo umano (Marilù Oliva, Thrillermagazine.it, agosto 2009)
    "Sulla breccia", edito dalla casa editrice ravennate Fernandel, è il romanzo d’esordio di un’autrice di Teramo, Caterina Falconi, classe 1963, già segnalatasi per i suoi racconti (è stata vincitrice del premio Teramo 1999 e del concorso Fernandel Fiocco Rosa, 2007).
    Oltre una trama in apparenza semplice, quella stagliata su una vita un po’ opaca in un paesuncolo gretto, su un matrimonio stretto avventatamente e per cause di forza maggiore, si stempera una seconda trama, quella esistenziale e complessa di una donna, Silvia Mancini, che sposa Marco pur amando Angelo, che si eleva nell’amore – o nel sogno di esso – oltre le meschinità e le infime battaglie che scandagliano i gesti quotidiani, le distanze relazionali, le rinunce.
    Il suo abbandono alla vita si schianta contro le frustrazioni del quotidiano, del luogo comune, del conformismo, delle aspettative che intrappolano in logoranti ma tenaci meccanismi familiari. La sua ansia di vita si risolve dunque in un “lasciarsi vivere”, in un’inerzia languida che è punto debole ma per assurdo è anche la forza che incammina verso il finale e sorprende.
    Emblematici sono i personaggi, tutti descritti con intensità, e tra questi ne cito solo alcuni: la madre di Silvia, un tritacarne, l’amica Cinzia, disinibita rossa ossigenata, Rirì che appare e scompare solo con le struggenti sembianze fantasmatiche del ricordo. Nella galleria, resta scolpita l’immagine del tossico Roberto, preludio funereo che lascia, al passaggio tra le pagine, la tristezza della sua storia e un sapore acerbo di morte.
    La scrittura è limpida ma potente, a tratti poetica, e non solo negli scorci paesaggistici: «Osservava l’ombra dei cipressi fremere addosso alle pietre brune. Gli alberi nerastri sul ciglio della strada. Il cielo era un risucchio turchino e le rondini lo attraversavano come schegge», ma anche nei momenti intimistici: «In quel periodo i discorsi ringhiati davanti alla televisione, nella fioca luce ballerina dello schermo, assediati dal silenzio della casa che si svuotava, erano monologhi amari».
    Un romanzo sia di donne sia di uomini tra le donne, scritto da un’acuta annotatrice dell’animo umano – e dei suoi sbalzi -, con una componente autobiografica come combustibile - come l’autrice ha dichiarato in un’intervista -, e soprattutto uno spaccato letterario molto interessante perché si può affiancare a quella storia delle donne, in anni non troppo lontani e in un'Italia arretrata, di cui questa vicenda può assurgere a paradigma.

  • Lei, lui, l’altro. Un intreccio antico come il mondo... (Sara Trabalzi, luminol.it, 10 settembre 2009)
    Lei, lui, l’altro. Un intreccio antico come il mondo, eppure in questo valido esordio Caterina Falconi riesce a tessere una storia che tiene il lettore stretto alle pagine sin dal fortunato incipit: «Silvia abitava in una cittadina antica che aderiva come una cuffia alla cima di una collina tondeggiante». La incontriamo subito Silvia, e in un attimo comprendiamo il suo sacrificato destino: nata in una famiglia attenta solo alla superficie, si affaccia alla vita con azioni maldestre e decisioni confuse che la porteranno a scegliere un’esistenza accanto a Marco, un uomo che non ama e che mortifica i suoi entusiasmi. Unica via d’uscita Angelo, il solo ad avvertire la sua stessa nausea per quel paese claustrofobico e addormentato; ma dopo un primo slancio Silvia rinuncerà ai suoi sentimenti e si condannerà a una disgraziata sopravvivenza. Sulla breccia non è soltanto una storia d’amore, è un romanzo di formazione, perché la protagonista percorre con dolore una strada che la porterà a prendere coscienza di sé, passando dallo strazio all’anestesia dei sentimenti, attraverso la concessione del proprio corpo a chiunque ne voglia banchettare, in un vortice di annullamento che si conclude con una riemersione felice. Accanto a Silvia personaggi solitari, ognuno chiuso a chiave nel proprio fatale ruolo: Cinzia, l’amica facile, (per essere vincente come lei, Silvia gioca a fare la donna con Marco), Liala, la compagna di Angelo, assopita in un’esistenza dai giorni sempre uguali; Marco, limitato all’unico desiderio di guadagnare una posizione sociale rispettabile e infine Angelo, figura speculare a Silvia, giovane insicuro e dannato (meno riuscito della protagonista), che come Silvia sceglie il certo per l’incerto e si castiga a una vita sempre sospesa. Il personaggio con cui la Falconi dà particolare prova della sua ottima penna è Roberto, la cui vicenda si inserisce nel testo come un cammeo a sé stante, una storia nella storia di grande efficacia letteraria e in cui si può riconoscere forse il vero alter ego della protagonista. Roberto è «un angelo stropicciato e inconsapevole», il ragazzo perduto figlio di perduti, che sceglie la droga come unica compagna, diventando il boia di se stesso. Roberto «si infila nelle case», larva in cerca di sonno, fantasma nei cui occhi Silvia ritrova la propria dannazione ed è in questo specchio di pena che forse comprende la necessità della salvezza. Nella notte di Ognissanti, in un delirio fatto di alcol e perdizione, Silvia conclude la propria caduta, in un viaggio che l’autrice lascia indefinito tra sogno e rivelazione. Una discesa agli inferi di memoria dantesca, in cui la protagonista viene trascinata dall’amica Cinzia e da Roberto ormai defunti, e nell’aldilà ora capaci di vedere la strada che porta alla liberazione. Sulla breccia dunque è un romanzo, che pur non esente da formule stereotipate, vanta una scrittura felice e spesso capace di fendere l’animo dei personaggi e concederlo al lettore.