Francesca Mazzucato, Villa Baruzziana. Storie di marginalità


Villa Baruzziana. Storie di marginalità
Pagine: 104
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: 1 dicembre 1997


«Un po’ Rimini, un po’ Mirabilandia, un po’ Sexylandia. Tutto. È quel tutto che piace a Maroko che ha conosciuto solo il niente»


Otto brevi racconti scritti con straordinaria omogeneità stilistica: una prosa straripante, esplosiva, che si legge d'un fiato e altrettanto velocemente si assimila, proprio come un flusso di coscienza. Quasi tutti ambientati in una irriconoscibile Bologna, sono storie d'amore estremo vissute tra la follia e l'Aids, scritti dopo i primi racconti pubblicati sulla rivista «Fernandel», e dopo il romanzo Hotline. Storia di un'ossessione (Einaudi, 1996).
Copertina di Angela Zini
Francesca Mazzucato

Come inizia il racconto “Villa Baruzziana”


La distanza dotata di una sua onnipotenza e angusti passaggi fra le case signorili, facciate e davanzali in estrema solitudine, scorci e sfavillanti insegne dei locali, la tangenziale e i lampioni rotondi che la accompagnano a grappoli da entrambi i lati lasciando un alone sui parapetti e sul guardrail, tutto è di fronte a me ma in maniera tutt'altro che semplice, una luce un po' liquida con vene e striature e uno sfondo nero e invadente, osservo con un'attenzione difettosa e imperfetta sporgendomi dal muretto che delimita il panorama davanti alla casa di cura Villa Baruzziana visite solo dalle tredici alle quattordici e dalle sette alle otto di sera orari da rispettare tassativamente perché alle otto meno cinque gli infermieri già ti fanno capire che è meglio se ti prepari e te ne vai e non ti concedono un minuto in più neanche se ti inginocchi e li supplichi, per questo oggi ho dovuto salutare in fretta Ludovico che mi guardava silenzioso dall'angolo della stanza punto di incrocio dei due muri portanti dove i muri formano una specie di nicchia protettiva che gli piace molto e ci va a rintanarsi quasi tutti i giorni osservando con la solita espressione stupita i manifesti con vallate e paesaggi marini che non vedrà mai dal vero e che non vedranno mai dal vero gli altri ospiti della villa che chiamarli ospiti è usare un eufemismo per non dire i matti, mi guardava in silenzio Ludovico dalla sua nicchia dondolandosi un po' ma poco rispetto al solito che a volte si dondola come una trottola impazzita e continua per ore e ore con una meccanicità disumana, un silenzio quieto senza alcun rimprovero, un silenzio mansueto di accettazione e di contemplazione dell'ineluttabilità delle cose e dell'ineluttabilità del tempo, l'ho guardato anch'io senza riuscire a trattenere il senso di colpa per il fatto di doverlo lasciare e la disperazione insieme al disagio che inevitabilmente mi provoca quel senso di pulito, quelle lenzuola sempre candide e gli infermieri con la faccia sorridente ma coi modi bruschi che lo toccano e lo spingono a fare cose che lui non dovrebbe e non vorrebbe fare, gli infermieri che lo aiutano a reggere la matita per scrivere e gli puliscono il mento quando sbava, e poi il disagio per i soffitti affrescati e quell'impressione di falso decoro che impregna di sé ogni stanza, ogni salone, ogni ambulatorio senza riuscire a nascondere la sofferenza perché il decoro non nasconde mai la sofferenza, ci prova, cerca di abbellirla, di modificarla di profumarla ma non la nasconde, mi sono detta adesso esco da questo posto schifoso e mi fermo a guardare il panorama per vedere se c'è qualcosa, anche solo un lampione, una mosca o un pulviscolo dell'aria che è diventata scura e porosa che mi chiama a partecipare alla sua storia, che mi coinvolge e mi toglie dagli occhi l'immagine di Ludovico che si dondola silenziosamente, devo riprendermi dal distacco che forse se lo diluisco nel tempo in una contemplazione svogliata della città mi apparirà meno duro, forse si attenuerà un po' questo dolore che è una morsa d'acciaio e mi prende lo stomaco senza lasciarmi alcuna scappatoia [...]