Adrián N. Bravi, Restituiscimi il cappotto


Restituiscimi il cappotto

Rassegna stampa


  • «Che fatica essere capiti in Italia» («Lo Specchio della Stampa», 27 novembre 2004)

  • «Un lungo, accanito, compassionevole soliloquio» (Tommaso Lucinato, «L'Urlo», febbraio 2004)

  • «Sotto il cappotto, tutto» (Clementina Sandra Ammendola, «MigraNews», 20 dicembre 2004)

  • Pagine: 96
    Isbn: 9788887433456
    Collana: Fernandel
    Data di pubblicazione: settembre 2004


    «E dai, cazzo!»

    La scomparsa di un cappotto azzurro polvere impedisce al protagonista di realizzare i suoi progetti, cioè di ammazzarsi come aveva deciso di fare dopo aver capito che «la morte è l’unica cosa che può salvare da tutte le fatiche». Senza cappotto, tocca ancora stare qui a faticare, a patire freddo, ad avere vergogna, a dannarsi con le parole...
    Foto di copertina di Nathan Farb.


    Adrián N. Bravi
    Adrián N. Bravi è nato nel 1963 a San Fernando, Buenos Aires, e vive da molti anni a Recanati. Il suo primo romanzo è del 1999, Río Sauce, pubblicato a Buenos Aires. La prima pubblicazione italiana è Restituiscimi il cappotto, a cui sono seguiti i romanzi La pelusa (Nottetempo, 2007), Sud 1982 (Nottetempo, 2008), Il riporto (Nottetempo, 2011), L'albero e la vacca (Feltrinelli, 2013).

    Come inizia


    Avrei voluto rimanere così, per sempre, immobile e supino, sul letto, le mani appoggiate sullo stomaco, come un morto che non chiede altro che restare così, sul letto di morte, con un fiore azzurro appoggiato sul petto, ecco come avrei voluto rimanere quella mattina. Non riuscivo più a riprendere sonno. Mi rigiravo di qua e di là, chiudevo gli occhi, li riaprivo, poi tornavo alla posizione iniziale, guardavo il soffitto, le macchie d’umidità, la finestra chiusa, cercavo di dare un senso a quella posizione supina che mi portava ricordi, idee stupide, come tutte le idee, e ho pensato che avere delle idee è proprio da imbecilli. Tutti gli imbecilli hanno sempre delle grandi idee che non servono a nulla. Ma quella mattina non me ne fregava niente di trastullarmi con delle idee, volevo solo morire e non pensare più: «La morte è l’unica cosa che mi può salvare da tutte le fatiche», mi dicevo. Così è stato, ed è bene che tu lo sappia perché se ora sono qua, da solo in questa stanza, con un freddo che mi sta gelando le ossa, è solo per colpa tua e di nessun altro. Non fare quello che casca dalle nuvole, sai bene di cosa sto parlando. E mentre pensavo alla morte sdraiato sul letto mi ero accorto che non è per niente semplice farla finita con questo cavolo di mondo, ci vuole coraggio, ispirazione. Non è che uno si sveglia di buon mattino e decide di morire, così, come se niente fosse. Bisogna avere talento, idee chiare. In ogni modo, nonostante la poca propensione che sempre ho avuto per morire, quella mattina sarei voluto rimanere così, immobile e supino per il resto dei giorni. Avevo deciso di ammazzarmi, volevo che la morte mi sorprendesse così com’ero, in quella situazione stagnante e senza alternative. Dovevano essere le nove o le dieci del mattino. A quell’ora, di solito avevo già cominciato a lavorare da un paio d’ore, ma quella, bisogna che tu lo sappia, era stata la mia mattina di crisi: ero stato licenziato da alcuni giorni, i creditori bussavano alla porta, i miei risparmi erano sfumati e cominciavo ad annoiarmi. Non era la prima volta che mi succedeva. Un’altra mattina pure, avevo quasi deciso di buttarmi dal quinto piano. Scrissi una lettera perché i posteri riflettessero sulla mia decisione, misi in ordine la casa, ma purtroppo non ebbi il coraggio nemmeno di affacciarmi al balcone. Mi spaventava il pensiero che durante la caduta mi si sarebbe potuto rivelare qualcosa, non so, la verità, il senso ultimo della vita, queste cose qua, e, una volta compreso tutto, ecco l’irreparabile morte venirmi incontro. Se fossi stato certo che dopo essermi buttato, mentre precipitavo, la mente mi sarebbe diventata bianca come un pezzo di carta, forse l’avrei fatto. Ma sarebbe stata una fregatura se la rivelazione finale si fosse mostrata all’improvviso, arrivato al primo piano o a pochi metri prima di schiantarmi. A cosa sarebbe servito? Allora è meglio rimanere ignari per sempre. Insomma, come ti dicevo, quella mattina mi volevo suicidare. Mi ero talmente stufato, tutto mi faceva rabbia e mi tediava oltre ogni dire. Vedere le persone affaticarsi come se avessero dovuto campare chissà quanti anni. Si vogliono guadagnare la vita? Va be’, libere di farlo, però, a me, che mi lascino in pace con tutte quelle incombenze inutili. Non l’ho mai capito tutto quell’affaccendarsi, perché allora ci vogliono mettere dentro pure me? Anzi, diciamola tutta, nel mio caso l’idea del suicidio era nata dall’impossibilità di non aver potuto, per primo, ammazzare tutte le persone che vedevo per strada, affannate, sempre di corsa. Era quella la mia principale ambizione: disfarmi di quelli che hanno troppe pretese. Volevo convincermi che, uccidendoli, gli avrei fatto un piacere. [...]