Gilles Ascaride, Il peggiore di tutti


Il peggiore di tutti
Pagine: 192
Isbn: 9788887433883
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: ottobre 2007
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«Un romanzo in bianco e nero che ricorda l’atmosfera dei bei vecchi film francesi»


Questo romanzo è la storia di un pentimento: il signor Bianco, insegnante in pensione, un uomo tranquillo che vive nella certezza di non aver mai fatto del male a nessuno, scivola improvvisamente in un incubo persecutorio: chi gli augura la morte? Chi lo minaccia dalle vetrine dei negozi? Chi gli manda lettere minatorie? Chi scrive ingiurie sul muro di casa sua? Dal passato del signor Bianco riemerge la figura di un bambino, Jean Petofì, un compagno di scuola di origine ungherese sottoposto alle violenze psicologiche e fisiche di due capobranco, sostenuti dall’intera classe, vigliaccamente succube. Miserie dell’infanzia che tornano a perseguitare il protagonista a distanza di decenni. Riuscirà il signor Bianco a farsi perdonare e a perdonarsi?
Dopo l’attenzione suscitata in Italia dalla raccolta Amori moderni, Gilles Ascaride torna in libreria con un romanzo grottesco e inquietante, che affronta il tema sempre attuale del bullismo e la critica quasi metafisica dello spirito di prevaricazione che è in ognuno di noi, anche nell’uomo all’apparenza più inoffensivo.
Traduzione di Elena Battista.

 Gilles Ascaride
Gilles Ascaride è nato a Marsiglia nel 1947. Laureato in sociologia, lavora come ricercatore all’università della Provenza. Ha scritto e pubblicato una decina di romanzi, sollevando una certa attenzione in Francia. Ha scritto testi teatrali che sono andati in scena sia in Francia che in Belgio. Da Amori moderni è tratta una pièce teatrale che il Théâtre du Millénaire ha rappresentato con grande successo al festival Off di Avignone nel luglio del 2005.

Così la stampa francese


«Il romanzo di Gilles Ascaride è di una bellezza nera, pieno di lacrime. Non manca niente all’arsenale narrativo di questo scrittore, progettista di personaggi indimenticabili. Il suo non è soltanto un capolavoro di equilibrio narrativo, ma anche un potente noir etico di una terapeutica lucidità» (La Marseillaise)

«Intrigante e malinconico, riesce sempre a farci ridere, pieno com’è di un umorismo caustico e devastante» (Télérama)

«Ascaride riesce nell’alchimia di mescolare la risata e il pianto, il dramma e la commedia» (La Provence)

Come inizia


La cosa più fastidiosa delle emorroidi è che è impossibile dimenticarsene del tutto. Sono delle compagne esigenti. Fanno male, bruciano, prudono, tirano. E anche quando sembra di non sentirle, le senti lo stesso. E poi sono umilianti. A me, che sono un tipo molto suscettibile, non piacciono per niente. I dottori mi fanno ridere: o ti dicono «Non è niente di grave» oppure «Bisogna trattarle con disprezzo». Be’, disprezzare il proprio culo non è mica facile, non ci riesce nessuno. E com’è che allora danno risposte che si chiamano Danflon 500, Cirkan, Ginko Biloba, Proctolin o Preparazione H? Le emorroidi danno da vivere alla gente, creano posti di lavoro, come si può trattarle con disprezzo? Io quindi non le disprezzo, però non mi piacciono e non mi piace curarle. Non mi piace che s’impadroniscano dei miei pensieri e da tanti anni mi costringano a rifletterci sopra. Sono più di dieci che il dottor Duluc, il mio gastroenterologo, ha emesso il suo verdetto, banale per lui ma tragico per me: «Signor Bianco, bisogna pensare a una legatura e poi alla crioterapia. È una cosa che si fa in ambulatorio, senza problemi, un’operazione molto semplice e lei si libera». In ambulatorio? Cosa vuoi che sia!, gli ho risposto. Ma i medici non hanno il senso dell’umorismo, infatti il dottor Duluc non ha neanche sorriso. Io invece sì, almeno quello. Un giorno mi ha trovato piegato in due in sala d’attesa. Piegato in due dal ridere, per fortuna. Il paziente prima di me, un signore molto più avanti con gli anni con il quale stavo scambiando due chiacchiere, aveva fatto questa riflessione: «Ma lei ha notato che il dottor Duluc non riconosce mai i suoi pazienti quando entrano? Quando però gli mostrano il posteriore lui esclama “Allora come va, signor Pinco Pallino?” A modo suo è fisionomista. Pare che saluti così mezzo quartiere, di schiena, diciamo». Il signore malizioso mi aveva fatto l’occhiolino e si era infilato nel “gabinetto” del dottore, e quando era venuto il mio turno ridevo ancora. Ma le legature e la crioterapia non fanno ridere neanche un po’. Ne ho viste, di vittime di questa soluzione finale, torcersi dal dolore senza il coraggio di rivelare la fonte dei loro tormenti per paura di provocare un’ilarità in- controllabile. Perché, come se non bastasse, le emorroidi fanno ridere. Quindi il povero martire tace. A parte in un caso, è vero. Il signor Imparato, il mio vicino del piano di sotto, uomo dalla prosa alata e immaginifica e ciononostante anch’egli defunto, per suscitare la mia compassione mi aveva confessato senza falsi pudori l’intervento appena subito. «Signor Bianco» aveva concluso, «ho il culo come una lattina di pelati». Andateci voi, a farvi operare, dopo una cosa così! Mi sono tenuto le mie sgradevoli compagne. Ma il buon Duluc ci torna su spesso. Peggio per lui. E peggio anche per me. Mi arrangio. Insomma, così credo. Perché a volte mi vengono dei dubbi atroci. So bene che è una cretinata, ma forse neanche tanto. Le tormentose sputatrici di sangue avranno contribuito all’allontanamento di Catherine? Lei si arrabbiava tanto per le mie lamentele! Ancora! Mi sfondi con le tue emorroidi! Ed era proprio così, mi sfondavo dalle mie stesse fondamenta. E lei crollava. Mi diceva che dovevo far finta di niente, di scordarmele. Ma, l’ho già detto, è impossibile, nessuno può fare una cosa simile. E comunque, io non ci riesco di sicuro. Glielo dicevo, ma insomma, Catherine, non posso! Lei gonfiava le guance, soffiava, a volte rideva, anche lei. Ne avevo sempre una! Le emorroidi, bisogno di pisciare, mal di pancia, mal di cuore, prurito agli occhi. Quello poi per lei era il colmo. Ma insomma, a nessuno prudono gli occhi! Be’, a me sì invece, e come si fa a grattarsi gli occhi? C’è un sacco di gente che va a finire che muore, per degli acciacchi sciocchi e irritanti, e Catherine s’infastidiva. Credo che avrebbe preferito fossi malato di cancro, di leucemia, di cuore o di sclerosi a placche. Forse in quel caso si sarebbe tramutata in angelo della misericordia, infermiera al fronte, e mi avrebbe considerato come un grande combattente. Forse a quest’ora sarebbe ancora qui a curarmi devota. Non che Catherine fosse un ricettacolo di qualità, anche se di qualità ne aveva molte, però non era né cattiva né crudele. Quindi c’è da credere che io l’abbia esasperata, con il mio raspare. Certamente è così. Però non è modo. Non si lascia un uomo, con il quale si sono passati venticinque anni, per dei piccoli fastidi come questi. No, non si fa. Penso a tutto ciò grattandomi il didietro e mi rendo conto che devo avere proprio l’aria di un deficiente. Ma dato che non mi vede nessuno… [...]

Rassegna stampa

  • Intervista a Gilles Ascaride (Intervista redazionale)
    È possibile, da adulti, riuscire a perdonarsi per le miserie e le cattiverie commesse nell'infanzia oppure le colpe commesse da bambini sono destinate a perseguitarci da adulti?
    Dipende da come si è fatti. Ci sono persone che sono molto brave a perdonarsi, altre perennemente oppresse dai sensi di colpa e altre ancora che dimenticano con grande facilità... Il fatto è che l’infanzia non svanisce mai, ci accompagna, a suo modo, per tutta la vita. Per alcuni è un ricordo incantato, per altri è avvelenato. Ma credo si possa sempre vedere la differenza tra chi ha avuto un’infanzia infelice e chi no.

    L'infanzia è una vita a parte?
    Certamente, sì. Scoprire, imparare, socializzare, sono sempre momenti fondamentali. Poi è l’inizio di tutto, ed è sempre importante, rischioso, entusiasmante ma anche terrificante.

    Il romanzo è anche a suo modo una riflessione sulla malattia e la morte, oltre che sull'infanzia e sul passato. Quale dei due temi è nato per primo come filo conduttore del libro?
    Si tratta più di un romanzo sul passato che sull’infanzia. E’ un libro della maturità, di una certa età della vita. L’ho scritto a 52 anni, una età nella quale ci si fanno delle domande pressanti sulla propria morte, un’età in cui la malattia ti minaccia, anche statisticamente, in modo più pesante di prima, e nella quale il passato diventa davvero passato, davvero lontano. E quindi ci si ripensa. Il filo conduttore del libro è proprio quello della ridefinizione di se stessi.

    Il tema della vendetta, del castigo e dell?espiazione della colpa viene ripreso spesso nel romanzo. Da dove viene questo interesse per un tema "classico", ma così poco frequentato dalla narrativa contemporanea?
    La colpa, il castigo, l'espiazione, sono dimensioni che si possono considerare da un punto di vista sociale, ed è proprio per questo che esistono le leggi. La vendetta è e dev'essere un problema strettamente personale. Io sono per la difesa della legge, ma non sono contrario alla giusta vendetta, perché riguarda solo me. Però bisogna sapere che la vendetta comporta dei rischi, e che bisogna accettarli. Mi piace molto questa relazione tra il collettivo e l'individuale, dopo tutto sono anche un sociologo! Sono dimensioni effettivamente poco frequentate nella narrativa contemporanea, da una parte perché vengono promossi sempre di più contenuti "lisci", largamente accettati, condivisi dai "benpensanti" e dall'altra perché la cosiddetta "libertà individuale" tanto cara alla nostra epoca bolla come noiosi concetti quali il rimpianto, il pentimento, il perdono... Mentre, per quanto cristiane, io le considero dimensioni di una estrema nobiltà.
    Attenzione però, si possono anche trattare argomenti così profondi in modo ironico e divertente, ecco perché l'umorismo è uno dei tratti fondamentali del romanzo. Anche se l'umorismo, in Francia, è spesso assai mal visto in letteratura!

    Uno degli aspetti più curiosi del romanzo è il rimescolamento di vicende assolutamente realistiche e quotidiane con incursioni oniriche e fantastiche nel mondo del fumetto e dell' invenzione. Uno dei protagonisti della storia, cosa curiosa per un lettore italiano, è un personaggio dei fumetti italianissimo, Dylan Dog. Perché hai deciso di farne un personaggio del romanzo?
    Perché le avventure di Dylan Dog mi affascinano, e posso leggerle solo in italiano. Trovo che abbiano un'abilità narrativa, una complessità di situazioni e personaggi, un'inventiva e una tale ricchezza, al confine tra la paura, il fantastico e il quotidiano, con in più il gusto dell'umorismo e della nobiltà dei sentimenti, che mi ci ritrovo moltissimo. Solo Dylan Dog poteva entrare così bene nella storia allo stesso tempo semplice e complessa di Bianco, il protagonista. E poi così come Petofì viene da un "altrove", così è anche per Dylan Dog (dal fumetto, dall'Italia, da un sogno). "Indagatore dell'incubo", per me è una cosa straordinaria, noi in Francia non ce l'abbiamo mica una cosa così!

    Nel tuo libro si parla anche di rapporti familiari, per esempio del rapporto difficile che il protagonista ha con la sorella. Tu che rapporto artistico hai con i tuoi fratelli celebri (Ariane Ascaride, attrice, e Pierre Ascaride, regista teatrale)?
    Intanto un punto di principio: mai mescolare la vita reale e privata con la produzione artistica: se mia sorella assomigliasse a Solange, la sorella di Bianco, avrei smesso di frequentarla da un pezzo!
    Mia sorella e mio fratello sono degli eccellenti professionisti e dei veri artisti. Siamo vicini e diversissimi, per fortuna. Sono anche molto appassionati dell'Italia, come me, mio fratello ha messo in scena molti autori italiani (De Filippo, Calvino, la Ginzburg, Landolfi, Primo Levi, Manlio Santarelli...).
    Ci è anche capitato di litigare furiosamente, una tradizione di famiglia che per fortuna sembra placarsi con l'avanzare dell'età!
    Diciamo che in tre siamo riusciti a mettere in atto il progetto che aveva mio padre, da solo, e che no ha avuto il tempo di compiere in una vita sola: Ariane recita, Pierre fa il regista e io scrivo... Ma anche questo è cambiato negli anni, perché mia sorella si occupa anche di regia e scrive sceneggiature, mio fratello si è messo a scrivere per il teatro e io mi sono rimesso a recitare, da qualche tempo. Ci è capitato di lavorare in duetto ma mai in trio, e dato che siamo ancora tutti al mondo, chi lo sa?

  • «Eroe, macho? Macché lui è il peggiore di tutti» (Stefania Nardini, Scritture & Pensieri, supplemento de “Il Corriere”, 16 dicembre 2007)
    Cosa dire di un autore che apre un suo romanzo con una sorta di "manifesto" contro uno dei flagelli che colpisce in particolare i maschi? Il signor Bianco di problemi ne ha da vendere, ma per raccontare di sé ha la necessità impellente di partire dal suo didietro, dalle sue emorroidi.
    Gilles Ascaride lo conosco da un bel po'. Vive nella città che per quattro anni mi ha adottata e che adoro: Marsiglia. Dove ho lasciato la mia casa (ora vivo tra Nizza e l'Umbria), qualche mobile che non sapevo dove piazzare, perfino la lavatrice! Ma ho portato con me lui. Si, mi sono portata appresso un autore marsigliese che dopo averlo letto nella sua lingua è stato finalmente tradotto in italiano e dunque ve ne posso parlare. Di lui potrei raccontarvi che è un professore universitario, un ottimo sociologo. Ma per me è ciò che scrive.
    L'ultimo suo libro si intitola "Il peggiore di tutti" (edizioni Fernandel), e ve lo consiglio non perché Gilles è un mio amico, ma perché certi libri li considero "terapeutici", meglio di certe pillole che prescrivono i dottori della Asl.
    Ascaride "spia" la nostra vita, ma a differenza di un voyeur ce la racconta con una risata. Il signor Bianco e le sue emorroidi, dicevo. Un insegnante in pensione, un tranquillo, di quelli che si sentono innocui ma che a un certo punto vive un incubo persecutorio: qualcuno gli augura la morte. E da quell'incubo ripercorre a ritroso la sua esistenza soffermandosi sull'infanzia che gli rivelerà delle sorprese. Chi è il peggiore di tutti?
    “È ciascuno di noi secondo la situazione o il periodo. E' chi crede che tacendo e guardando altrove stia facendo "come se". Uno che si fa i fatti suoi per proteggersi da tutto. Il signor Bianco è un "eroe". Un neutrale. Non è cattivo, non è perverso, non è peggio di altri. Ciò che lo rende il "peggiore di tutti" è l'idea che avrebbe potuto essere diverso, coraggioso e giusto“. Gli uomini sono veramente bizzarri come tu li descrivi?
    “In che cosa gli uomini sarebbero così bizzarri? Uomini troppo uomini... e poi…. E' diffusa un'immagine raggelata dell'uomo. Le donne si occupano di se stesse da tanti anni. Gli uomini sono spesso degli imbecilli muti. Non sanno molto bene che cosa dire su di loro, poiché teoricamente occupano il posto dei "dominatori". Ora, la società degli uomini è estremamente diversa e gerarchizzata... solo che "gli uomini" non lo dicono o non sanno dirlo. Allora sì, è vero che amo lavorare su delle personalità maschili "complicate". Ma non pretendo di riassumere la "condizione maschile". Probabilmente tanti uomini non somigliano per niente ai miei personaggi".
    Ma dove la trovi tanta ironia? Confessa Egidio sono le tue radici italiane? E le donne?
    “Mi piacerebbe che fossero vere! Anche se sono ispirato dalle donne che ho conosciuto o talvolta amato... credo che ho sempre la tendenza sia a renderle migliori, o ancora più misteriose. Non bisogna dimenticare che in "Il peggiore di tutti", la visione delle donne è quella di Bianco. Che sia Catherine, Véronique o Solange, le si conosce solamente per ciò che lui racconta. Nei miei romanzi le donne sono spesso come le amo o come le vedo: non hanno gli occhi gelidi, sanno più facilmente ciò che vogliono, e sono più coraggiose.... non ho incontrato ahimè, sempre donne così. Perché le donne hanno meno paura della vita“. Un complimento caro Gilles non guasta mai!

  • «Un gran bel romanzo» (Renzo Montagnoli, Qlibri.it, 10 gennaio 2008)
    Sull’ultima di copertina sono riportati, fra altri elementi, gli stralci di recensioni apparse su giornali francesi, in verità tutte azzeccate, ma forse la più riuscita è quella de La Provence.
    In effetti, come noir è del tutto atipico, anzi l’aspetto saliente è quello di un romanzo di introspezione, che alterna momenti di ilarità con altri di profonda malinconia, ma senza che queste apparenti contrapposizioni finiscano con lo svilirne l’intima essenza, cioè la storia di un’autentica, sofferta espiazione. La drammaticità è psicologica in un uomo che arrivato a un certo punto di una vita condotta quasi nell’anonimato comincia a ricevere strani messaggi composti da due sole parole: Pagherai, szemét! L’ultima, che è ungherese, tradotta significa infame.
    E il nostro personaggio, di nome Bianco, si arrovella sempre di più non riuscendo a capacitarsi come lui, sempre attento a non urtare mai nessuno, abbia potuto compiere qualche gesto o qualche atto che possa giustificare una simile reazione. Procede quindi a un esame a ritroso di tutta la sua vita arrivando alla sua pubertà e all’ambiente scolastico, da cui poco a poco emergono i contorni di una vicenda di cui, a distanza di tempo, prova rimorso.
    Giunge a questo risultato attraverso una serie di quadri del periodo scolare che, se da un lato possono muovere alla risata, dall’altro rivelano squallori di intensa drammaticità.
    Così troviamo alunni scalcinati, altri due prepotenti e sadici, un ragazzo di origini ungheresi di sicura personalità e raffinatezza, tanto da apparire nell’ambiente un pesce fuor d’acqua, e lui, il signor Bianco, che cerca di tenersi buoni tutti, soprattutto quelli che comandano e sottopongono gli altri ad angherie, fino al punto di dare il colpo di grazia a una vittima sacrificale, proprio il magiaro.
    Il ripiombare, con il ricordo, nell’abiezione del proprio comportamento ingenera il rimorso e il disperato tentativo di porre un tardivo rimedio.
    Giocato esclusivamente sul filo psicologico, ma con grande abilità e senza mai che ci sia una caduta di ritmo, o che si verifichino passi improvvisi che appesantiscono la narrazione, Il peggiore di tutti è un gran bel romanzo, piacevole da leggere e che fa molto riflettere.

  • «Oltre cinquant'anni dopo, il passato si risveglia, tinto di giallo» (Gianluca Mercadante, «Pulp», marzo-aprile 2008)


  • «Un umorismo che si esprime anche, e più scopertamente, per mezzo di alcuni inserti onirici e fantastici tratti dal mondo del fumetto» (Marcello D'Alessandra, «Il sottoscritto»)
    «La cosa più fastidiosa delle emorroidi è che è impossibile dimenticarsene del tutto». Incipit per un romanzo decisamente inusuale, ma irriverenza e sarcasmo sono quelli tipici di Gilles Ascaride, come riconosceranno quei lettori italiani - troppo pochi rispetto ai meriti, colpa anche di una critica distratta - che hanno avuto modo di apprezzare il suo talento in Amori moderni, libro di racconti molto meritoriamente pubblicato in Italia da Fernandel (2006, quando con Ascaride l'editore di Ravenna ha aperto ai narratori stranieri). Incipit al contempo anticipatore e, a suo modo, programmatico dell'intero romanzo: perché impossibile da dimenticare si rivela anche e con fastidi non meno dolorosi di quelli prodotti dalle emorroidi, un ricordo che riaffiora dall'infanzia del protagonista, a distanza di cinquant'anni.
    Insegnante in pensione, vicino ai sessanta, abbandonato dalla moglie, nelle giornate di colpo diventate troppo lunghe gli accade, come mai in passato, di pensare: a fargli compagnia il suo lato oscuro, Black - lui si chiama Bianco -, un diavoletto tormentatore. «Anche tu hai le tue macchie», gli diceva la moglie. A innescare il ricordo dei tempi lontani della scuola sono le minacce di morte che il protagonista riceve, in forma di lettere minatorie e di scritte ingiuriose sul muro di casa sua. Ricostruendo il proprio passato troverà le origini delle minacce che gli angustiano il presente. E così riemerge la figura del compagno di classe, suo vicino di banco, l'indifeso Jean Petofì, pesantemente vessato da due spietati capobranco, eterni esempi di un bullismo che nell'epoca di Youtube ci sembra imperversare - ma c'inganniamo - come mai in passato. Il protagonista, che partecipa passivamente come gli altri alle violenze, si troverà su incarico del maestro a frequentare, nei giorni in cui era assente da scuola per un malanno, la casa del martoriato Petofì: un'occasione per conoscersi e, superata l'iniziale diffidenza, stringere amicizia. Ma all'ennesima violenza dei due piccoli carnefici - al povero Petofì s'imponeva di non defecare nei bagni della scuola, tanto che quella volta, al ritorno in classe, se la sarebbe fatta addosso -, quando Petofì si aspettava da Bianco un aiuto che non ebbe, fu allora che dopo essergli saltato addosso scaricandogli una raffica di pugni, fu allora che gli disse (e fu per sempre): «Tu sei il peggiore di tutti! Non ti parlerò mai più! Sei il peggiore di tutti, sei un infame. Infame!». Deve essere lui - si convince Bianco -, non può che essere lui, Petofì, che a distanza di tanti anni è tornato per vendicarsi e ora minaccia di ucciderlo. Perché Bianco è colpevole, di una colpa lontana, commessa da bambino, che credeva di aver rimosso, e da cui ora, adulto, già in pensione, si sente braccato. Unica via d'uscita gli sembra quella di ritrovare Petofì: per spiegargli, per giustificarsi o più semplicemente per chiedergli perdono, come in tutti quegli anni, tutta una vita ormai, aveva mancato di fare. E così si mette sulle sue tracce.
    Sia notato di passaggio, sul piano narrativo, come l'impianto realistico, che dà l'impronta al romanzo, sia percorso da quell'umorismo che è uno dei tratti più tipici di Ascaride (in Francia - ha dichiarato l'autore in un'intervista - visto con sospetto in letteratura: a rivendicare un'originalità che gli va riconosciuta). Un umorismo che si esprime anche, e più scopertamente, per mezzo di alcuni inserti onirici e fantastici, tratti dal mondo del fumetto: con Dylan Dog, «indagatore dell'incubo», impegnato a condurre le ricerche per ritrovare Petofì.
    È impossibile dimenticare del tutto, si diceva all'inizio, come per le emorroidi: è precisamente questa la condanna che grava sul protagonista, sempre più consapevole quanto più distinto si fa il ricordo; questa è la cifra del suo destino. In una sorta di proustiana ricerca del tempo perduto, ma alla rovescia, perché il tempo ritrovato, che coincide col ritrovamento del compagno vessato e ora vendicatore - Retrouver Pétofi è il titolo originale del romanzo -, rappresenta tutt'altro che un approdo salvifico.
    Il passato, questa terra di nessuno, dimenticata, che pare più non ci appartenga - sembra dirci il romanzo -, custodisce la colpa di cui saremo chiamati a rispondere. Un torto che abbiamo commesso in un'età, l'infanzia, che per comune sentire è quella dell'innocenza, forse per questo la colpa anche piccola è avvertita come grande, e che una volta adulti siamo portati a ridimensionare, a dimenticarcene, quando non a rimuovere del tutto. Salvo quando questo passato, implacabile, minacciosamente ritorna. Non è un caso che a Bianco ciò accada nella fase declinante della vita, quando ha smesso di lavorare e di avere una moglie, perché lo ha abbandonato per un altro.
    Sul tema della minaccia che viene dal nostro passato, al centro del romanzo, un rimando possibile col presente più stringente viene da un articolo di Antonio Scurati, intitolato «La vita impigliata nella rete», apparso su «La Stampa» del 22/12/2007. A proposito delle immagini pedo-pornografiche ritrovate nella memoria del computer dell'indagato nel delitto di Garlasco, immagini che inchiodano a un passato che si credeva cancellato (come debitamente erano state cancellate quelle immagini compromettenti, dal diretto interessato, salvo vederle riportare alla luce dagli esperti d'informatica). Notizia che offre lo spunto, a Scurati, per una considerazione più ampia del fenomeno che a livelli di colpe decisamente più lievi tutti può riguardarci, nel tempo in cui internet e la tecnologia più in generale (si vedano le intercettazioni telefoniche) registrano quasi ogni passo del nostro vissuto: «Tutto il nostro passato, tutto quello che abbiamo fatto o che siamo stati, ci sarà imputato. Camminiamo sotto un cielo di ricognizione piena e totale». Per poi concludere, in una perfetta consonanza col romanzo di Ascaride: «Al solo pensiero ci coglie la vertigine: chi di noi può reggere tutto se stesso agli occhi del mondo?».

  • «Spassoso e intenso, con un linguaggio vivace e attuale» (Andrea Di Carlo, Mangialibri.com)
    Professore in pensione, separato dopo venticinque anni di matrimonio, perseguitato da fastidiosi problemi emorroidali, il Signor Bianco vive un'esistenza piatta scandita dalle solite visite mediche, il quotidiano caffè al bar sotto casa, le irritanti conversazioni con Black, un piccolo demonio che lo costringe a prendere atto dei suoi errori. La routine viene improvvisamente spezzata il giorno in cui il Signor Bianco inizia a ricevere quelle che senza dubbio sono minacce di morte indirizzate proprio verso di lui. Chi riempie la sua cassetta della posta di fogliettini bianchi? Chi scrive sul muro del palazzo di fronte la parola "szemet", canaglia, farabutto? Forse un vecchio alunno, sicuramente qualcuno del suo passato che non ricorda più. Fortuna che ad aiutarlo, almeno nei suoi sogni, c'è l'indagatore degli incubi per eccellenza...
    L'incipit di questo romanzo è uno dei più esilaranti degli ultimi tempi. Dalle prime pagine ci rende subito conto della maestria che ha Gilles Ascaride nel riuscire a trasformare momenti di ordinaria angoscia o depressione in situazioni comiche. Il Signor Bianco è un povero diavolo che si ritrova, suo malgrado, a fare i conti con quello che ha lasciato irrisolto alle sue spalle. La prima persona semplifica la comprensione del suo bilancio di vita quasi senile, che gli lascia davvero poca speranza di riscatto. Inaspettatamente tra i personaggi appare Dylan Dog, la celeberrima creatura fumettistica di Tiziano Sclavi, che accompagna come un moderno Virgilio il protagonista verso la risoluzione del caso. Spassoso, ma contemporaneamente intenso, con un linguaggio vivace e attuale, in linea con i sobborghi marsigliesi in cui parte della vicenda è ambientata.


  • I libri di Gilles Ascaride pubblicati da Fernandel