La vita addosso. Nove scrittori raccontano nove vite estreme


La vita addosso
 Una delle illustrazioni di Danijel Zezelj che compaiono nel libro
Pagine: 192
Isbn: 9788887433746
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: ottobre 2006
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«Nove storie tutte vere, fra cronaca e racconto»


Le storie che compaiono in questa antologia sono talmente vere da sembrare romanzate. A scriverle sono nove autori che hanno passato parte del loro tempo accanto a persone che, dopo aver vissuto a lungo “ai margini”, hanno intrapreso un percorso di recupero. Il legame che si è creato ha permesso agli scrittori di ricostruire la vicenda personale di questi uomini e donne senza volto, e di raccontarla in maniera esplicita e sincera, senza artifici letterari. La vita addosso racconta il mondo pressoché invisibile delle prostitute, dei transessuali, dei carcerati, dei tossicodipendenti e degli sbandati che quotidianamente lottano per mantenersi a galla. Arrabbiate, amareggiate, ma anche piene di speranza, le voci di questi uomini e donne impressionano per l’umanità che comunicano e per la loro naturalezza. Sono storie di chi ha salvato la pelle, raccontate in una disperata ricerca di “normalità”.
Copertina e illustrazioni di Danijel Zezelj. Presentazione di Carlo Lucarelli.

Gli autori:
Valerio Aiolli; Enzo Fileno Carabba; Leonardo Gori; Emiliano Gucci; Gianluca Morozzi; Divier Nelli; Daniele Nepi; Giampaolo Simi; Marco Vichi

L'opinione di una lettrice


«Questo libro mi ha cambiato. Molti libri mi sono piaciuti, diversi mi hanno fatto star male quando ho finito di leggerli perché mi è sembrato di aver perso un amico, ma i libri che ti cambiano sono davvero pochi» (D. S.)


Rassegna stampa

  • Intervista a Leonardo Butelli, direttore del Ce.I.S. di Lucca, e a Marco Vichi (Intervista redazionale)
    "La vita addosso" nasce da un progetto importante e ambizioso, dare voce a persone ai margini attraverso le parole di scrittori. Cosa ti ha spinto a intraprendere questo progetto?
    Devo fare una breve premessa, prima di rispondere nello specifico alla tua domanda. Molti anni fa, quando ero più giovane, lessi uno dei capolavori della letteratura anglosassone: il "De Profundis" di O. Wilde. Chi lo conosce sa che è una delle più belle confessioni sulla condizione umana: tristezza, melanconia, denuncia della ipocrisia sociale di quel tempo, si fondono in un unico grande progetto di disvelamento della verità, tanto celata dai costumi dell'epoca. Ebbene, quando don Bruno (che è il presidente del Ce.I.S. Gruppo "Giovani e Comunità " di Lucca) mi chiese se mi occupavo dell'editoria del Gruppo, la prima idea fu di realizzare un romanzo che narrasse la verità delle dinamiche che spingono tante persone a ripiegare ai margini della società. Sono convinto che la libertà sia il principio cardine per la crescita di una persona e quando questo viene meno, per diverse circostanze e ragioni, viene meno anche il senso ultimo della vita. Lessi allora un po’ tutto quello che era stato prodotto dall'editoria cosiddetta sociale e, soprattutto, quella legata ai gruppi che fanno solidarietà. Mi resi conto che c'era in ogni racconto di vita una sorta di falsa testimonianza, una bugia di fondo: tutte le storie finivano con una piccola o grande "redenzione". Io non ci credo. Penso invece che chiunque transiti nelle comunità, nei centri di accoglienza, o comunque in un luogo di riabilitazione, per i più disparati motivi, non si redima, non diventi santo, piuttosto impari a non farsi più fregare, dalla droga o da altre forme di schiavitù. Su questo ordine di pensiero scrissi un progetto che si chiamava "La stanza dello scrittore". Il progetto partiva dal presupposto che ogni persona ospite della comunità potesse raccontare la sua storia, senza reticenze e soprattutto senza voler dimostrare nessun tipo di ravvedimento morale o sociale. Per fare questo, da buon lettore quale sono, ho coinvolto scrittori che per la loro capacità ritenevo in grado di aiutarmi. Devi sapere che nelle comunità del Gruppo, ci sono ex prostitute, che hanno alle spalle storie di rapimenti, sfruttamento, violenze, torture psicologiche inimmaginabili. Trans sfruttati, derubati della loro identità, violentate e massacrate dai pregiudizi. Insomma, un arcipelago di storie che andavano narrate senza reticenze. Ebbene, gli scrittori hanno assunto il ruolo di tutor, hanno vissuto con loro intensi momenti di vita, hanno raccolto il materiale grezzo, lo hanno sistematizzato e articolato in un vero e proprio racconto.

    È stato duro per gli ospiti del Ce.i.s., coinvolti nel progetto, ricordare e raccontare la loro storia?
    Per alcuni sì, soprattutto per le ragazze. Sono molto giovani e poche usano l'italiano in modo corretto. Altre meno, penso a Paola, Michela o Ale. Noi le chiamiamo con un termine orrendo: trans. In realtà sono donne che hanno voglia di raccontarsi, di parlare delle loro vicende, un po’ per difendersi, un po’ per civetteria. Ci sono stati momenti duri. Ho un ricordo che mi addolora anche ora, quando una ragazza, rapita, trasferita in Italia bendata, messa sul marciapiede giovanissima, raccontò la sua storia a Marco Vichi. Quando tutto il racconto fu completato un pomeriggio, lo leggemmo insieme. Pianse, non andò oltre la quinta o la sesta pagina, poi ci disse: "Non voglio, ora ho un fidanzato, non voglio che sappia queste cose di me". Ricominciammo tutto da capo. Ricordo un altro episodio, quello di Omar. Era malato e Daniele Nepi mentre ci parlava lo vedevo in difficoltà. Omar morì il mese dopo. Ci siamo chiesti come doveva essere raccontata la storia di Omar, e Daniele ha tirato fuori una delle cronache narrate più belle che io abbia mai letto.

    Il fatto che tutti gli autori, eccetto Gianluca Morozzi, siano toscani, è una pura fatalità o hai voluto che il progetto fosse quanto più radicato nel territorio?
    In primo luogo giudico gli autori che io ho coinvolto tra i più bravi in circolazione e il fatto che molta critica li annoveri tra i "giallisti" mi urta. Molti di loro hanno scritto delle pagine bellissime al di là del genere: sono bravi scrittori e questo mi basta. In secondo luogo ho scelto i toscani, per così dire, perché li seguo, li leggo e mi piacciono. Li ho invitati più volte a Lucca per promuovere i loro libri e ho constatato che sono delle belle persone. Non è mica scontato. Un’antologia di racconti come la immaginavo io, doveva essere scritta anche con il cuore, oltre che con la tecnica. Inoltre sono tutti scrittori che, chi più e chi meno, hanno una forte propensione all'impegno sociale, e anche questo nel panorama della letteratura italiana non è cosa da poco. In fondo io volevo (e credo che ci siamo riusciti tutti insieme) che l'antologia cambiasse in chi l’avrebbe letta il modo di pensare la "diversità", la sfiga, o meglio l'ingiustizia e le sue aberranti leggi.

    Breve intervista a Marco Vichi, autore del racconto Io sono Paola

    Com'è stato il primo incontro con Paola, la protagonista del tuo racconto? Le cose per me sono andate in modo un po’ diverso, per via di un piccolo incidente di percorso. Ho incontrato alcune volte una ventenne, fuggita da una condizione di prostituzione forzata, che viveva sotto la protezione della polizia. Una bella ragazza, piena di vita e molto triste al tempo stesso. Era contenta di raccontare, di buttare fuori quel veleno. Ma appena ho finito di scrivere il racconto sulle sue vicende – in effetti molto drammatiche – lei ha deciso che la sua storia non dovesse essere pubblicata, anche se il suo vero nome ovviamente non sarebbe comparso (nemmeno io so come si chiama). Ci stavamo avvicinando alla scadenza che avevamo fissato per la consegna del lavoro, e dovevamo trovare una soluzione. Alla fine Leonardo Butelli, uno dei direttori del Ceis, ha intervistato Paola con un registratore e mi ha spedito la cassetta. Paola l’avevo già vista diverse volte al circolo InChiostro di Lucca, un ristorante vegetariano gestito dal Ceis, dove lei lavora come cameriera. Nella registrazione parla con una sincerità quasi infantile di cose molto crude.

    Come si sono svolti gli incontri successivi? Siete rimasti in contatto?
    In effetti non abbiamo mai parlato direttamente del racconto, anche se Paola lo ha letto e so che le è piaciuto. Forse in qualche presentazione ci sarà anche lei a parlare di questa antologia. Non ha avuto problemi a raccontarsi in quella registrazione, e non credo che ne avrebbe di fronte a un pubblico.

    È stato difficile mettersi a scrivere una storia così drammatica sapendo che quello che stavi riportando era accaduto realmente?
    Devo dire che quando scrivo scattano altre cose, e in quei momenti a dominare è sempre il “piacere” del raccontare: inseguire le parole migliori per far passare l’emozione dall’altra parte della pagina. Da lettore, se quello che leggo è capace di emozionarmi, provo un forte piacere anche – o soprattutto - nel leggere le storie più terribili e tragiche. Una storiaccia diventa bella, se è scritta come si deve. Leggi il Male, e ti senti bene. E’ come se la letteratura avesse la capacità di purificare qualsiasi liquame.

    Nel tuo racconto la figura del magistrato, rispettoso e delicato davanti alla crudezza delle risposte di Paola, allevia, per quanto sia possibile, la drammaticità della narrazione. È una figura inventata o un uomo realmente incontrato da Paola?
    Inventata. Non so se esistono magistrati così. Mi piace sperarlo, ma in fondo non ci credo. Sentivo il bisogno di trovare una situazione in cui il “personaggio” di Paola potesse rivelarsi fino in fondo, magari con aria di sfida. Sentendo la registrazione, con Butelli che la incalzava con domande di ogni tipo, mi è venuto in mente la figura di un magistrato inconsueto, curioso più di conoscere una persona che di interrogare un imputato.

  • «Vite in bilico che ci dicono: guarda, anche loro sono come te» (Michele Barbolini, «Pulp», gennaio-febbraio 2007)
    Si dice che uno scrittore nei propri libri finisca sempre per parlare un po’ di sé. Tuttavia a volte capita invece che si faccia carico delle storie di altri; di chi vorrebbe raccontare la propria, di storia, ma non sa come fare. Nasce in parte da qui l’esperimento di La vita addosso: raccogliere attraverso le voci di nove autori le difficili esperienze di donne e uomini che stanno cercando di tornare a sperare, di recuperare un senso alle proprie esistenze.
    Non occorre andare lontano per scontrarsi con vite precarie e frantumate; siamo tutti testimoni ogni giorno di quotidiane sofferenze di cui poco o nulla sappiamo; le prostitute lungo la strada quando rincasiamo la notte, l’immigrato che ci sfiora e magari ci mette paura, il ragazzo con lo sguardo perso che chiede degli spiccioli. Forse a qualcuno viene da chiedersi da dove arrivino queste persone, che vita sia la loro e come è cominciata. Ecco allora nove storie, nove testimonianze raccolte da altrettanti scrittori ognuno dei quali, col proprio stile, prova a raccontarci una vita che non gli appartiene. Una parola sola di Valerio Aiolli narra la storia di Michela, che fin da ragazzino si sentiva più a suo agio con le bambole e i vestiti da donna ed è finita sulla strada col sogno di operarsi e liberarsi di un corpo maschile nel quale si è sempre sentita costretta. La Bea e basta di Divier Nelli è un ex prostituta dal nome nuovo, ricevuto in comunità per proteggerla da chi la sta ancora cercando. Gianluca Morozzi presenta F. giunto in Italia per cambiare vita, finito poi nel giro della droga e in carcere. E ancora Raul, Manuela, Paola, Monica, Alessandra, ciascuno alle prese con i fili spezzati della propria esistenza. E infine Donatella e Omar, in una comunità di recupero dove si fanno forza l’un l’altro, attaccati al loro amore per andare avanti; e proprio a Omar, alla sua scomparsa, è dedicata questa raccolta.
    Nel misurarsi con una sfida non facile i nove scrittori qui alla prova non deludono, ciascuno con le proprie armi presenta una vicenda sofferta, senza moralismi e toni patetici; con l’onestà e la forza dei narratori veri ci portano lì, accanto a queste vite in bilico per dirci: guarda, anche loro sono come te.

  • Nove scrittori hanno accolto per beneficenza l'invito del Ceis a raccontare storie di dolore e diversità (Francesca Frediani, «La Nazione», 22 novembre 2006)
    Toscanacci. Duri all’apparenza, ma con un cuore più tenero di quanto la loro scorza hard-boiled potrebbe far pensare. Alcuni fra i migliori scrittori toscani noir di oggi riuniti per la raccolta di racconti La vita addosso (edizioni Fernandel). I fiorentini Valerio Aiolli, Enzo Fileno Carabba, Leonardo Gori, Daniele Nepi, Marco Vichi, i viareggini Giampaolo Simi e Divier Nelli, da sempre abituati a parlare di omicidi, delitti insoluti, investigatori sgarrupati. Qualcuno di loro, in verità (Emiliano Gucci, il più giovane di tutti) si occupa piuttosto di precariato sentimentale e professionale, dell’incertezza che attanaglia la generazione dei 30-35enni di oggi. Finché arriva un amico un po’ speciale, toscanaccio pure lui: Leonardo Butelli, un operatore del Ce.i.s. (Centro italiano di solidarietà) di Lucca, che li chiama a rapporto tutti quanti attorno a un tavolo per chiedere loro un favore. Raccontare una storia disperata, una a testa, delle tante che affollano il centro, per poi raccoglierle in un libro. Prendersi carico, letterariamente parlando, di uno degli svariati casi umani che abitano la comunità, raccontandolo come se fosse il proprio. In prima persona. Tra prostitute e transessuali scampati alla strada e ai loro protettori, tossicodipendenti, sbandati, ex-carcerati, per gli scrittori non c’è che l’imbarazzo della scelta. Quel campionario di umanità varia e dolente non aspetta altro che qualcuno in grado di darle una voce. E così ecco che otto scrittori toscani (più un “forestiero”, il bolognese Gianluca Morozzi) danno vita ad altrettanti ritratti indimenticabili, sospesi tra cronaca e romanzo. O meglio, tra realtà e fiction, come specifica Marco Vichi, papà del commissario Bordelli (uno che nelle sue indagini, da bravo toscanaccio, è abituato a dare più credito a prostitute e ladri che non ai suoi superiori gerarchici): «Ognuno di noi ha raccontato una storia assolutamente vera. Ciò che abbiamo inventato è solo la cornice letteraria. Tutti i fatti, purtroppo, sono reali». Un’esperienza di vita che ha dato tanto non solo ai protagonisti delle storie (i proventi del libro verranno infatti devoluti al Centro che si occupa di loro) ma anche ai narratori: «L’incontro ravvicinato con un transessuale – racconta Leonardo Gori, vincitore con L’angelo del fango del premio Scerbanenco al Festival Noir di Courmayeur del 2005 – è stato sconvolgente. Ha scosso le mie certezze, facendomi persino rendere conto che ho dei residui di moralismo che mai avrei ammesso di possedere». Fra i più giovani, il viareggino Divier Nelli, ammette: «E’ vero, ultimamente il noir è una moda». Ma aggiunge: «Nonostante l’etichetta che ci accomuna quasi tutti, in questo caso si tratta di qualcosa di diverso: storie vere e dolorose, testimonianze che trasmettono un insegnamento». Storie di chi è trovato con la vita addosso.

  • «Il riscatto dalle vite dannate» (Diego Zandel, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 14 gennaio 2008)