Arno Bertina, Anima motrix


Anima motrix

L'accoglienza in Francia


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  • Pagine: 304
    Isbn: 9788887433968
    Collana: Fernandel
    Data di pubblicazione: maggio 2008


    «Una scrittura dalla forza abbagliante»


    Ljube è un ex ministro macedone che, per compiacere gli Stati Uniti, ha fatto uccidere sei profughi pachistani spacciandoli per terroristi islamici. Scoperto l’inganno, è costretto a fuggire attraverso l’Italia, dove incrocia il flusso degli immigrati clandestini che, risalendo dall’Africa, tentano di penetrare nell’Eldorado europeo.
    Un protagonista epico per un romanzo che ricorda un road movie. Il racconto di una perdita di sé, ma anche di un insospettato ritrovamento, che narra le vicende più attuali dell’occidente.
    Traduzione di Ida Porfido.


     Arno Bertina
    «Anima motrix racconta di sorveglianza e brutalità poliziesca, di ingiustizia sociale e di economia, di corpi e spiriti martiri, deformi, fuori posto» (Magazine Littéraire).

    «Anima motrix sembra proporre un nuovo patto con il lettore: come in un film, sono innanzitutto le immagini a permeare con forza la nostra coscienza. Un’opera radicale, che racconta un'Europa sclerotizzata, zeppa di telecamere e schermi, che reagisce allontanando da sé ogni corpo estraneo» (Le Matricule des Anges).
    Arno Bertina è nato in Francia nel 1975. Anima motrix, pubblicato da Verticales, è il suo quarto romanzo, dopo Le dehors ou la migration des truites (2001), Appoggio (2003), entrambi per Actes Sud, e La déconfite gigantale du sérieux (2004) per Leo Scheer, tutti ancora inediti in Italia.

    Come inizia


    L’auto era spaziosa – dentro, guazzabuglio di parole che mi facevano ridere le orecchie, di frasi sparate come cartucce che non raggiungono il bersaglio. La cui metà veniva risucchiata dall’ombra che si protendeva all’imbocco dei tunnel, numerosi dopo l’attraversamento della frontiera. Dove nel retrovisore avevo intravisto un cartello immenso, nella roccia come una cimasa: Confine di stato. I confini. Il finis terrae dei cartografi… I numerosi tunnel da cui venivo come inghiottito…
    «Radio di Stato»: da noi era ormai diventata una battuta. I giornalisti che ci lavoravano erano tanto docili da essere chiamati sguatteri, buoni soltanto a servire la solita minestra. Notte e giorno, e quale che fosse il governo in carica. Eppure oggi, nonostante lo scarso valore che attribuivamo allora a quanto potevano dirci, ho trascorso l’intera giornata a cercare la frequenza di quella radio – per mantenere un legame con il mio paese – visto che al telefono evitiamo, Arte e io, di affrontare l’attualità, accuratamente. Colline e gallerie. Quando all’uscita da un tunnel la voce dell’annunciatore torna a essere udibile, mi sono perso venti secondi di trasmissione e l’argomento non è più lo stesso. Il giornale radio è fatto di frasi spezzate che cadono nell’abitacolo insonorizzato come in una camera di decompressione, cadavere eccellente che ho sistemato in vece e al posto del morto. Cui ho dato una serie di nomi, dialogando mentalmente con quel compagno di fuga, di sventura. Per coprire il rumore del climatizzatore. Interrompendomi soltanto per rispondere al telefono. Che per l’appunto tiro fuori dalla tasca, credendo di averlo sentito suonare – e invece no. Così non mi rimane che constatare per l’ennesima volta con quanta rapidità il cellulare diventi un arto fantasma, di quelli che continuano a provare sensazioni anche dopo essere stati amputati. Crediamo di averlo sentito sulla pelle come una contrazione muscolare ma lui non ha vibrato. Crediamo di averlo udito, breve musichetta, e lui non ha suonato [...]

    Rassegna stampa

  • Un'Europa ipercontrollata, disumana, paranoide (Enzo Mansueto, «Corriere del Mezzogiorno», 12 luglio 2008)
    C'è un po' di Bari in questo primo romanzo pubblicato in Italia dello scrittore francese Arno Bertina (1975). Già finalista al Premio Murat 2007, infatti, con la biografia romanzata di Johnny Cash, J'ai appris à ne pas rire du démon, Arno Bertina è qui tradotto da Ida Porfido, ricercatrice di Letteratura francese presso la facoltà di Lingue straniere dell'università di Bari, e membro del Groupe de Recherche sur l'Extrême contemporain, nell'ambito dei cui studi, la Porfido ha già avuto modo di incrociare la scrittura di Bertina. In questo quarto romanzo si narrano epicamente le vicende di Ljube, ex ministro macedone, che dopo aver fatto uccidere sei profughi pachistani, con l'accusa di terrorismo fondamentalista, scoperto, si dà ad una rocambolesca fuga attraverso gli scenari più squallidi della nostra contemporaneità. In Italia entra in contatto con le fiumane di immigrati clandestini provenienti dall'Africa e dirette nel cuore dell'Occidente dorato. Nel cuore di questa tenebra, e nonostante l'ambiguità del protagonista, comincia una sorta di recupero di sé, di presa di coscienza di un'Europa ipercontrollata, disumana, paranoide, resa con istantanee lucide e devastanti.

  • Idiomi, culture e umanità che emergono a forza da una scrittura capace di spingere a fondo (Gianluca Mercadante, «Pulp», luglio-agosto 2008)
    Il "romanzo da strada", se così possiamo definire quel romanzo di viaggio che ricorda per approccio i road movies, è un genere praticato agli estremi: qualsiasi storia voglia raccontare, si parte dalla disperazione, dal soffocamento. E inevitabilmente diventa romanzo di formazione, sperando che una simile definizione sia lecita anche quando il protagonista è al centro di una vicenda che in qualche modo lo "forma", ma non lo partorisce né lo uccide. Ljube diventa altro da sé, nella rocambolesca e folle fuga che affronta in questa prima opera pubblicata in Italia del francese Arno Bertina. Contrariamente all'età relativamente giovane (classe 1975), e forse grazie al fatto che ci arriva sottomano in veste di autore già maturo, Bertina compone un romanzo non scontato (e assolutamente non giovanilista), dalla prosa a dir poco allucinante. Le parole, la "voce" di Ljube (ex ministro macedone sceso a patti con gli Stati Uniti assassinando sei profughi pachistani che ha fatto passare per terroristi islamici), si comportano come lui: scollegate, febbricitanti. In fuga. Questa particolarità, il fatto che ci si perda letteralmente dentro, ne trasmette al lettore tutta l'ansia, il peso. Come il pachistano ostaggio nel bagagliaio dell'auto con cui il nostro si sposta per le strade d'Italia, perseguitato dai suoi stessi sensi di colpa e da un'immagine di tradimento che lo tormenta quasi a loop. L'ostaggio incarna in parte il paradosso esistenziale del carnefice, che nel corso del suo viaggio incontrerà varie etnie, dando vita a dialoghi fra uomini costretti a comprendersi con poco, a loro volta ostaggi di situazioni difficili. E Bertina finisce col comporre una sorta di romanzo sociologico stratificato, perché non sono gli idiomi a intrecciarsi e fondersi in un unico tessuto narrativo, ma soprattutto le culture e le umanità, che emergono a forza da una scrittura capace di spingere a fondo. Come su di un acceleratore.

  • Una prosa e un ritmo frenetico e delirante (Raffaello Ferrante, mangialibri.com)
    C'è un auto in fuga e un uomo dentro di essa, anzi due. L'uomo al volante farnetica, delira, scappa da qualcosa di più grosso di lui, qualcosa che lo assale. Ha appena varcato il confine di Stato. E' in Italia ora, in un paesino, forse in Liguria. Si prende una pausa, tenta di riflettere, di rifiatare. C'è un uomo rinchiuso nel bagagliaio della sua auto ma lui è ossessionato da un videomessaggio che gli gira sulla retina e nella testa in un loop infinito: un tradimento, sua moglie costretta da chi lo insegue - gli sciacalli - a cedere, a parlare, a confessare. Il senso di colpa è la sua più grande ossessione. Ma la fuga non si può arrestare, non se lo può permettere, il pachistano nel bagagliaio è un fardello troppo pesante e ingombrante da dover gestire. Neanche un piede accidentalmente ferito che gli divora le forze può trattenerlo. Riprende così instancabilmente la sua fuga nel delirio. Ancora autostrada, la velocità oltre la soglia del consentito, un computer di bordo che lancia improbabili indicazioni stradali e un cellulare da ricaricare per non perdere troppo contatto con la realtà. E la solita immagine del videomessaggio - realtà o finzione? - a disorientarlo su ciò che ha lasciato e forse mai più ritroverà. E in mezzo lui, animale braccato, l'alito puzzolente dei mostri che lo tallonano a togliergli il fiato. Finché la sua solitudine braccata non incontra in un granaio del centro Italia il primo dei suoi sventurati compagni di viaggio, un immigrato cinese accampato con altri sfollati, dalla storia sconosciuta, dall'idioma differente e impossibile da comprendere, eppure accomunato a lui dalla lingua della disperazione. Da lì Ljube, dopo un breve periodo di quiete, sarà costretto a riprendere il suo viaggio disperato attraverso un Italia battuta e percorsa da clandestini randagi in cerca di una possibilità migliore, ai quali legherà involontariamente e inevitabilmente il proprio destino...
    Arno Bertina, giovanissimo e prolifico scrittore francese - classe '75 - con Fernandel alla sua prima edizione italiana, partorisce un'opera dalla forza abbagliante e dal sapore leggendario. La fuga di Ljube nel sé, dal sé, spogliato via via da tutta la sua agiata leggerezza borghese, da tutte le convenzioni occidentali della vita precedente, attraverso un'Italia che è specchio della sua anima sempre più disperata, bastarda e desolata, che finirà per trasformare tutto quel dolore in catarsi esistenziale. E Ljube diviene il Caronte che traghetta e ci presenta, in uno scialbo carosello di disperazione, i suoi vari occasionali compagni di viaggio. La loro diviene una fuga scriteriata, affannosa, attorcigliata sempre più alle loro miserie e bisogni primordiali, divorata da fantasmi esistenziali passati e paure di mera e lucida sopravvivenza presente e futura. La vicenda di un uomo che è quella di milioni di uomini soli, vaganti come accattoni, a caccia di un miraggio, di un'identità, di un eldorado che gli possa far dimenticare e cicatrizzarle ferite di una patria per sempre dimenticata. Il tutto raccontato da Bertina con una prosa ed un ritmo frenetico e delirante. A volte talmente spinto oltre la soglia della comprensione da risultare francamente indecifrabile ed eccessivamente onirico. Un ritmo spinoso capace però di spingere il lettore sempre più nella storia fino a farlo aggrovigliare ad essa, in perfetta simbiosi con le ossessioni del protagonista.