Mascia Di Marco, Nel cemento


Nel cemento
Pagine: 136
Isbn: 9788895865263
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: ottobre 2010
Leggi come inizia


«L'unica cosa bella, da queste parti, è il mare»

La morte misteriosa di un uomo strangolato dall'usura. Un caso archiviato troppo rapidamente. Una figlia alla ricerca della verità

Dopo il suicidio del padre, imprenditore vittima dell’usura e di un sistema di potere ambizioso e crudele, Giulia sospende gli studi universitari e ritorna nel suo paese d’origine, una cittadina di provincia a ridosso del mare. Ma una una serie di telefonate anonime la spingono a intraprendere una personale ricerca della verità: davvero il processo contro l’usuraio, che dopo anni di attese sembra essere arrivato a un punto di svolta, porterà giustizia e verità alla famiglia e alla memoria controversa del padre? Giulia inizia a sospettare che l’indagine sul presunto suicidio si sia conclusa troppo rapidamente, per non far emergere i legami con le imprese di costruzione, interessate a una speculazione edilizia senza regole.
Ad alimentare i suoi dubbi, una serie di personaggi ambigui: un ispettore di polizia lucido e disincantato, una donna stralunata, ex amante del padre, e un misterioso giornalista dall’aria consumata, figure che ricostruiscono un territorio e una mentalità fatta di "intrighi di provincia" sempre più spesso esportati su scala nazionale.

 Mascia Di Marco
Mascia di Marco vive in Abruzzo, a Vasto, dove lavora in un negozio e fa la dj di musica elettronica. È presente nell’antologia Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane. Nel cemento è il suo primo romanzo.


Rassegna stampa

Anche nelle pagine più liriche l'autrice mantiene i sui propositi, evidenti e condivisibili in toto (Silvia Longo, libriconsigliati.it, 13 ottobre 2010).

Lo capisci leggendo, un poco alla volta, il motivo per cui Mascia Di Marco ha scelto questa frase tratta da “Space Oddity” a introdurre il suo romanzo: “For here/Am I sitting in a tin can/Far above the world/Planet Earth is blue/And there’s nothing I can do”.
Giulia, protagonista di Nel cemento, assomiglia in qualche modo al Major Tom cantato da Bowie: sospeso nello spazio a guardare da lontano il mondo, percependone tutta la tristezza, le piccinerie, e sapendosi impotente a cambiarne i giochi. In un momento di deriva esistenziale.
Chiusa nella capsula di un distacco necessario e sofferto, Giulia lascia l’università e torna al proprio paese di origine dove trova immutati i riti, i vizi nel procedere di convivenza, i paradossi intrinseci al luogo e alla gente. È costretta suo malgrado ad affrontare i ricordi di un’infanzia solo in parte serena e la difficoltà a sentirsi parte di un contesto sociale e familiare. E soprattutto a dover rielaborare il suicidio del padre. L’usura, certo, perché suo padre, animato da ambiziosi sogni imprenditoriali, ha contratto debiti e si è fatto nemici di un certo calibro. Pure c’è qualcosa che non torna, e Giulia, reduce anche dalla fine di un amore, e già spettatrice del fallimento del matrimonio dei genitori, sa che deve andare a fondo nella faccenda. Indagando a modo suo, cercando di restare a galla, contando solo sulle proprie forze, e usando la tattica del riccio: la chiusura come arma di difesa in ogni situazione emotivamente critica o troppo coinvolgente.
Ma, per quanto possa comportarsi con disincanto, con la rudezza e il cinismo di chi più nulla ha da perdere e in nulla più crede davvero, per quanto si atteggi, si vesta e si esprima nella maniera più efficace per respingere chi le orbita intorno, molto presto succede. Che ti innamori di lei, umanamente e come lettore. Del suo coraggio, dei difetti che non fa nulla per nascondere, e soprattutto dell’onestà di fondo che la muove e la fa parlare. A costo di ferire chi ama, e di ritrovarsi sola e spesso fraintesa. “Se c’è qualcosa che ti senti di dover dire a qualcuno, anche se è una cosa che può far star male, lo puoi fare solo se quel qualcuno ti sta veramente a cuore, e se il rischio che si corre nel dire la verità è meno importante del dire la verità stessa.” Nel cemento è molti libri in uno. È la storia di una famiglia, ma pure spaccato sociale, ritratto verosimile di una realtà precisa e contemporanea le cui dinamiche, per quanto circoscritte territorialmente dalla narrazione, diventano universali e riconducibili alla logica del “vince sempre il più forte”. Vi si riscontra anche l’elemento suspence, gestito con eleganza e con stile molto “italiano”, senza la necessità di un’ispirazione di maniera e, come spesso accade, esterofila.
L’uso del narratore in prima persona agevola l’immedesimazione nel personaggio di Giulia, che è protagonista e chiave di lettura delle vicende narrate, filtro attraverso il quale gli eventi sono portati al lettore. Ottima la scelta del tono – sobrio e asciutto – nonché della punteggiatura che predilige periodi non troppo lunghi e mai pesanti, grazie all’ uso calibrato di aggettivazioni e avverbi. Di notevole scorrevolezza, Nel cemento si fa leggere tutto d’un fiato, e non cade nella trappola in cui avrebbe potuto, narrando di solitudini e prepotenze subìte: quella dei luoghi comuni e dei facili sentimentalismi. Anche nelle pagine più liriche, scaturite dalla contemplazione della natura che si fa tattile e odorabile, di un paesaggio prezioso in quanto bello oggettivamente e soggettivamente, il cui nitore fa da contrappunto alla corruzione di chi ne abusa in termini di speculazione edilizia, l’autrice mantiene i suoi propositi, evidenti e condivisibili in toto. Quelli di una letteratura onesta e senza ammiccamenti.

Intervista a Mascia Di Marco (Intercity.net, ottobre 2010).

L’entusiasmo nella voce di Mascia è il primo segnale della sua personalità vivace, appassionata, autentica. “Nel cemento” è il suo primo romanzo, ma non la prima prova letteraria: autrice di vari racconti, la scrittrice originaria di Vasto è un talento naturale, capace di narrare la realtà senza scivolare mai nella facile retorica di una critica sterile.

Quando hai iniziato a scrivere e quando hai compreso che era per te qualcosa di più che un hobby?
Prima di tutto, devo dire che sin da adolescente ho sempre scritto molto, ma ho compreso di avere uno stile personale solo qualche anno fa, scrivendo racconti. Recentemente ho quindi deciso di approcciarmi al romanzo, mettendo in discussione me stessa e la mia scrittura, poiché la struttura di un romanzo è molto più complessa rispetto a quella di un racconto e la prima difficoltà è stata dover cercare e trovare una voce personale.
In secondo luogo, sono sempre stata una grande lettrice e questa secondo me è una cosa molto importante per chi desidera avvicinarsi al mondo della scrittura. Dunque, la molla scatta nel momento in cui leggi dei libri che ti piacciono tantissimo e inizi a cercare di seguire la scia di quelle storie che ti hanno appassionato. Per quanto mi riguarda, tutto questo è avvenuto grazie all’incontro con la letteratura americana e con il racconto breve di Carver, ma anche con la letteratura di Fitzgerald.

A metà ottobre uscirà “Nel cemento”, il tuo primo romanzo. Come è nata l’ispirazione per la trama del libro?
Trai miei scrittori preferiti ci sono gli autori che analizzano in maniera efficace la realtà. E questo libro parte da una particolare osservazione della realtà e del contesto sociale in cui viviamo. È la storia di una famiglia, con i suoi sentimenti contrastanti, ma anche l’analisi di alcune problematiche sociali troppo spesso mistificate dalle classi dirigente e politica. Lo scrittore, a vari livelli, può farsi portavoce di certi disagi e mi riferisco in modo particolare al tema dell’usura, argomento centrale nella trama del romanzo.

Senza svelare troppo della trama, puoi raccontarci qualcosa del tuo romanzo?
La protagonista e voce narrante del libro è una giovane universitaria che studia in una grande città e che si trova costretta a tornare nel suo paese di origine, una cittadina di provincia a ridosso del mare, a causa dell’improvviso decesso del padre. Una morte misteriosa, archiviata come suicidio causato da una depressione, la conseguenza di gravi problemi economici e del coinvolgimento in un brutto giro di usura. L’incontro fortuito con un ispettore di polizia, conduce la protagonista in un viaggio personale nella vita del padre e nei ricordi del suo rapporto difficile con il genitore, per scoprire un uomo diverso da quello che aveva sempre creduto.

Ti riconosci nei personaggi che racconti?
Nella mia scrittura e nel mio modo di scrivere c’è molta attenzione al reale e all’osservazione delle persone e degli altri e, quindi, quando scrivo e invento un personaggio c’è sicuramente un po’ della realtà che vivo e della gente che incontro, ma c’è sempre anche un po’ di me. C’è qualcosa di me in vari personaggi presenti nel romanzo, tranne che in Giulia, la protagonista. Forse lei è quella che mi somiglia di meno, soprattutto nel carattere.

Che consigli ti senti di dare ai giovani scrittori in erba?
Il consiglio che posso dare è di scrivere con passione, perché sicuramente la scrittura è un sentimento che nasce da dentro. C’è una feroce selezione naturale e sono pochi quelli che riescono ad emergere. Non è facile essere pubblicati e poi bisogna lavorare molto sul testo, anche quando un editore si mostra interessato al tuo libro. Io ho dovuto rimettere mano alle bozze varie volte. In conclusione, è un lavoro molto bello, ma anche molto faticoso, ed è essenziale farlo con passione e costanza: l’ispirazione è importante, ma non basta; occorre un lavoro di artigianato che secondo me è fondamentale, perché l’arte non è solo ispirazione, ma anche lavoro costante. E poi i risultati arrivano.

Nel cemento rinnova il racconto degli intrighi di provincia e una volta di più ci invita a fare i conti con la nostra realtà, al di là della cronaca (Pietro Spirito, «Il Piccolo», 26 ottobre 2010).

La morte di un genitore segna sempre uno spartiacque nella vita della persona, separa un "prima" da un "dopo", apre spesso nuove prospettive, prepara il campo all'acquisizione di consapevolezze diverse, non sempre piacevoli, non sempre costruttive. Non a caso tante storie di fiction iniziano con il funerale di un genitore, o in questa circostanza trovano un punto di svolta e di agnizione. Succede così nel bel romanzo d'esordio di Mascia Di Marco, ”Nel cemento” (Fernandel, pagg. 134, euro 12,00), racconto giallo che però deve poco al genere e molto alla capacità dell'autrice di tessere un trama familiare tra luci e ombre, segreti e rivelazioni, portando la giovane protagonista del romanzo, Giulia, a compiere un percorso di formazione e trasformazione verso rinnovate speranze. Il libro sarà presentato da Francesca Longo e Francesca Bonafini venerdì 5 novembre alle 18 alla libreria In Der Tat di via Diaz 22, presente la scrittrice.
Il romanzo si apre dunque con un funerale. Giulia, studentessa disincantata e dal futuro quanto mai incerto, sospende gli studi e torna nel suo paese d'origine sul mare (trasparente il riferimento a Vasto, in provincia di Chieti, città dove vive la trentasettenne Mascia Di Marco), per assistere alle esequie del padre, morto suicida, imprenditore vittima dell'usura e di un sistema di potere ambizioso e senza scrupoli. A casa Giulia sta con la madre, e ogni tanto vede la sorella, Laura, sposata con quello che Giulia definisce ”il deficiente”, uno che vive la vita in modo piatto e la sera si addormenta ”sul divano come una pera”. Il ritorno nella provincia fa sentire la ragazza a disagio: «Qui manca tutto, le università, i locali con la musica dal vivo, i ristoranti etnici,il mercato dell'usato, i teatri, le chiese antiche, le scalinate, i turisti giapponesi (...)». Ma ad un tratto succede qualcosa. A casa arrivano una serie di telefonate anonime, squilli seguiti dal silenzio che spingono Giulia a indagare su quanto sta succedendo. L'ispettore di polizia Bindi prima, e il giornalista Mimo Marchese poi, l'affiancheranno presto in questa personale ricerca della verità. Davvero il padre è morto suicida? Davvero il processo contro l'usuraio, che dopo anni di attese sembra essere arrivato a un punto di svolta, porterà giustizia e verità alla famiglia e alla memoria controversa del genitore? Perché l'indagine sul presunto suicidio è stata archiviata così velocemente? E quali sono gli intrecci con le imprese di costruzione, interessate a una speculazione edilizia senza regole? Ma soprattutto, chi era veramente il padre di Giulia? Brava nell'intrecciare la trama, abile nel dominare una scrittura che non mostra cedimenti, Mascia Di Marco racconta una storia dei nostri tempi che, in filigrana, lascia intravedere quella vasta, prolifica tradizione le cui radici affondano nelle profonda provincia d'Italia. Il caso di Avetrana - per citare la cronaca di questi giorni - è solo l'ultimo esempio di una realtà tutta italiana fatta di intrighi patrimoniali, segreti di famiglia, tradimenti inconfessati, meschine cupidigie, corruzioni, omertà insormontabili, insomma quell'anima scura dell'Italia e degli italiani che ha nutrito e nutre molta parte della nostra migliore letteratura (nonché di cinema e tv). "Nel cemento” rinnova il racconto degli intrighi di provincia e una volta di più ci invita a fare i conti con la nostra realtà, al di là della cronaca.

Intervista all'autrice (Simone Gambacorta, «La città», 24 ottobre 2010).

Sboccia un nome nuovo fra gli scrit­tori abruzzesi ed è quello della vastese Mascia Di Marco, autrice del romanzo "Nel cemento" (Fernandel, pp. 135, Euro 12). La storia è am­bientata in una città di provincia e ne è protagonista Giulia, che vuol ve­derci chiaro nel suicidio del padre, un imprenditore strozzato dall'usura. La sua ricerca della verità la porterà a frugare nelle pieghe della realtà che la circonda e a intraprendere un viag­gio nelle profondità di se stessa e dei rapporti familiari.

Cominciamo dal titolo, "Nel ce­mento", che racchiude un triplice significato.
«Il cemento è quello dei legami fa­miliari, il materiale che tiene unite le persone nonostante tutto. Il secondo significato, più letterale, fa riferi­mento invece alla speculazione edi­lizia, che è uno dei temi centrali del libro. Per ultimo, il cemento è visto come metafora dell'appiattimento culturale. Blocchi di cemento tutti uguali, come delle piattaforme che creano un muro che impedisce il progresso reale».

Il romanzo parla di usura, di sui­cidio, di disperazione, di ricerca della verità...
«Uno degli spunti principali del ro­manzo è la convinzione che l'idea del denaro sia una delle grandi osses­sioni della nostra società. Lo aveva ben visto, tra gli altri, anche un intel­lettuale come Pasolini, che identifi­cava nel guadagno la vera e propria religione del suo tempo. La storia si apre con la scena di un funerale, e la protagonista, Giulia, che è costretta a tornare al suo paese d'origine a causa della morte del padre, impren­ditore vittima dell'usura e di un si­stema di potere corrotto. Sarà l'occasione per rafforzare il legame e il difficile rapporto con la madre e la sorella, per rielaborare, e forse ria­bilitare, la figura controversa del padre e guardare con occhi diversi l'ambiente circostante».

Uno dei motori della storia è il dubbio...
«A un certo punto della storia com­pare la figura di un ispettore di polizia, un personaggio sicuro di sé e dotato di un certo cinismo, che mette al corrente la protagonista dei legami del padre con la figura dell'usuraio. È così che il dubbio comincia a insi­nuarsi nella mente di Giulia, il dub­bio che il padre non si sia realmente suicidato, ma che possa essere stato vittima di una vendetta personale. E solo il primo grande dubbio con il quale si dovrà scontrare. Ne segui­ranno molti altri che la porteranno a intraprendere una personale ricerca della verità, e che modificheranno o cambieranno del tutto l'idea che ci si era fatta delle persone e delle loro de­bolezze».

Chi è Giulia? Come l'hai "pen­sata"?
«Questo è il mio primo romanzo, è la prima storia che per ispirazione, lunghezza e struttura si allontana completamente dalla forma del rac­conto a cui ero abituata. Una forma di scrittura diversa che ha creato uno spartiacque nel mio modo di inten­dere e organizzare il lavoro, come uno spartiacque è per la protagonista la morte del padre. Volevo un ro­manzo che fosse anche di forma­zione, mio dal punto di vista stilistico e del personaggio. Per farlo avevo bisogno di una protagonista giovane e non ancora del tatto contaminata dalle ipocrisie e dai meccanismi ste­reotipati a cui siamo sottoposti. E nata così».

Una breve descrizione degli altri personaggi.
«Prima di tutto la sorella della prota­gonista. È una giovane donna che non ha saputo, o non ha voluto, rom­pere la crosta delle convenzioni so­ciali. Un matrimonio infelice. Il mondo dell'apparenza. La paura della diversità. C'è poi la figura cen­trale dell'usuraio, un uomo tanto ricco e potente quanto privo di scru­poli, proprietario di una importante agenzia finanziaria che nasconde ben più loschi traffici. L'ispettore di po­lizia, forse il personaggio più ambi­guo della storia. La madre della protagonista e l'amante del padre, due donne differenti ma unite da un forte legame fatto di dipendenza e sottomissione nei confronti di un uomo. Uno strano e misterioso gior­nalista, del quale preferisco non sve­lare nulla».

Come si costruisce un personag­gio?
«I personaggi non sono figure miti­che. Sono concreti, reali. E nascono in modi differenti, dall'osservazione della realtà così come dalla pura im­maginazione. I personaggi parlano, mangiano, hanno un passato, un ca­rattere ben definito. Prima di dare voce ai miei, di personaggi, devo avere ben presente cosa hanno fatto prima di essere messi in scena. Da dove vengono, quali sono i loro gusti eccetera. Magari sono cose di cui non si parlerà mai, ma che bisogna sapere lo stesso».

Veniamo all'ambiente: la cornice della tua storia è una città di pro­vincia, una città litoranea...
«La provincia non fa altro che ripro­durre nel suo piccolo quello che suc­cede anche in una grande città. Mi viene in mente Bianciardi, che da provinciale qual era si era ben reso conto di quanto certi "mah" apparte­nessero a entrambe le realtà. In par­ticolare un certo consumismo e il finto benessere che ne consegue sono caratteristici anche della pro­vincia che descrivo, che è quella li­toranea, appunto. Una provincia che si apre a ventaglio nei mesi estivi nell'illusione di respirare un'aria più mondana, per poi richiudersi nel suo guscio fatto di pettegolezzi e di una certa connaturata cattiveria».

Nelle tue pagine c'è anche molta ambiguità, e c'è un gioco segreto tra la realtà e la percezione della realtà.
«L'ambiguità che è insita genuina­mente nell'animo umano porta a tutta una serie di derivazioni: il tema del doppio, la possibilità di un cam­biamento, ma anche, e soprattutto, quello che tu chiami con una bella immagine "il gioco segreto tra la re­altà e la percezione della realtà" e che io identifico con il sogno, inteso in un'accezione ampia. Come diceva Borges, a ogni uomo con il sogno è stata data una piccola eternità perso­nale, e la possibilità di vedere il pro­prio passato e il proprio futuro».

E con la verità come la mettiamo? Cioè, come la mette Giulia?
«Giulia è una ragazza alla ricerca di risposte precise alle sue domande, non solo quelle che riguardano la morte del padre. Avrà modo di ca­pire, nel corso della storia, che quella che lei crede sia la verità non è che una faccia del mondo che le si offre e dei suoi personaggi. Capirà che i comportamenti di ognuno, anche i propri, sono mutevoli e contraddit­tori».

Che cosa vuol dire scrivere un ro­manzo?
«Posso dirti cosa ha significato per me: dare spazio alla mia voce perso­nale, tradurre in forma narrativa l'osservazione della realtà e i tanti messaggi che ne derivano. Quello che ho cercato di evitare, e che in ge­nerale evito anche come lettrice, è stato il facile sentimentalismo, l'au­tobiografismo sterile e gli intenti mo­ralistici».

Un buon esordio narrativo (Sergio Rotino, «L'informazione», 2 dicembre 2010).

Un buon esordio narrativo quello proposto da Mascia Di Marco con Nel cemento (Fernandel, pp.134, 12 euro). Il romanzo,oggi alle 18 in Feltrinelli di piazza Galvani dall’autrice con Francesca Bonafini, si muove dalle parti di una detection sui generis, prendendo spunto dalla morte di un uomo suicida per usura. È la figlia Giulia che andrà, un po’ controvoglia, alla ricerca di cosa ha veramente causato il gesto del padre, diventando lei stessa vero luogo della detection. È su di lei, del suo disincanto venato da una tristezza fredda con cui guarda alla sua famiglia e al mondo, con cui sembra affermare l’impossibilità al cambiamento per cose e esseri umani, che Di Marco indaga. È su questa figura falsamente immobile che il romanzo fonda il suo percorso e risulta convincente fin nel disvelamento finale, cui una minore velocità di esecuzione avrebbe più giovato.

Tra la saga famigliare e il romanzo d'inchiesta (Manuel Graziani, «Rumore», dicembre 2010).

Siamo in un paese della costa adriatica molto simile al basso Abruzzo da cui proviene l'autrice. La tipica provincia sonnolenta ma dove tutti sanno (e si fanno) i cazzi di tutti: una sorta di ossi­moro proprio come il bellissimo mare accanto ai casermoni di cemento frutto della peggiore speculazione edilizia tangentara. Un paese come tanti, con lo struscio del sabato, i negozi cinesi al posto dei vecchi alimentari, i matti e i tossici di mezza età a bighellonare in strada, la saggezza popolare racchiusa nei sorrisi sdentati delle donne anziane. Al centro c'è Giulia, una studentessa universitaria fuorisede, pure carina - pare - ma che fa di tutto per nascon­derlo. Una ragazza alternativa e inquie­ta, vestita di nero, piena di livore verso l'ambiente nel quale vive la sua fami­glia, verso l'apatia della madre e le assenze di un padre traffichino. Il punto però è che il padre adesso non c'è più; è morto dopo un salto con la macchina dalla scogliera più alta del posto. Suici­dio? Omicidio? Chi lo sa. Sta di fatto che la sua vicenda umana è stata sem­pre contraddistinta dalla megalomania imprenditoriale, dai debiti, dall'usura. Giulia torna in paese e inizia a farsi domande sulla sua vita e sul drammati­co epilogo. Il commissario Bindi sembra volerla aiutare, in realtà se la scopa. Mimmo Marchese, rude giornalista - ex di Lotta Continua - che sa a memoria Andare Camminare Lavorare di Piero Ciampi, sembra volersela scopare, in realtà l'aiuta.
Nel cemento è un buon esordio tra la saga familiare e il romanzo d'inchiesta tinto di giallo, nel quale l'autrice tratteggia con nostalgia e realismo l'asfalto scorticato dal sole e le 11 portate di cibo la vigilia di Natale nella provincia che "si muove per grup­pi, per appartenenze, e chi è fuori da questa logica è un dissociato, un aso­ciale". Un romanzo persino rumoroso con i Dirtbombs e gli Scisma nell'auto­radio della macchina ed il "disprezzo" - del tutto condivisibile - per Biagio Antonacci e la dance dozzinale.

Un importante tassello alla letteratura di denuncia (Stefania Nardini, «Corriere Nazionale», 19 dicembre 2010).

Giulia è una giovane donna disincantata e travolta dal dolore. Il suicidio di suo padre la riporta in quella provincia fatta di ritmi ed abitudini rallentati e differenti dove è nata e che aveva abbandonato per seguire gli studi universitari.
Le viene sbattuto in faccia un mondo fatto di mediocrità e di telefonate anonime che la inducono a cercare la verità sulla morte del padre, un piccolo imprenditore vittima dell’usura.
La provincia apparentemente sonnecchiante si schiude ai suoi occhi con intrighi, malaffare, ingiustizie.
Un contesto che alimenta i suoi dubbi sul suicidio mai del tutto chiarito di suo padre.
E’ “Nel cemento” di Mascia Di Marco (ed. Fernandel) un romanzo ben costruito e saldamente legato agli elementi che contraddistinguono la realtà.
Un’opera che segna l'esordio di un’autrice che lascia ben sperare. Scrittura semplice, efficace, diretta.
Osservazioni e dialoghi che lasciano intendere quanto ci sia di “non detto” sulla nostra provincia e su un fenomeno come quello dell'usura che continua a mietere vittime.
Mascia Di Marco fa muovere Giulia in un groviglio di sospetti che la portano, via via che la storia cresce, a farle scoprire personaggi e fatti inattesi.
Una giovane donna che nella ricerca della verità trova forza e determinazione per andare a vanti.
Un romanzo che merita di essere letto perché aggiunge un importante tassello alla letteratura di denuncia.
Una letteratura che oggi svolge un grande ruolo civile mettendo in campo voci di questa nostra Italia che non si finisce mai di scoprire. Nel bene e purtroppo nel male.

Un esordio letterario che potrebbe fungere da apripista a nuove e più misurate narrazioni della scrittrice abruzzese (Oscar Buonamano, «Repubblica», gennaio 2011).

Dal mare magnum dell’editoria italiana degli ultimi anni, e per essere più precisi dal 2010 che si è appena concluso, emerge Nel cemento di Mascia Di Marco. Un esordio letterario positivo che potrebbe fungere da apripista a nuove e più misurate narrazioni della scrittrice abruzzese.
La voglia di raccontare, scriverei l’esigenza se non considerassi questo termine troppo usato e spesso abusato, non si sovrappone agli elementi costitutivi del romanzo, piuttosto si giustappone.
Si ribalta qui il luogo comune che vuole il posto in cui si nasce sempre bello e accogliente, dove tutto funziona, tutti conoscono tutti e si creano attorno a te solo reti di protezione. In queste pagine si affaccia prepotente la realtà del nostro tempo. Una realtà che ripropone nei piccoli centri, in sedicesimi, tutte le storture della grande città senza peraltro che queste ultime siano compensate dai vantaggi che la grande dimensione, in qualche caso, offre. Esiste la stessa incomunicabilità tra le persone, caratteristica principale dei nuovi agglomerati urbani, si convive con il crimine. Crimine che qui, alla periferia dell’impero, ha spesso un volto noto, conosciuto e proprio per questo capace di creare sconquassi interni maggiori rispetto ai volti anonimi e senza storia che popolano le strade del crimine delle grandi aree urbane. Non c’è più la bellezza. Giulia, la protagonista del romanzo, dice: «L’unica cosa bella, da queste parti, è il mare». Un elemento naturale totalmente estraneo all’opera di trasformazione (distruzione) del territorio da parte dell’uomo.
Quando Giulia ritorna a casa, in seguito alla morte del padre, si rende conto che al suo paese, nella sua casa, il tempo è come sospeso. Tutto è rimasto fermo a quando i suoi genitori avevano l’età per sognare. «Non c’è niente che abbia il più vago senso della modernità, qui dentro. Un computer, uno stereo, un lettore dvd. C’è solo il videoregistratore, e forse dovrei ripescare fra le vecchie cassette per trovare qualcosa da guardare. Tutto è rimasto come venti, trent’anni fa. Il televisore davanti al divano, e le riproduzioni dei quadri famosi appese alle pareti intorno al corridoio. Tutto è rimasto uguale. Anche la mania ossessiva del pranzo e della cena insieme, seduti a tavola, puntuali alle tredici e alle venti». Elementi che contribuiscono a rendere ancora più insopportabile e inutilmente lento lo scorrere del tempo in un paese che è diventato sempre più uguale a tanti altri paesi. Consuetudini che rafforzano usanze, costumi, piuttosto che definire un’identità. Siamo ciò che sappiamo e se si vive in un posto dove manca tutto è più difficile sapere e conoscere. E quando siamo quasi assuefatti a questa condizione, la storia prende una piega inaspettata per virare su due solitudini. La scrittura diventa più fluida, le immagini meno generiche e più definite, inizia una nuova narrazione.
«Non ci credo alla sfortuna, ispettore, o alle maledizioni, al destino e cose di questo tipo», con quest’affermazione, decisa e che non ammette repliche, siamo in un’altra fase. Da qui in avanti Mascia Di Marco abbandona l’iniziale apatia e immette elementi di riflessione che travalicano il significato stesso della storia che sta raccontando.
«Il messaggio è chiaro: l’unica cosa che conta è la bellezza. E la giovinezza. E la ricchezza. Una bellezza allineata. Conforme. Gli stessi capelli, le stesse facce, gli stessi vestiti, lo stesso peso forma negli sguardi velati di malizia, nel modo di parlare, di pensare e di muovere le mani. È questo il modello, non c’è spazio per nulla che sia diverso da questo schifosissimo cliché». Una critica radicale a quei modelli di vita che si fondano sull’avere e sull’apparire e non sull’essere e che fanno riemergere i fantasmi di quell’“edonismo reaganiano” che sembrava essere stato seppellito per sempre dalla storia. Per affrontare infine una questione che si sta rapidamente diffondendo anche nel nostro Paese. «Ho trentacinque anni, Giulia, e un marito vale l’altro, però un figlio è un figlio, e il marito col figlio non c’entra proprio niente». Nel 2010, nella città più europea d’Italia, Milano, una donna su cinque non dichiara il nome del padre. Le donne conquistano così “sul campo” il diritto a fare figli senza aver bisogno dei padri e anche l’Italia comincia a prendere dimestichezza con la Womenomics, un neologismo coniato dall’Economist, «per definire la teoria economica secondo la quale il lavoro delle donne è oggi il più importante motore dello sviluppo mondiale».
Si arriva così all’epilogo che, come in ogni buon romanzo che si rispetti, non può che essere un nuovo e più intrigante inizio. Buona navigazione.

Riesce a cat­turare il let­tore e si fa leg­gere fino a una fine che in fondo è una fine a metà (Tamara Baris, Luminol.it, 10 gennaio 2011).

Quella di Mas­cia Di Marco è una scrit­tura pre­cisa che resti­tu­isce una realtà sociale fedele. Nel cemento rac­conta infatti una sto­ria ambi­en­tata in un posto di provin­cia che è unico ma uguale a tanti, in cui vivono per­son­aggi ordi­nari che gal­leg­giano in un’atmosfera di abban­dono esisten­ziale e indif­ferenza (il «sonno ipnotico» del cog­nato; la sorella che «si parla addosso»; «l’effetto nar­cotico» che si res­pira a casa loro), ormai dis­il­lusi dall’amore e dalla vita, cliché imp­ri­gionati in falsi equi­libri, sem­pre in bil­ico, pre­cari su esistenze inesistenti.
La nar­razione com­in­cia con la morte (un sui­cidio, sem­br­erebbe) del padre, finito in una sto­ria di usura. Da qui, il ritorno di Giu­lia a quello che era il suo mondo che ritro­verà sem­pre uguale, fisso nella sua immo­bil­ità familiare.
Accanto alla pro­tag­o­nista – mac­chia di vita su uno sfondo gri­gio come i palazzi sem­i­nati lungo la costa dalla spec­u­lazione edilizia – coi fet­icci della sua gen­er­azione («canto a squar­ci­agola Rose­mary Plex­i­glass degli Scisma»; «inserisco un vec­chio cd di David Bowie»), ci sono, infatti, uomini e donne a metà: per­son­aggi pre­senti ma man­canti, tra il loro non-essere e il loro apparire. Tra questi, Bindi: mar­ito con la voglia banale di tradire e poliziotto diviso tra la difesa della legge e quella inerziale dell’equilibrio del potente di turno. Poi, Laura, sorella di Giu­lia e moglie del «defi­ciente» («il defi­ciente non ha nome»), col deside­rio di poter essere madre e la maschera dell’essere moglie. E, ancora: la madre della pro­tag­o­nista, imp­ri­gion­ata nella sua ripet­i­tiv­ità di moglie tra­dita (poi vedova) tra azioni sem­pre uguali in cui neanche una vir­gola riesce a entrare («non faceva altro che spostare sis­temare rappez­zare sti­rare rip­ulire deterg­ere rica­mare sferruzzare»).
Le descrizioni dei per­son­aggi sono effi­caci: il tipo-Bindi, il «barista alla Willy»; quelle dei luoghi del romanzo attente, anche agli odori degli ambi­enti: l’«odore nau­se­ante di incenso e pro­fumo alla vaniglia»; il «tanfo di sudore vec­chio e di pol­vere sec­cata al sole», «l’odore della domenica». I flash­back che spez­zano il fluire del rac­conto sono brevi ma precisi.
Le sue immag­ini chiare, foto ad alta sen­si­bil­ità, scat­tate in un’atmosfera buia, sono la vera forza di questa scrit­tura: delle macro scrupolose che col­gono ogni microdet­taglio: «la carne saltella sulla ghisa e le ver­dure sfrigolano, schizzettando il loro sugo oleoso sulle mat­tonelle di ceram­ica». Zoo­mate tra le pagine di una sto­ria che dura il tempo di un’estate asfis­siante che toglie il respiro come l’aria di indif­ferenza in cui tutti sono immersi: a nuotare sono in pochi, forse solo Giu­lia (che è un po’ l’impotente «Major Tom» della can­zone Space Odd­ity posta in esergo al romanzo) e il gior­nal­ista Mimmo March­esi, una figura ful­minea che com­pare poco ma che è impor­tante, nella sto­ria di Giu­lia e di suo padre, soprattutto.
Il ritmo (veloce) è dato da una sin­tassi che predilige la coor­di­nazione; dagli attac­chi che si ripetono iden­tici (quell’«io odio le chiese» nelle prime pagine, tra gli altri); da un anda­mento che ricalca spesso le movenze del par­lato e ne ripro­duce i mod­uli («oggi ho voglia di prepararla io, la colazione»); da una pun­teggiatura prosod­ica ed essen­ziale che si spezza in frasi brevi fino a con­tenere un unico ele­mento sep­a­rato da tutto, inciso nello spazio tra due punti fermi («Piove»).
Effi­caci, poi, le simil­i­tu­dini che com­paiono nel testo: «il golfo si chi­ude come il gomito di un ubri­aco»; i rap­porti si sgre­tolano «come l’intonaco d’una vec­chia stanza che perde un pezzetto di calce al giorno». Qualche frase a effetto cat­tura il let­tore che si ferma un attimo: «i seg­reti non esistono, siamo noi che non vogliamo vedere le cose come stanno»; «la paura del rimpianto deve essere più forte del dub­bio di com­met­tere una pazzia».
Il senso della misura mit­iga qualche imper­izia (forse falsa) per­ché, se in qualche punto lo stile e la sto­ria toc­cano qualche punta di banal­ità, l’autrice rien­tra nel suo modo di impac­chettare il reale: taglia brus­ca­mente, come fa dopo la tirata nos­tal­gica sulla sua pas­sata sto­ria d’amore, inter­rompendo con un secco «fa male, l’amore, quando non si ama più».
Mas­cia Di Marco dunque col suo stile volu­ta­mente medio e con uno sguardo sen­si­bile, senza fron­zoli, riesce a cat­turare il let­tore e si fa leg­gere dall’inizio della sua sto­ria breve fino a una fine che in fondo è una fine a metà.

In un romanzo denso di enigmi la tragica morte di un padre di famiglia e una figlia determinata a indagare oltre il muro di silenzio e omertà (Fulvio Caporale, «La Voce», 20 gennaio 2011).

Le città di provincia possono essere degli ottimi luoghi anonimi per am­bientare dei romanzi di genere. In fondo, almeno in Italia, la maggior parte della popolazione vive in una città di provincia. Anche Mascia di Marco, giovane autrice abruzze­se, ha scelto una cittadina con que­ste caratteristiche come sfondo per il suo primo romanzo Nel cemento (Fernandel, pag. 135, 2010, euro 12). La città non ha nome, è una delle tante situate vicino alla costa. La sua popolazione segue i ritmi stagionali: letargica d'inverno, più frizzante e attiva d'estate. In tale contesto i personaggi non possono che essere caricaturali e in effetti lo sono quasi tutti, tranne Giulia, la protagonista del romanzo, che torna nella città d'origine dopo la morte del padre. Quest'ultimo sembra si sia suicidato a causa dei debiti che si era procurato per alcune attività imprenditoriali finite male. Chi ne ha soffocato l'esistenza è stato un usuraio, tale Alessandrini che go­verna una finanziaria importante e ben collocata nel tessuto imprendi­toriale del territorio. La morte del padre di Giulia è stata classificata come suicidio ma le motivazioni del gesto spingono un giornalista un po' malmesso e un ispettore bizzar­ro a ragionare con la figlia affinché collabori con loro per contrastare l'usuraio. Giulia è l'unica della fa­miglia che ha il coraggio e la curio­sità per porsi qualche domanda sul destino del padre e sulle motivazio­ni che l'avevano spinto poco prima di morire a denunciare chi gli ave­va rovinato la vita.
Nello sviluppo della trama l'autrice sceglie un linguaggio serrato e rit­mico in cui gli eventi vengono con­segnati al lettore in soggettiva attra­verso lo sguardo del personaggio di Giulia, arrabbiata e decisa a non la­sciare zone d'ombra nella sua cre­scita esistenziale. Uno dei pregi del libro è proprio questo, la capacità di raccontare la storia attraverso un personaggio stretto da una comples­sa vita familiare ed emotiva in cui il dolore per la morte del padre assu­me la forma di un puzzle di cui comprendere il significato attraver­so la determinazione e il desiderio di giustizia.

Un'operazione dolorosa ma inevitabile (Gioia Salvioli, Stradanove.net, 15 febbraio 2011).

Dopo l'esordio nell'antologia di racconti 'Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane' edito sempre dalla ravennate Fernandel, la giovane scrittrice abruzzese Mascia di Marco affronta un altro tema caldo della migliore 'tradizione' italiana: l’usura.
Giulia, studentessa universitaria fuori sede, torna a casa dopo la morte del padre, sulle cui dinamiche conserva molti dubbi. La ragazza, apprendista detective, decide di riaprire l’indagine, chiusa a suo parere troppo frettolosamente, e, nel fare ciò, è costretta a rimettere in discussione gli ultimi tragici eventi che hanno sconvolto la sua famiglia, ma non solo. È così che conosciamo la sorella, il cognato, la madre e ripercorriamo gli anni dell'infanzia e il rapporto col padre.
Emergono dinamiche familiari a cui Giulia si era sottratta appena possibile, scegliendo una facoltà universitaria lontana da casa, dettagli della vita del padre che la ragazza ricompone come un puzzle, inseguendo sensazioni e particolari tralasciati. Durante questo percorso s'imbatte nella 'fauna' locale del paese, tipica realtà della provincia italiana in cui tutti conoscono tutti e gli affari di tutti. Seguita così a distanza, più o meno ravvicinata, da diversi sguardi curiosi e allertati, Giulia si muove lentamente nella calura estiva e tra notti insonni e finestre serrate apre non solo i suoi occhi ma anche quelli della madre e della sorella.
È un'operazione dolorosa ma inevitabile se l'intenzione è non affogare, trascinati dalla corrente, ma cercare di interrompere meccanismi fin troppo radicati nel nostro Bel Paese, in cui sempre più spesso viene da pensare che "L’unica cosa bella, da queste parti, è il mare"... e forse, purtroppo, ormai nemmeno più quello.
Se da un lato la vicenda risulta intrigante, dall'altro il romanzo è popolato da una pletora di co-protagonisti e personaggi secondari spesso solamente abbozzati. Il ritmo narrativo probabilmente ne guadagna, non affaticato da introspezioni pseudo psicologiche, ma d’altro canto si sconta poi una sensazione di superficialità e non completezza, come se i diversi personaggi abbandonassero la scena, lasciando, qua e là, spazi vuoti ingiustificati.