La copertina del numero 60 Viola Rispoli, Radiografia





Sdraiata sul fianco sinistro, a guardare la pioggia oltre i vetri della finestra, Selvaggia ripassa gli appuntamenti – mancati – della settimana. È lunedì mattina, piove sulla casa di Napoli dov’è nata e ha trascorso il weekend. A Roma, domani, Sandro dovrebbe traslocare ufficialmente da lei; ad ogni modo ha le chiavi, perché per quanto riguarda Selvaggia anche il trasloco rientra fra gli impegni mancati. Stava scendendo le scale che portano dal salone alle stanze da letto. Dove altro le trovi, se non a Napoli, case così, con la porta d’ingresso su un vicolo sporco e sul lato opposto le finestre che vedono il mare laggiù; case a rovescio, che entri e scendi una rampa di scale e sei nel salone, poi scendi ancora e sei nelle stanze da letto; in tv le stanze da letto sono al piano di sopra, non a quello di sotto. E le case sono a forma di casa. Questa invece scaturisce dal cuore di una roccia di tufo, vi si adagia seguendo il profilo della montagna, alitando umidità e snodandosi come un verme di terra; dalla porta d’ingresso giù giù fino a un giardino che sbuca dal nulla e s’incunea sul terrapieno.
Viola Rispoli
Viola Rispoli, napoletana, classe ’76, è laureata in psicologia ma questo non le è bastato per venire a capo delle sue personalità multiple, soprattutto professionali, e per sceglierne una. Imprenditrice e skipper, sceneggiatrice e giornalista, consulente alla programmazione e assistente di produzione, è autrice di racconti e reportage narrativi, di soggetti e sceneggiature per cortometraggi, lungometraggi e documentari. Dal 2006 è nella redazione del programma televisivo "Annozero". Un suo racconto compare nell'antologia Quote rosa. Insieme a Paolo Mondani ha pubblicato Fuorilegge (Rizzoli 2006).
Selvaggia scendeva le scale per andare a preparare la valigia, intanto che l’acqua per il the era sul fuoco. Scale, fretta, pantofole lisce, gradini di pietra serena, bordi arrotondati, un velo di polvere perché Rosaria che fa le pulizie fatica a tenere tutte insieme e tutte a mente le cose da fare, da cima a fondo del verme di terra che è questa casa.
«Cioè, sei caduta per le scale!?» La interrompe Sandro, dopo che Selvaggia si è decisa a chiamarlo per dirgli che non è sul treno bensì sul divano. A Sandro non piacciono i suoi indovinelli a rovescio, in cui la domanda che lei lo costringe a fare è già la risposta. E non manca mai di ricordarglielo, ogni volta che Selvaggia comincia a snocciolare dettagli uno per volta, aspettando che arrivi lui al dunque. Così spesso s’imbarcano in questioni verbali. Ma per una volta Sandro sorvola, gli preme che Selvaggia risponda sì o no. Non è che è caduta per le scale, vi è precipitata sopra. Il suo piede destro con pantofola è partito in avanti slittando sul bordo liscio del gradino impolverato, e il resto del corpo ha provato a seguirlo. Per una frazione di secondo ha volato, poi la forza di gravità l’ha costretto ad atterrare sullo spigolo del gradino successivo, anch’esso come i fratelli arrotondato ma duro. Una gran botta di culo, si potrebbe osar dire. E non nel senso metaforico della frase, che significa l’opposto di quello che è in realtà, forse usata nell’accezione di portafortuna per ironizzare sulla triste sorte di colui che la prende, la botta di culo.
Selvaggia sapeva che esisteva un dolore così, e che non avrebbe potuto mai immaginarlo, senza prima provarlo; ma nemmeno la sua più tenace ansia di sperimentazione l’aveva mai indotta ad autoinfliggersi qualcosa che potesse somigliare alla fitta unica che ha appena provato, da capo a piedi, il ronzio nelle orecchie, la vista che trema, il giramento di testa, una morsa di nausea. Selvaggia ha gridato, anche se non lo ricorda; ma in un batter d’occhio la famiglia la circondava, chi sul gradino di sotto chi su quello di sopra e lei immobile su quello assassino. Ecco – ha pensato – rimango paralizzata. Fino a quel giorno sei un’intrepida che prende per le corna la vita, tutta tempeste di mare e bufere di neve, motocicletta, sport estremi ed eccessi di velocità, e finisci paralizzata scivolando sulle scale di casa, in pantofole. Non sapeva che laggiù nella zona sacro-coccige non arriva il midollo spinale, e che quindi la botta non poteva portare paralisi. Non lo sapeva, no, mica si può sempre sapere tutto!
Una volta presa coscienza che le gambe le si muovevano, Selvaggia si è tirata su per accasciarsi sul divano mezzo metro più in là. Suo fratello per l‘impressione se n’è rimasto dieci minuti sdraiato sul letto. Ora si alza e piagnucola: come farò ad aiutare qualcuno in caso di emergenza, se svengo io per primo? E se dovessi portare qualcuno all’ospedale? Selvaggia lo rassicura, «se ci fosse davvero bisogno, reagiresti anche tu», ma non sembra convinta e l’orizzontalità è poco autorevole, specialmente contro il suo metro e ottanta di giovanotto in salute. Le lacrime che non ha sentito scendere si sono asciugate e le tirano la faccia, l’impacco di ghiaccio sul fondoschiena è la percezione più acuta, almeno fino a quando non muove un muscolo di un centimetro, e le fa male tutto. Suo fratello si tormenta la garza sul pollice. Ieri sera se l’è chiuso nella porta di casa, e rischia di perdere l’unghia. «Non c’era bisogno che cadessi dalle scale perché ci fosse qualcuno che si è fatto più male di me», le dice serio. Poi di colpo ride e Selvaggia lo imita subito.
Mezz’ora dopo è già stato fatto tutto per il suo bene, e la giornata continua. Suo padre non tornerà che di sera. Sua madre ha già dato istruzioni a Rosaria, ha chiamato il suo amico ortopedico, ha fatto la lista dei suoi impegni della giornata e per primo ha chiamato l’idraulico, e adesso è pronta per la città: mattinata allo studio, poi alimentari, lavanderia, mercatino, fruttivendolo, orefice o chiunque sia il designato del giorno, elencato sulla sua agenda.
Suo fratello è di nuovo il bel tenebroso di sempre, va all’università; prendi l’ombrello che diluvia – raccomanda la madre, lui dice sì ma non lo farà. Vedrà anche Marianna. Dice che questa volta è amore. Lo dice anche Selvaggia per la prima volta, da quando c’è Sandro, ed è convinta che suo fratello si sia innamorato per non essere da meno. Lei è maggiore di undici mesi, e lui odia restarle indietro. Eppure non riesce a lasciare la casa da cui lei se n’è andata da anni, e continua a posticipare l’epoca della sua laurea.
Rosaria ha bevuto tre bicchieri d’acqua, per riprendersi dallo spavento. Adesso anche lei fa le sue cose, le dice di chiamare se ha bisogno. Solo Selvaggia è fra parentesi. La valigia non fatta è per terra, il suo treno per Roma è partito, niente più colazione perché le viene da vomitare. Ha una coperta addosso, l’impacco di ghiaccio, un libro, il telefono, la voce, ancora la testa, non più i movimenti. Ognuno anche piccolo produce la fitta. Eppure star ferma è una sottile e costante tortura. Selvaggia sceglie un’alternanza tra dolore sordo di sottofondo e dolore acuto, resistendo per un po’ in una posizione che poi cambia strisciando, a denti stretti. La posizione supina è fuori dal gioco. Dal fianco sinistro vede la pioggia di fuori. È un diluvio torrenziale, con un frastuono. Se Selvaggia volesse chiamarla, Rosaria non potrebbe sentirla.
Pioverà tanto che l’acqua riempirà il giardino, le foglie ottureranno il canale di scolo, la stanza si riempirà lentamente dell’acqua che filtra dalla finestra, e lei annegherà. È così a Napoli: quando piove troppo, la città non la beve, i tombini sputano fuori, le strade sono tutte allagate e sotto le strade si sentirebbe, se ci fosse silenzio, un brontolìo grasso, come di viscere in movimento. Ma il rumore di sopra sovrasta, lo scroscio di pioggia, i motori delle auto in colonna, l’infierire dei clacson. Alle fermate degli autobus non c’è quasi nessuno, quei pochi aspettano sugli usci dei negozi, anche se le nuove fermate hanno la pensilina; ma raggiungerla significa guadare un fiume in piena che straripa sul marciapiede. Bisognerebbe avere le galosce. Ma, a parte i pescatori e le ragazze alla moda, che hanno comprato quelle a fiori comparse quest’anno nelle vetrine insieme ai doposci scamosciati, quante persone a Napoli possono dire di possedere galosce? Non siamo mica a Venezia. Chist’è ’o paese d’o sole e lo sarà sempre, anche quando l’alterazione degli equilibri ambientali sarà completa, e la glaciazione ricoprirà tutto l’emisfero settentrionale.
«E che c’entra, mica Napoli sta nel settentrionale». Dice il figlio dell’idraulico. Buffo che l’idraulico traffichi in casa con l’acqua, con tutta quella che cade fuori. Ha accompagnato suo figlio a scuola con il furgone visto il diluvio, ma la scuola era allagata e allora se l’è portato al lavoro. Se il diluvio fosse iniziato più tardi, la scuola si sarebbe allagata con tutte le classi già piene di giovani studentelli di spensierata ignoranza, come il figlio dell’idraulico che non distingue il suditalia dal sud del mondo; e forse l’acqua avrebbe almeno minato la loro ottusa spensieratezza, se non l’ignoranza.
Quando suona il telefono, Selvaggia risponde per prima e Rosaria ne è ben contenta, ma non è per lei che Selvaggia lo fa. Ogni telefonata è un bonus di distrazione. Nessuna è per lei, ma spesso conosce la persona all’altro capo del filo.
«Come mai sei a Napoli?» È una domanda.
«Come stai?» È l’altra. E come fa Selvaggia a rispondere: bene, grazie? In verità botta di culo. In risposta ottiene sibili di pietà, e versi subumani come tentativi di comprendere il dolore. «Hai fatto la radiografia?» Le chiedono tutti. No, non l’ha fatta la radiografia, cari tutti. Come pensate che possa percorrere fino in cima quel lombrico di casa, ora che è immobilizzata ai suoi piedi, anzi nel culo, senza poter muovere il proprio, di culo? Voi che siete tutti così bravi a diagnosticare e a dare consigli, volete per caso provare a mettervi lì, al posto suo, e ad alzarvi da quel divano? Ecco, e allora, per favore. E poi una madre protettiva, efficiente e medico sia pure ginecologo, una che ce l’ha a fare? Le ha tastato già il coccige, e ha decretato che non è rotto. E per di più non s’ingessa, se pure lo fosse. Soltanto, si deve star fermi, come ha confermato l’amico ortopedico. E Selvaggia è lì sul divano, obbediente, anche perché più che girarsi non può, è già un compromesso fra spade diverse che la trafiggono.
Piove ancora, è uno di quegli acquazzoni che non lasciano indenni. La casa a rovescio si è allagata due volte per acquazzoni così. Strade e palazzi della città hanno subito danni da prima pagina per acquazzoni così. L’impacco di ghiaccio si è sciolto, l’acqua è filtrata dall’involucro ed è colata in rivoli di montagna su schiena e cuscini. Selvaggia chiede al figlio dell’idraulico di andare a chiamare Rosaria, che non la sente. Lui si precipita di sopra come se dovesse salvarle la vita. Così finalmente si sposta dalla finestra e le lascia guardare la pioggia. Rosaria, apprensiva e rauca, si precipita a sua volta da lei col tremore in gola, a chiedere cosa succeda. Rosaria non correre, che puoi scivolare sulle scale. Le serviva solo altro ghiaccio.

Giorno due, piove ancora. Selvaggia si sveglia alle prime luci dell’alba, esausta. In cucina trova suo padre, in lotta col sonno da anni, non come lei da una notte soltanto. Ha i lineamenti contratti, distorti, quando la vede si sforza di rimetterli a posto e sorridere. Selvaggia si chiede cosa faccia ogni mattina a quell’ora. Non gliel’ha mai chiesto. La sua non è stata una facile notte, né buona. A fatica si è addormentata nella posizione che preferisce, pancia in giù, braccia lungo i fianchi e mani giunte sotto il corpo, all’altezza dell’inguine, come consolazione. L’impacco di ghiaccio appollaiato al suo posto. Si è svegliata insofferente a notte fonda, incapace di riprendere sonno. Suo fratello era in piedi a guardare la pioggia. Non perché gli piaccia, ma perché la teme. È andato a prendere ghiaccio fresco per l’impacco.
Secondo giorno di divano. Selvaggia legge quotidiani, riviste, romanzi. Telegiornale. C’è una nuova emergenza: sull’autostrada da ieri sera centinaia di automobilisti sono bloccati dalla neve. Hanno trascorso la notte in macchina, mentre l’autostrada è invasa dal ghiaccio, i tir sono fermi, non arrivano spazzaneve né spargisale. Una bambina ha rischiato l’assideramento ed è stata portata in braccio al pronto soccorso del paese più vicino. Non si sa quando i prigionieri forzati potranno a tornare a casa. Sono in macchina da ieri pomeriggio, ma non hanno fatto molta strada. Suo fratello studia attentamente le immagini. È molto sensibile alle catastrofi naturali, da quando la casa a rovescio si allagò la prima volta, che lui aveva sei anni. Rimase talmente traumatizzato che mentre aspettavano genitori e soccorsi fu Selvaggia a consolarlo, cosa che a lei fece passare lo shock. A Napoli catastrofi naturali sono anche la pioggia, la neve. Forse ha ragione il figlio dell’idraulico, non siamo nell’emisfero settentrionale, altrimenti saremmo preparati ad affrontare una pioggia, una neve. Fortuna che a quanto pare il Mediterraneo non può generare tsunami. Terremoti va bene, tutti lo sanno che arrivano. Non che questo possa garantire piani di sicurezza ben fatti, appiattimento dei rischi, contenimento dei danni. Non ci si riesce nemmeno con la pioggia e la neve. A Napoli essere preparati significa questo, sapere che le catastrofi arrivano. Poi, si salvi chi può. Anche Selvaggia sapeva che quelle scale sono assassine. Vi è scivolata altre volte, finora senza danno; e mai che abbia preso misure di sicurezza adeguate, magari un adesivo antisdrucciolo. È così che si fa a Napoli, le cose si sanno, ma si affrontano quando arrivano.
Sandro chiama: come stai? È la quarta volta che glielo chiede in ventiquattr’ore. Come deve stare? Cosa deve rispondere? Hanno di nuovo fretta di riattaccare. Poi Selvaggia resta col desiderio, e quando l’orologio segna le 11.11, l’orario magico, gli manda un messaggio per ricordargli che è il momento di esprimere desideri. Che ti fai la radiografia – Sandro risponde. La voce si è sparsa, amici e parenti la chiamano, Selvaggia ha perfezionato il racconto della caduta. È ridicolo essere la conferma perfetta delle statistiche degli incidenti domestici, proprio lei che si sforza sempre di rientrare negli spicchi minori dei grafici. Un minuto prima teneva per le palle la vita, quello dopo era con il culo per aria, e le lacrime che venivano giù da sole. Senza nemmeno la gloria dell’avventura. Che cos’è che separa la salute e la malattia? La vita e la morte? L’eccezionalità e la conformità? L’esistenza è un filo sottile che tiriamo con troppa incoscienza. Meglio comunque che rimanere paralizzati da sani, come la signora nella sua auto nel lago di Mergellina. E se si deve morire pazienza, ma è importante sapere che ogni minuto è così vulnerabile, anche un minuto che sembra sciocco, come quello che passa tra l’acqua che bolle e la valigia da fare. Come quello che qualcuno stava vivendo nell’appartamento dove sono piombate macerie e automobili. Morire da stupidi, magari guardando la tv o cadendo dalle scale. Selvaggia vuole avere almeno tre figli, perché se uno morisse, lei deve poter sopravvivere. Deve spiegare ai suoi figli che bisogna essere intraprendenti ma con giudizio, che è un modo per dire razionalmente incoscienti. Sapere che siamo così fragili, e allora scegliere come si vuole vivere, una libera scelta tra entusiasmo e terrore esistenziali.
Tutti le chiedono la stessa cosa, più ancora di ieri. Marianna le spiega che sua madre una volta si è rotta sciando, non si è fatta la radiografia e ha continuato a sciare, e dopo sono venute le complicazioni. Incoraggiante, bisognerà che Selvaggia ringrazi suo fratello per avergliela portata in casa a tirarla su di morale. Comunque, a parte il fatto che non ci possono essere complicazioni per essere rimaste sdraiate due giorni sul divano, ma come poteva sua madre sciare se non è possibile nemmeno girarsi sul fianco senza sentire di andare in pezzi? Ma poi anche Sandro, i suoi amici, i parenti, i suoi nemici perfino, tutti lì a chiederle, tranne sua madre: ti sei fatta la radiografia? E sua madre, serafica, manda avanti la casa con in più Selvaggia sul divano. Forse non ci ha pensato?
«Mamma, ti prego», se non ci ha pensato ci penserà Selvaggia «per la mia salute mentale, portami a fare una radiografia».
Lei vacilla un secondo. «Anche solo per farli star zitti» aggiunge Selvaggia, per non assumersi l’onere di mettere in dubbio la diagnosi di sua madre. Lei ficca il naso nell’agenda: domani mattina. Selvaggia ha finalmente una risposta per tutti. Come se la radiografia fosse la soluzione, come se allora si potesse tutto risolvere. In verità non cambierà niente, tranne il fatto di sapere, e alla fine avrà ricevuto una dose supplementare di raggi X. A parte questo, ci saranno ancora le spade, il ghiaccio e il divano.
Nel pomeriggio la pioggia torrenziale ritorna; il cielo è un blocco grigio cemento, la luce è flebile, il mare furioso. Città e regione sono in ginocchio, crolli, frane, vittime. Selvaggia ha letto anche le pagine di economia. Suo fratello studia ma ogni tanto sale le scale d’ingresso e si affaccia nel vicolo, per controllare che i tombini lavorino. Selvaggia ha la sensazione che non cambi mai pagina. Poi cade la grandine, a lungo. Le piace il rumore. Più tardi, quando finalmente si alza e dà un’occhiata in giardino, lo vede tutto bianco come fosse la neve, e invece è la grandine che ha fatto uno strato compatto e ha massacrato le piante; ci sarà un’altra impennata dei prezzi di frutta e verdura. Al telefono con Sandro, Selvaggia non è loquace, riempie i vuoti con monosillabi, tutto il buio del cielo ha nutrito i suoi pensieri più cupi, non ha voglia di niente, nemmeno di lui. Sandro taglia corto: «Fammi sapere domani dopo la radiografia», dice prima di chiudere. Selvaggia spegne il telefono, perché ha paura che questa volta lui non le mandi nemmeno un messaggio. E se smettesse di amarla? E se morisse cadendo dalle scale? Selvaggia non è più certa di essere forte abbastanza da sopportare tutte le cose orribili che possono accadere a questo mondo. Che possono accadere a lei in prima persona, s’intende. Per quelle del mondo intero ci ha fatto il callo. È cresciuta con molte fortune e ha avuto un’esistenza spedita. Ma ora sa che dietro ogni angolo ci sono dei mostri, o potrebbero esserci. Ha dato via culo e innocenza in un colpo solo.
La sera non riesce a dormire. Le immagini più catastrofiche sono un film lucidissimo nella sua mente, nemmeno la sua posizione preferita le è di conforto. E se fosse rotta davvero? D’accordo, tecnicamente non sarebbe poi molto diverso, ma la rottura è sempre uno strappo, un’irreparabile differenza fra il prima e il dopo. Una tazza incollata con l’attak può durare per sempre, ma nel suo intimo sa che non sarà più la tazza di prima. Selvaggia tenta di leggere, ma le parole sono solo treni di lettere. Immagini di ossa spezzate le fanno accapponare la pelle. Prova a immaginare il dolore, non può farne a meno, è insopportabile. Siamo così temporanei, e dobbiamo ricordarci di non rimandare, sia pur continuando a fare progetti. Perché in ogni singolo giorno è nascosto un ingresso per l’aldilà.
Andare di sopra a farsi una camomilla, per la nuova Selvaggia immobile sarebbe un’impresa. Ma la marijuana ce l’ha proprio nel comodino. Le amplifica le sensazioni presenti, ma non può fare a meno neanche di questo. Vedeva mostri, adesso ha paura; poteva restare paralizzata, bastava che il colpo accadesse pochi centimetri più in su; poteva cadere con la nuca sullo spigolo del gradino e diventare demente, o diventare morta; le rimarrà la deformazione ossea, avrà complicazioni scoliotiche, non potrà più fare sport, nemmeno andare in bicicletta in città. Un cuneo immaginario s’insinua nell’osso e fa leva spaccandola in due. Morirà.

Giorno tre, il giardino è ancora bianco di grandine, che pian piano si scioglie perché piove di nuovo. Selvaggia si è addormentata tra qualcuna delle ore piccole, dopo un tempo infinito a dimenarsi fra le fantasiose atrocità della notte. Stamattina, radiografia. Non ha biancheria pulita, sarebbe dovuta essere a casa sua a Roma da tre giorni, e Rosaria non ha fatto lavatrici per il maltempo. Selvaggia apre il cassetto dei boxer di suo fratello, e l’occhio le cade su un paio di mutandine di pizzo. Si augura che siano di Marianna. A lui spiegherà che non aveva altra scelta. A una sorella maggiore si perdona sempre tutto. Almeno suo fratello l’ha abituata così. Davanti allo specchio si vede più rigida che sexy, anche se Marianna porta una taglia in meno di lei. Forse avrebbe dovuto chiederne un paio a sua madre, che ne porta una in più. Selvaggia fa spallucce, non ha intenzione di ripetere l’operazione mutande, le cambierebbe solo se la facessero sembrare più grassa. I suoi obiettivi si sono improvvisamente ridotti, le prospettive schiacciate. Sedersi senza sbagliare il movimento, riuscire ad arrivare al telefono, raccogliere i pantaloni da terra grazie alla prensilità dei suoi piedi. Oggi deve fare molte scale per arrivare alla macchina.
I prigionieri dell’autostrada hanno trascorso la seconda notte all’addiaccio. Selvaggia non lo sopporta. Com’è possibile? Non basterebbero due spazzaneve e tutte le automobili in fila dietro di loro? Anche a passo d’uomo, arriverebbero da qualche parte, e comunque meglio che stare quaranta ore fermi, a congelarsi le chiappe. Ma si vede che lei non capisce niente di infrastrutture e trasporti, sicurezza stradale e protezione civile. Ancora non accende il telefono, ha paura del suo mutismo, oppure che Sandro la chiami per chiederle anche oggi come sta, e a che ora è la radiografia. L’accenderà dopo. Adesso, le scale. Sua madre tiene l’ombrello mentre Selvaggia s’infila in macchina con manovre innaturali. I tombini e il manto stradale di Napoli infieriscono senza tregua, l’utilitaria di sua madre non è in grado di ammortizzare. Avrebbe dovuto sdraiarsi sul sedile di dietro, come da bambina, a dormire, invece è davanti e rischia di strappare dal telaio la maniglia alla quale si appende per non appoggiare il suo peso sul suo didietro. L’ospedale è vicino. Sua madre ieri ha chiesto le procedure per una radiografia, e le hanno detto: lista d’attesa dodici giorni, o pronto soccorso.
Il piazzale davanti all’ingresso del pronto soccorso è ingombro di auto in sosta. C’è solo un corridoio di passaggio, a stento sufficiente per un’ambulanza. E se s’incontrano una in entrata e una in uscita, quale delle due fa marcia indietro? Un uomo con coppola e maglione spigato sdrucito, senza giacca, si alza dalla sua sedia all’entrata. I due gradi centigradi e gli schizzi di pioggia che assediano la sua postazione non sembrano intaccarne la pachidermità. Potrebbe essere uscito ieri da un manicomio, o da un centro accoglienza. Muove un braccio verso Selvaggia e sua madre: «Signo’, non si può entrare con la macchina», dice. Fatto sta che ce n’è un intero parcheggio, ma a parte questo, campione degli uscieri del pronto soccorso, ammesso che la categoria esista, a che serve l’ingresso di un pronto soccorso, se una tranquilla signora over cinquanta non può raggiungerlo per scaricare un infermo?
Sua madre prosegue serafica, snobbando il suo relativo Q.I. Lui si avvicina e vede Selvaggia muoversi come un manichino dalle giunture bloccate, e le prende la mano. Adesso la vuole aiutare, ma lei si fida soltanto di sé e lo tiene a distanza. Sua madre fa marcia indietro, mentre l’uomo le indica la direzione. Selvaggia sa benissimo da che parte deve andare, e vuole un medico, ma l’uomo si trascina esasperato verso la porta senza capire perché lei non lo segua. In realtà lo segue, ma con una velocità impercettibile perfino rispetto alla lentezza di lui. Finalmente Selvaggia raggiunge la stanza del medico. C’è un infermiere. «Dovrei fare una radiografia». Gli dice.
«Eh, già sai quello che devi fare? Lo dirà il medico». Replica l’infermiere. A lei prende il panico: deve uscire da lì con una radiografia. Il medico arriva. La sgrida, mentre Selvaggia cerca invano una superficie sulla quale appoggiarsi, stendersi, perdersi. Gli ha appena detto di essere caduta lunedì.
«Primo soccorso, capisce? P-r-i-m-o, secondo lei che vuol dire? Che doveva venire lunedì, e che ora non dovrebbe essere qui, ma andare dal suo medico, al suo ospedale». Si sgola lui. Dal suo medico? Al suo ospedale? Selvaggia non è sicura di avere un medico, ma di certo non ha un ospedale. Prova a spiegare che lunedì non poteva nemmeno muoversi.
«E si faceva accompagnare da qualcuno!» Infierisce il medico, senza arrivare mai al dunque. Accompagnare? Ma come crede che sia arrivata lì oggi, con l’autostop? Selvaggia ha bisogno di un luogo dove accasciarsi. L’infermiere se ne accorge: «Vabbè, dotto’, è caduta oggi, facciamo che è caduta oggi». Sì, sì, è caduta oggi, ed è pronta a giurarlo.
«Ma non è questo il punto, io glielo scrivo, ma è sempre questo modo di fare, sempre contro le regole, sempre...» Il medico scuote la testa, avvilito. È esasperato dalla malasanità, Selvaggia lo capisce. Cioè, lo capirebbe se fossero in una sala da the a sorseggiare oolong cinese e parlare della società che non quadra. Ma lei ha bisogno di un medico adesso, anche contro le regole. Finalmente lui le chiede i suoi dati in tono brusco, come a chiarire che lo fa ma solo perché vi è costretto, solo perché gliel’ha chiesto l’infermiere, solo perché non ha alternative, solo perché Selvaggia è una giovane donna carina e con un desiderio smodato di stendersi. In effetti perché lo fa non lo sa, è incoerente in maniera rassegnata.
«Accompagnala in radiologia» ordina all’infermiere.
Intanto arriva la madre, che ha parcheggiato da qualche parte nella nevrosi urbana di fuori. Sta già comunicando di essere una collega, che sua figlia questo e quello. Abborda il medico riluttante, Selvaggia la lascia a lavorarselo qualche minuto, il corridoio sembra infinito. Ma non hanno le sedie a rotelle, nei pronto soccorso? Tutti la guardano passare invisibile, assuefatti a storpi e sciancati. Si lanciano battute sulla riforma della sanità, che non piace a nessuno. Chi l’ha fatta non è mai stato medico – dicono – e neppure infermiere. E forse nemmeno paziente di struttura pubblica. Là in fondo, come un miraggio, radiologia. Sua madre la raggiunge e la supera come la lepre con la tartaruga, ma non per prenderla in giro. Sono un medico, e ho una figlia giovane e bella, permesso.
«Da questa parte». Le agevola un uomo con camice. Finalmente il lettino dei raggi. Selvaggia si deve tirare giù i pantaloni e sdraiare, supina. L’uomo le dice di resistere, è doloroso ma necessario. Poi le dice su un fianco. Selvaggia esegue più in fretta possibile, per quanto si possa ormai associare l’idea di velocità ai suoi movimenti. Su un fianco, finalmente, sollievo. Fate quello che volete di me, io resto qui. Ha i pantaloni appallottolati sulle caviglie, come la mattina della caduta. Le mutandine succinte, davvero, le donano, dovrebbe sottrarle a suo fratello per usarle con Sandro. Ma se sono di Marianna lui sarà costretto a darle una spiegazione. Arriva il radiologo: ma quanto parla sua madre? – le dice. Prende una sedia e si mette comodo vicino al lettino, sprizza euforia, fa una battuta, le chiede l’età, racconta di sé. Quanto parla sua madre?
«Abbiamo finito?» Selvaggia gli chiede. No, quasi. Sembra che le chiacchiere siano parte del trattamento, e il medico fa anche degli apprezzamenti trasversali sulle mutandine di Marianna. Forse è il suo modo per alleggerire la cosa. Forse il gene di Napoli prevede il libero sfogo di tutti gli impulsi anche nel reparto radiologia. Non che sia volgare o sgradevole, anzi ha un certo savoir faire dongiovannesco. Né Selvaggia disprezza i complimenti. Di Napoli le mancano perfino i fischi che le lanciano gli uomini per strada, ma c’è un limite per qualsiasi Narciso. Finalmente il medico si alza e la lascia. Selvaggia si riveste ed emerge dalla stanza-lettino.
«Frattura osso sacro» Le dice il radiologo allegramente. Prognosi: trenta giorni. Osso sacro? Quanti giorni? No, non è possibile, erano soltanto scale! Certo, ma considerato che poteva anche morire, è stata fortunata. La parola si arrota fra i denti, frattura. Mamma, non era il coccige, su questo avevi ragione. Il medico la vede sbiancare. «Comunque non cambia niente» le dice. «Mi fa piacere che lei sia venuta perché abbiamo avuto l’onore di ammirarla in déshabillé, ma con o senza radiografia è lo stesso, si poteva risparmiare lo sforzo». Già. E il sapere, dove lo mette? E le telefonate del resto del mondo?
Il primo medico le riaccoglie con tutt’altro spirito, avendo ormai confidato a sua madre problemi sessuali e anche sentimentali che vi sono legati. Accompagna Selvaggia all’uscita porgendole il braccio. «Allora arrivederci, e si rompa più spesso», conclude con un grande sorriso.
Sua madre va a prendere la macchina mentre Selvaggia aspetta con l’usciere scappato dal manicomio. Lui le offre la sedia, sposta con molta attenzione dei sacchetti di plastica pieni di roba. Forse se lo tengono seduto all’ingresso tanto per metterlo da qualche parte, e gli passano i pasti dell’ospedale.
Al ritorno Selvaggia si sdraia sul sedile di dietro. Quanti altri giorni di divano l’aspettano, quanti impegni mancati? Quando potrà tornare a Roma? Accende il telefono. In trenta giorni può cambiare la vita, potrebbe non essere più innamorata di Sandro, lui potrebbe innamorarsi di un’altra, potrebbe cambiare lavoro e paese, potrebbero dover fare un altro trasloco. O forse alla fine di un intero mese può esserci anche un’attesa rassicurante? Sta smettendo di piovere pian piano, per sottrazione di gocce. Quando imboccano la strada di casa Selvaggia si aspetta l’arcobaleno. Prende fiato e dice a Sandro che tutto sommato non passerà così presto. Che non tornerà fra due giorni. Lui le dirà che, come c’era da aspettarsi, aveva ragione ad insistere per la radiografia. Invece le dice soltanto che gli dispiace. Selvaggia aspetta che dal cellulare scaturisca qualche polemica semantica ma niente, Sandro le dice che ci penserà lui a consolarla, e ride. Selvaggia non capisce perché.
Poi capisce all’improvviso, come l’arcobaleno. Sandro è nel vicolo, davanti alla porta della casa a rovescio. Ai suoi piedi la valigia piccola con le ruote. Quando vede la macchina, chiude la conversazione. Selvaggia rimane col telefono attaccato all’orecchio, imbambolata. Sua madre è elettrizzata per la sorpresa, starà già pensando a cosa cucinargli di buono, cosa regalargli da portar via quando tornerà a Roma.
Sandro apre la portiera dell’auto, le porge le mani senza toccarla. Selvaggia le afferra. «Ti guarirò di carezze» lui le sussurra all’orecchio, così piano che le si drizzano i peli sulle braccia; e quando si appoggia a lui sente che gli si è fatto duro. ♦

© Copyright 2007 Viola Rispoli (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 60, aprile-giugno 2007)