Susanna Bissoli, In viaggio con papà




P
osso?, chiedo a mio padre.
Susanna Bissoli
Fai quello che vuoi, mi risponde. Così appoggio i piedi sul cruscotto, sposto il sedere più avanti sul sedile e appoggio la testa. Scomodo. Già capito che non dormirò. Fuori, nella luce bianca dell’alba, una nebbia bassa è stesa sulle risaie allagate come una coperta. Un uccello grande e bianco plana sull'acqua.
Quello lì è un airone, dice mio padre. Sono comparsi di punto in bianco. Non se n’erano mai visti da queste parti.
Ma dai. Faccio la stupefatta, ma io me ne sono già accorta che le cose cambiano in continuazione. I pesciolini che nuotano nelle risaie, gli insetti che arrivano d’estate, io.
Al casello di Nogarole Rocca mio padre deve sporgersi un po’ fuori dal finestrino per prendere il tagliando. Lo infila nel taschino della camicia imprecando.
Per immetterci in direzione Bologna facciamo un grande giro in tondo. Mi viene la nausea. Sbadiglio.
Hai sonno, vuoi un cuscino?, mi chiede.
L’ha già preso da sotto il suo sedile e me lo allunga. È quello verde a fiori. Mia madre lo cercava. Per il momento me lo appoggio sulle gambe.
È stata un’idea di mia mamma che io accompagni mio padre nelle Marche.
Gli fai un po’ di compagnia, poveretto. Tutta quella strada da solo.
C’è anche un’altra ragione che sappiamo io e lei e questa ragione mi fa dire vaffanculo mamma.

Per tutta la mia infanzia ho immaginato le Marche come il paese dei balocchi. Da sempre mio padre parte il giovedì mattina all’alba in furgone da solo per andare a caricare le scarpe a Porto Sant’Elpidio e a Civitanova e ritorna la notte affamato e bianco dalla stanchezza. Mia madre gli fa trovare il suo angolo di tavola apparecchiato e un piatto coperto. Lui va a cambiarsi, a darsi una lavata, poi scende, si siede e accende la tv. Il giovedì a quell’ora ci sono gli incontri di pugilato. Mio padre mastica e ogni tanto chiude gli occhi. Io lo guardo e una paura sottile mi striscia dentro. Resto lì, inginocchiata sulla sedia, vicino al sacchetto di plastica gialla con la scritta autogrill che lui ha appoggiato sul tavolo entrando. I miei fratelli sono a letto. Lui mi indica la borsa con il mento e io finalmente la apro. Ci sono delle scatole di biscotti tra cui la solita, già aperta, di cantuccini, dei sacchetti di caramelle e il libro per me. Spero che abbia almeno tre stelle sul dorso. Mio padre non si è mai accorto che il numero delle stelle corrisponde alle diverse fasce di età. Mi chiedo se nemmeno i titoli gli dicano niente, una settimana può essere Huckleberry Finn, un’altra Lo scimmiottino color di rosa.
Mi piace l’idea del viaggio. Mi piacciono i chilometri, l’autostrada. Il centro del paese è attraversato dalla statale e li vedo passare, i camionisti, dentro i loro gabbiotti personalizzati, hanno tutti un’aria vissuta. Ho quindici anni e già sogno di andarmene per sempre. Però è la prima volta che sto tanto tempo da sola con mio padre.
Guardo la strada davanti, poi il suo profilo aquilino. Nessuno ha mai voglia di salire in macchina con lui. Ce l’ha con i pedoni e i ciclisti, non permette che si mangi, si beva o si canti, non si possono aprire i finestrini perché molti anni fa, quando io ero in prima elementare, ha rischiato di morire per una pleurite. Ma il problema principale è che gli piace correre e non tollera che qualcuno lo sorpassi. Una volta mia mamma si è fatta mettere giù a un autogrill. È successo mentre tornavamo dalla Puglia. Lui è ripartito sgommando. Io e mia sorella siamo scoppiate a piangere e mio fratello che era seduto in mezzo ci ha abbracciate tutte e due. Alla prima uscita siamo tornati indietro. Mia mamma era seduta sul gradino della pompa di benzina che mangiava un gelato con addosso gli occhiali da sole. Mio padre ha aperto la portiera da dentro e lei è salita senza dire una parola. Mio fratello ha detto Questa è l’ultima volta che vengo da qualche parte con voi, poi nessuno ha più parlato fino a casa.
Mio padre è fatto così, è un tipo nervoso. Perde la pazienza con facilità, gli danno fastidio le persone che suonano alla porta e grugnisce se qualcuno si mette a lavare i piatti mentre lui sta guardando la tv in cucina. Però è difficile che se la prenda con la gente. In genere prende a calci le porte e le sedie, dà dei pugni sul tavolo, forza i cassetti che non si aprono sibilando porco zizzolo che immagino sia un vezzeggiativo di dio.

La strada si srotola davanti a noi, dietro un orizzonte ce n’è sempre un altro, uguale. L’abitacolo vibra, c’è odore di plastica calda. Mi accorgo che non mi danno fastidio, anzi, un po’ mi eccitano la velocità e i sorpassi. Guardo mio padre che si deterge la fronte con un minuscolo asciugamano. I piedi sul cruscotto me li ha lasciati mettere. Adesso accendo la radio. Cerco una stazione.

Quel gran genio del mio amico
Con le mani sporche d’olio
Con un cacciavite in mano
Fa miracoli


Mio padre contrae la mascella.
Ti dà fastidio la musica?, gli chiedo.
Non risponde. Spengo la radio.
Adesso è solo la strada, il vibrare dell’abitacolo, le mani di mio padre sul volante. Ogni tanto solleva le dita per qualche secondo, sembra il gesto di preghiera di un santo e non capisco se è per spiare qualcosa sul quadrante o se è la cifra di qualche suo pensiero segreto. Appoggio il cuscino contro il vetro e mi addormento.

Mi sveglio in un bagno di sudore che stiamo parcheggiando il furgone davanti all’autogrill.
Se devi andare in bagno vacci adesso perché dopo non ci fermiamo più.
Una signora con i capelli tinti di biondo e gli occhi come se avesse passato la notte a piangere mi allunga una brioche con la crema. Mio padre torna dal bagno con i capelli bagnati e profumato, una bottiglia di acqua minerale in mano.
Andiamo?, dice.
E tu, non prendi niente?
Adesso mi compro i miei biscottini.

Il traffico si è intensificato. Mi indica a un certo punto un castello sulla destra.
È quello di Paolo e Francesca, mi dice.
Che ne sa mio padre di Paolo e Francesca? Nell’aiuola di divisione delle carreggiate adesso ci sono fiori gialli e rossi. Il cruscotto è caldo e vibra sotto i miei piedi nudi.
Perché mi hai dato una sberla l’altra sera?, gli chiedo.
Non risponde. Il silenzio è riempito dal rumore del motore e dalla strada. Lui guarda avanti, le mani sicure sul volante. Alla fine mi viene il dubbio di non avere formulato la domanda, di averla soltanto pensata.
A un certo punto allunga una mano, fruga nel cruscotto. Scosto le ginocchia. Estrae una cassetta e la infila nel mangianastri. Musica classica. Prendo in mano la custodia. Concerto di capodanno di Vienna. Do un’occhiata alle altre cassette. Ci sono i successi di Celentano e le barzellette di Gino Bramieri. Mi è andata bene.

Fa un caldo che sfuma i contorni delle cose e le fa vibrare nell’aria, l’asfalto sembra ricoperto da un velo d’acqua. L’uomo del casello ha la camicia sbottonata e il petto sudato. Accostiamo dopo pochi metri. Mio padre apre lo sportello e si deterge la fronte con l’asciugamano. Prende una cartellina e mette in ordine dei fogli. Penso: lo fa sempre. In questo posto lontano da casa lui ha delle abitudini.

Infiliamo una strada polverosa, capannoni a destra e a sinistra. Dove andiamo?, chiedo.
Ferrodi.
Ferrodi?
Il calzaturificio Diana.
Ah.
Una vita che vedo in magazzino delle pile di scatole bianche con scritto sopra “Diana” in corsivo dorato. Mi sono chiesta spesso se questi nomi di donna sulle scatole da scarpe li mettano a caso o se è un po’ come con le barche. Quelle delle scatole “Diana” sono scarpe da donna eleganti, con il tacco alto. Da piccola non vedevo l’ora di crescere per portarle, pensavo che ci fosse un’età in cui si cominciano a portare i tacchi alti, così come un’età per la permanente, un’età per girare il mondo, un’età per avere dei figli e le credevo cose in ugual modo ineluttabili. Insomma, avevo un’idea piuttosto distorta dell’età adulta.
Le scarpe con i brillantini di mia mamma io e mia sorella le tiravamo sempre fuori quando venivano a giocare da noi le bambine Melone che abitavano al piano di sopra. A loro le prestavamo anche per le feste di compleanno, quando indossavano il vestito della prima comunione e sposavano il loro fidanzatino del momento. Io e mia sorella eravamo costrette a fare il corteo nuziale e non potevamo fare nessuna faccia perché la signora Melone riprendeva con la telecamera.
Mia mamma diceva sempre che non dovrebbero essere gli uomini a disegnare le scarpe da donna. Guardava con un sorriso strano i rappresentanti che arrivavano in magazzino con le loro camicie azzurre, le cravatte a righine e la valigetta rigida. Li guardava estrarre le scarpe da donna tenendo tra le dita il tacco da novanta come un calice e faceva dei risolini ogni volta che aprivano bocca. Loro si imbarazzavano. Chiedeva in quali colori facevano quel modello o se si poteva togliere il cinturino nello stesso tono con cui si chiede a un bambino se l’orsacchiotto ha dormito bene. Mio padre invece era accigliato e deciso nella scelta. Ma lui portava scarpe comode con la pianta larga.

Questa è la fabbrica di Ferrodi. Se arriva il cane tu non guardarlo, vedrai che si stanca subito di abbaiare.
Non vedo arrivare nessun cane, ma mi infilo nel capannone dietro a mio padre e mi affretto a chiudere la porta alle mie spalle.
Buongiorno, buongiorno, buongiorno, gracchia un merlo da una grande gabbia nell’angolo. Un uomo piccolo e peloso con un paio di calzoncini corti esce da dietro una grande macchina che sputa ritagli di pelle.
Ciao France’, questa è la tua figliola?
Mi stringe calorosamente la mano. Intorno è tutto uno sferragliare di macchine, forte odore di pelle e di colla. Gli operai alzano appena gli occhi. Una signora spettinata con un grembiule arancione che sta mettendo le scarpe nelle scatole mi guarda e mi sorride.
France’, dice Ferrodi. Non ti arrabbiare, non mi dire niente, neanche una parola.
Gli sta dando del tu. A mio papà. Lo chiama France’.
Non dirmi che non sono pronte, dice mio padre.
Mo’ te le preparo, dammi solo un paio d’ore, a momenti dovrebbe arrivare mio cognato ad aiutarmi.
France’, dice mio padre, lo sai che così non mi piace.
Lo so France’, dice Ferrodi. Lo sai che di solito sono preciso.
Mica tanto, dice mio padre, ogni settimana la stessa storia. Avevi promesso di cambiare sistema.
La pelle è arrivata in ritardo. Abbiamo tagliato tutto ieri, ma mica si possono fare i miracoli.
Mio padre non dice niente. Sta lì con le mani sui fianchi come una massaia, muove ritmicamente la mascella sotto la guancia.
Ripasso oggi pomeriggio, ma mi raccomando, che sia l’ultima volta. Ci ho da andare in molti posti.
Dice proprio così, ci ho da andare.
Sicuro, France’. Non ti preoccupare.

Facciamo un sottopassaggio e dopo una piccola salita, ecco il mare. Ma noi entriamo col furgone in un cortile. Il calzaturificio Sonia, scatole nere, scritta rosa. Stavolta mi rifiuto di scendere dal furgone. Dallo specchietto retrovisore li spio che caricano. Poi mio padre mi raggiunge, arrotola una braga e da dentro il calzino tira fuori un rotolo da centomila.
Ricordati: pagare sempre e in contanti, mi dice andando verso l’ufficio. Un cane nero lo segue abbaiando.

Non andiamo a mangiare?, gli chiedo quando siamo finalmente in strada. Mia mamma mi ha parlato di una baracchina sulla spiaggia dove fanno il pesce fritto. Me l’ha messa giù come la principale attrattiva del viaggio.
Dobbiamo andare da Gino.
Gino. Lui lo conosco di nome. È un vecchio, uno dei primi fornitori di papà. Fanno scarpe da donna, ma i modelli sono antiquati, non vendono più.
Non avevi detto che non vanno più le sue scarpe, che l’ultima volta le avete date a una pesca di beneficenza?
Non possiamo mica smettere di comprare tutti quanti.
Il signor Gino ci viene incontro con passo sghembo e veloce, la mano già protesa in avanti. Ha un paio di pantaloni color panna che gli stanno grandi sul culo, occhi piccoli e azzurri dietro gli occhiali.
È tutto pronto da caricare, tutto pronto France'.
Do una mano anch’io e con tre giri, un pacco di scarpe per mano, abbiamo finito.
Se vuoi France’ ti dò anche un po’ di 134 nero, ho un paio di numerazioni.
No, Gino. Un’altra volta.
La settimana prossima ti faccio trovare il 128 rosso. Vedrai che bello, in rosso.
In caso ti telefono. Però, Gino, dovresti provare anche tu con i russi. Arrivano con i pullman a comprare. Anche Ferrodi lavora tanto con i russi. Se facessi un po’ di pubblicità.
Ma quale pubblicità, France', quali russi! Forza che salgo in furgone con voi e andiamo a mangiare da Lu Pinnu.
No, no, Gino. Stavolta non se ne parla.
Guarda che mi offendo, eh, France’. Scommetto che tua figlia non li sa mangiare, gli scampi. Li sai mangiare gli scampi?
Dico che no, non so nemmeno cosa siano, gli scampi.

Ecco, vedi? Lo prendi con le due mani. La testa la stacchi così. Puoi succhiare. Puoi anche aprire le chele. È buono dentro. Poi togli il guscio, così. Ed ecco che ti resta la polpa bella intera e sgusciata. È buono, vero?

Lasciamo Gino davanti al suo condominio che ci saluta con un gesto. Mio padre si asciuga la fronte tamponandola con il piccolo asciugamano. E adesso, dice, andiamo a farci un bel sonnellino. Parcheggia sul lungomare, prendiamo il caffè in una baracchina, poi chiede se è troppo presto per noleggiare una sdraio. Per quanti giorni, chiede il barista. Per un’ora, dice mio padre. Si stende sul lettino senza togliersi le scarpe e nel giro di pochi minuti sta già russando a bocca aperta. Penso ai filmini che mio fratello mi ha mostrato di recente delle sue gite in montagna con papà. Li pensavamo in giro a camminare per sentieri, tornavano sempre la sera stanchi e abbronzati con uno strudel. I filmini erano girati in diverse stagioni, mio fratello li aveva raccolti in un’unica cassetta. La scena era sempre la stessa: mio padre sdraiato in una radura con le scarpe della domenica che dormiva a bocca aperta. A volte intorno c’erano fiori e erba, a volte chiazze di neve. La telecamera girava in tondo per poi tornare a posarsi su mio padre. Ogni tanto un primo piano della sua faccia, del suo ventre che andava su e giù, delle sue scarpe. I filmini erano tutti color seppia perché mio fratello non sapeva come farli venire a colori. Poi Vanni era cresciuto e mio padre aveva smesso di fare gite in montagna.

Nell’abbandono del sonno la faccia di mio padre mi appare estranea. Non mi sono portata nemmeno un libro da leggere. Le bandierine degli hotel sventolano pigre, le boe arancioni dondolano al largo, un ragazzo con i pantaloni rossi porta a passeggio sul lungomare un enorme cane a pelo lungo. Tira un bastone, il cane corre a raccoglierlo ballonzolando e poi comincia a girare intorno al padrone che cerca di convincerlo a restituirlo. Ma il cane vuole che glielo strappi dalla bocca. Tira, tira e ringhia. Sbava. Vuole la lotta. Vieni qui, vieni qui. Presentami il tuo cane, baciami. Faccio i conti con un desiderio che mi assale a sorpresa. Spesso mi tocco nel chiuso del mio letto, mentre sento le macchine e i tir passare sulla statale. Chissà se succede anche agli altri, dietro le porte delle loro stanze. A mio nonno, a mio padre, a mia madre. A mia sorella, a mio fratello. Il corpo parla a tutti così potentemente? A pensarci mi si rovescia lo stomaco.

Adesso ci facciamo un bel gelato.
La mano sulla spalla mi ha fatto sobbalzare dallo spavento.

Mentre lo guardo leccare il suo cono a quattro gusti piegato in avanti sulla sedia, mi viene in mente la sua faccia dell’altra sera, quando tornando dalla partita l’ho trovato in piedi dietro la porta e rosso in faccia mi ha tirato quella sberla. Davanti a mia mamma che è rimasta a bocca aperta e ha detto oh e con la mano ha fatto un gesto che voleva dire sei diventato matto tutto d’un colpo? L’unica cosa che mi viene in mente è che mi abbia pedinata. Deve aver visto quando sono salita sulla panda con Michele, lui che mi mette un braccio attorno al collo e mi bacia. Però a mia mamma non ha detto niente di tutto questo. Neanche una frase di spiegazione. Si è chiuso in bagno e l’ho sentito girare la chiave che ero già a letto da un pezzo. E adesso eccolo lì che mastica quelle cosettine dure che trova dentro il freddo del gelato. Stracciatella, bacio, malaga, questi gusti.
Papà, gli dico. È vero che la tua fede l’hai buttata in mare durante il viaggio di nozze in Liguria?
È tua mamma che ti racconta queste stupidaggini?
Ha detto che si è arrabbiata perché hai mangiato un panino col cotechino a metà mattina e poi quando è stata ora di pranzo non volevi mai smettere di guidare.
Tutte balle. L’anello ce l’ho nel cassetto del comodino. L’ho tolto perché mi si gonfiano le dita delle mani.
Lei ha detto che vi siete messi a urlare sul lungomare e tu a un certo punto ti sei tolto l’anello e l’hai scagliato in acqua.
Tua mamma ha una grande fantasia.
Siete mai stati innamorati tu e la mamma?
Che domande sono? Quando l’ho conosciuta aveva la tua età. Era bella, più magra di te. Le ho dato un passaggio in moto per andare a ballare. Scommetti, mi ha detto, che ho una calza diversa dall’altra? E infatti ha tirato su la gonna e ne aveva una lunga e una corta.
Annuisco. La conosco questa storia, fa parte della mitologia familiare. Quella che dovrebbe reggere il senso di tutto.

Il sole al ritorno è una palla arancione che scende sull’autostrada davanti a noi.
Papà, dico. Io da grande voglio fare l’attrice.
Intanto pensa a prendere un diploma.
Finisco le superiori, poi vado a Milano a fare la Paolo Grassi.
È meglio che cominci a pensare alle cose serie.
Lo guardo. Guida tranquillo, le mani salde sul volante. Mi chiedo come se lo immagini lui, il mio futuro. Io so che farò l’attrice e non mi sposerò mai, so che siederò sul letto di tante stanze d’albergo, in mutande e con un libro sul comodino. So che non gli presenterò i miei fidanzati perché non gli piaceranno e che solo al mio ritorno gli parlerò dei miei viaggi in zone pericolose e lontane.
Entriamo con il furgone nel parcheggio di un grande autogrill. Vuoi un panino, mi chiede.
Prendo un panino con le verdure grigliate e il formaggio e una coca gigante. Poi lo vedo che prende una grande borsa di plastica gialla, fa il giro degli scaffali e infila dentro roba: scatole di biscotti, caramelle, cioccolata. Poi arriviamo davanti all’espositore dei libri. Stavolta scegli tu, mi dice. ♦


© 2007 Susanna Bissoli.