Federica Senigagliesi, Divano terminale




Q
uando sono nata m'hanno presa per le penne. M'era venuta fretta e ho deciso da me che era il momento di uscire, in anticipo di due settimane sul tempo stabilito. Si vede che ci tenevo a nascere in aprile, che maggio non mi piaceva.
Federica Senigagliesi
«Il racconto Divano terminale parla anche “dell'incidenza della routine nella vita di coppia, di come e quanto siano diversi gli uomini e le donne, della disparità tra chi fa sempre le stesse cose perché danno sicurezza e chi ha la lucidità di vedere che la sicurezza non dà affatto la felicità” (come dice il caro amico Matteo, che l'ha letto per primo e ha trovato il titolo che a me proprio non veniva...)».
Mamma sta raccontando, in forma molto romanzata, il giorno della mia nascita a Emilio, che si è abbuffato di tagliatelle al ragù e ora di tutto avrebbe voglia tranne che di ascoltarla. Io pure non ne ho voglia, perché di ricordare ogni volta che stavo lì lì per morire ancor prima di cominciare, mi fa sentire quasi in colpa per essere sopravvissuta.
«Un dolore, Emì, sapere che non l'avrei sentita passare nelle mie viscere, capito? Più questo, di dolore, che l'altro fisico».
Mamma esagera sempre, col fard, coi piatti di pasta, con le espressioni che usa quando parla. Accenno un mezzo sorriso tra me e me, mentre la ascolto e tolgo via le briciole dalla tovaglia. Le raccolgo in un mucchietto con la mano sinistra e poi le getto sul palmo a conca della destra. Ne cade sempre qualcuna a terra, dopo bisogna passare la scopa, e passare la scopa è una di quelle attività inutili che eviterei volentieri. Domani ne cadranno altre, di briciole, perché spazzarle via ogni volta, mi chiedo.
Sono le due del pomeriggio, o poco più. È agosto, è caldo, se qui ci fosse il mare si andrebbe in spiaggia a prendere un po' di sole e di vento in faccia. Da piccola in villeggiatura a Viareggio mi mangiavo la sabbia a piene mani, poi stavo tutto il giorno a sputacchiare i granelli dalla bocca. Tra un ceffone e l'altro, che servivano a educarmi. I granelli incastrati fra i denti non se ne andavano nemmeno con dieci passate di spazzolino. Il tempo delle vacanze aveva il sapore vuoto della sabbia e la consistenza ruvida dell'attrito sul palato. Mi piaceva tanto.
Con gli anni ho un po' perso la resistenza alle cose, i denti si sono levigati a forza di strofinarli l'uno contro l'altro, la lingua si è placata contro superfici più morbide.
Qui non c'è il mare, ed è domenica, ed è agosto, nulla di più.
Emilio finge interesse al resoconto dettagliato del taglio cesareo. Curva il sopracciglio sinistro come fa di solito quando ascolta annoiato. Mamma era sotto anestesia totale eppure si ricorda tutto, mah.
Dalla cucina sbuca papà, con la bottiglia di liquore all'erba luigia in mano, la distilla personalmente ed è diventato un must alla fine di ogni pasto. È troppo forte per la mia testa, anche se è buono e mi piace berlo. Lo sguardo di Emilio si ravviva alla visione del liquore, forse si sente salvato. E anche lo sguardo di papà si ravviva nel vedere quello di Emilio. Si ravvivano a vicenda; sono teneri, e non lo sanno.
«Perché, una volta che ti fanno il taglio, poi il parto naturale te lo scordi, capisci Emì? Ogni figlio, un taglio. Cinque figli? Cinque tagli, no?»
La storia è sempre la stessa. Io che rompo le acque alle due di notte, mamma che non se lo aspetta, papà che è di turno in caserma, lei che sale sulla 127 blu e lo raggiunge stirando la seconda. Poi la strada fino all'ospedale, piena di curve, che per morire, quella notte, le occasioni non sono mancate, pare. Poi la complicazione del cordone attorno al mio collo già lungo, chiamate l'anestesista, chiamatelo che è urgente. E poi, eccomi qui. Io viva e mamma pure. «Potevamo morire entrambe». Quanto le piace parlare di morte, sarà un modo intelligente per esorcizzarla; io preferisco rimandare il discorso a tempi peggiori.
«Un goccettino?» dice papà accostandosi ad Emilio, sapendo che non rifiuterà, e infatti non rifiuta.
Emilio non lo sopporto più. Sta diventando pallido come la sua pancia, ha firmato un contratto a tempo indeterminato e adesso è diventato indeterminato anche lui. Non saprei definirlo: un uomo giovane, un giovane uomo, un trentenne salvato a malapena dallo stress, un trentenne perso dietro gli oggetti all'ordine del giorno.
Emilio è il mio fidanzato. Non abbiamo fedine al dito, è il mio fidanzato per usufrutto. A mamma piace, a papà anche; a me piaceva quando ancora non piaceva a loro. È durato poco, non so quanto. Ma siamo ancora qui, abbiamo appena consumato il pranzo domenicale in famiglia e di chiedermi come mai ci sciupiamo ancora insieme non ho voglia, ora.
«Ma se nascevo quando vi aspettavate che dovevo nascere, ti saresti ricordata lo stesso così bene quel giorno?»
«Tesò, il primo figlio non si scorda mai».
Ma non era il primo amore, mamma?

Le due e venti. La tavola è sparecchiata da posate e bicchieri, resta solo la bottiglia di liquore sopra la tovaglia a scacchi gialli e blu. Le persiane del balcone sono chiuse, ci batte il sole tutto il pomeriggio in questa parte della casa. Mamma e papà dopo pranzo si stendono sempre un po' sul letto, a volte ci stanno ore intere. Dormono, o sonnicchiano, e tengono il ventilatore acceso alla velocità due. Io raramente riposo dopo aver mangiato. Mi metto a leggere una rivista o telefono a Agata che risponde a tutte le ore, per fare due chiacchiere e annoiarmi in compagnia.
«Vuoi uscire?»
Perché Emilio mi chiede se voglio uscire mentre si toglie camicia e scarpe? Che faccio, esco da sola, a zonzo come una picchiata in testa, oggi, che è domenica d'agosto e tutti stanno nascosti o sono fuggiti altrove?
Non rispondo, cambio argomento.
«Vuoi il caffè?»
«Un goccio, ma fallo forte almeno».
Almeno, sì, almeno.
I miei il caffè lo prendono quando si alzano dal letto. Se non è domenica, si preparano carini ed escono per andare al bar del corso, che è aperto tutta la settimana, tranne la domenica, appunto.
Io lo prendo subito dopo aver mangiato, anche la sera, non mi fa l'effetto che non dormo. Non mi fa nessun effetto. Mi addolcisce un po' la bocca, lo prendo senza zucchero, non per fisime di linea, solo perché mi deve addolcire la bocca, che di solito è più amara, molto più amara del caffè che mando giù.
No, non usciamo ora, non ho voglia di niente ora. È caldo, e mi stanca.
Mi avvicino ad Emilio che intanto s'è allungato sul divano, ha sistemato un paio di cuscini sotto la testa e uno sotto i piedi. Gli porto il caffè su una tazzina sbeccata, ultima superstite di un servizio da lista nozze. Emilio prende la tazzina con una mano, e con l'altra mi sfiora le cosce. Indosso un abito di viscosa azzurro, sotto l'abito porto mutande bianche. Niente pizzi e merletti, giusto un paio di mutande bianche di cotone elastico. La sua mano sale dalle cosce alle mutande e mi sfiora lì, dove un desiderio potrebbe svegliarsi, ma non si sveglia niente. Non è un gesto sensuale, è il gesto di chi ribadisce una proprietà, un potere. È un gesto abitudinario. Ritrae la mano, beve il caffè d'un sorso, mi restituisce la tazzina e mi chiede di stendermi accanto a lui. Io la mia tazzina la tengo ancora, aspetto sempre un po' prima di berlo, mi piace respirarne l'aroma caldo. Faccio un sorso e lo mando giù che ancora scotta. Poi mi stendo anch'io ma non so dove mettere le braccia, il divano è stretto per stare lunghi in due. Emilio allora si addossa allo schienale imbottito e mi tira verso di sé. È tutto ancora più stretto e io sto ancora più scomoda. Penso che è domenica, va bene, ma non per questo bisogna soffrire.
«Quella vetrina di noce è molto bella. È quella di tua nonna?»
«Sì, avrà cent'anni».
«Ti piacerebbe averla a casa nostra?»
«Quale casa, Emilio?»
«Quella che avremo».
Quella che avremo. Già. La verità è che mi piacerebbero un sacco di cose, sì, proprio una sacco di cose, Emilio, ma non credo che sarai tu a darmele. Primo, perché non te le ho mai chieste, e poi perché sono già stata salvata una volta da morte probabile; una seconda forse non la scampo. Uno specchio potrebbe aiutarmi, come quello ovale dell'ingresso. Anche quello era di nonna, ogni mattina la vedevo appuntarsi i capelli bianchi in una grande cipolla di ciocche attorcigliate su se stesse. Io ero piccola e bassa, non ci arrivavo a specchiarmi, allora saltellavo di fianco a lei, e a tratti alternati spuntava un pezzo della mia testa dentro la cornice d'oro.
Penso queste cose, e non so per quanto tempo le penso, tanto o poco, non c'è misura a volte che possa riportarmi a terra.
Emilio ronfa, di già. La sua pancia segue il ritmo del respiro, si espande e restringe e sfiora la mia schiena, curvata alla meno peggio sopra la linea molle di questo divano, che non prende la mia forma, non riesce proprio ad adattarsi.
La sabbia invece sapeva accogliermi, modellata sotto il peso dei miei passi veloci e del mio corpo steso al sole. Qualche volta restavo seduta a riva a lungo, a non far niente. L'acqua mi lambiva e sentivo i granelli scivolarmi di corsa lungo le gambe. Poi mi alzavo, e di tutto quel tempo rimaneva l'impronta del mio sostare. Un'onda debole passava e riempiva il solco. Io guardavo l'acqua rifluire, poi mi tuffavo senza prendere respiro. ♦

© 2008 Federica Senigagliesi