Caterina Falconi, Prove generali




I
l mare è da sempre lo scenario dei miei dolori.
Caterina Falconi
«C'era una favola che leggevo da piccola e mi piaceva molto, di due sorelle, Biancarosa e Rossella, che vivevano in una casetta in un bosco assieme alla madre taciturna e accuditiva. C'entrava anche un orso, che poi era un principe trasformato... Mi sono sempre chiesta chi fosse quella madre, perché fosse rimasta da sola, se amasse qualcuno in segreto. I nomi delle bambine vogliono essere un omaggio a quella storia. La madre sono io. È superfluo ma anche doveroso ribadire che Luca, il padre del racconto, è un personaggio di pura invenzione e non ha niente a che fare con le persone che sono entrate o uscite dalla mia vita».
Caterina Falconi per Fernandel ha pubblicato molti racconti e il romanzo Sulla breccia.
Mi siedo sulla riva, e guardo le bambine che fanno il bagno. Il sole scivola nella parte bassa del suo arco e mi morde la schiena. È piacevole il contatto della sabbia umida e ruvida contro le natiche, le piante dei piedi. Mi abbraccio le ginocchia. Le bambine si spruzzano l'acqua, strillano, ridono chiassose in quell'azzurro lucente. Riemergono e sono di smalto. Provano qualche passo del balletto facendo ruotare le braccia tese sopra la testa. Tra due giorni hanno il saggio di danza. La scuola è chiusa da sette. L'estate è esplosa. Il cielo è una voragine di luce, la crepa in un crogiolo di oro fuso.
Le coppe bagnate del reggiseno sulle mie mammelle fredde. I capezzoli eretti. Ho voglia di scopare. Ma il mio amante è in alto mare su una piattaforma, dall'altra parte dell'Italia. Dovrei scavalcare la penisola, raggiungerlo a nuoto. Cosa si fa, esattamente, su una piattaforma? Nella mia testa un'esplosione di malumore. Schizzo in piedi. Un'onda mi ingoia le caviglie e scivola via frizzando contro i miei malleoli. Devo dimenticare questo mio corpo! Cazzo!
«Bambine, basta! Uscite dall'acqua che prendete freddo!» Urlo. Loro rallentano impercettibilmente il gioco e fingono di non sentire. Sanno che se tutto va bene ci ripenso e le faccio restare ancora un po' in ammollo. Di solito mi comporto così.
Ripiombo a sedere sulla sabbia.
Più tardi risaliamo allo stabilimento arrancando su una passerella porosa e scheggiata. La sabbia è rovente. Nell'aria un fumo da western, da pistoleri tra i cactus. Il borsone pesante di asciugamani bagnati mi sega una spalla.
Le bambine dietro di me si fermano in continuazione e litigano.
«Dai cazzo, bambine! Mi sembra di trascinare due muli!»
«È lei che rompe i coglioni!» Ribatte la grande in un acuto puberale. Mi giro. La piccola sfodera un sorrisetto imbarazzato da gatto Silvestro.
Come sempre l'impatto con la loro bellezza è un piccolo shock. Sono molto cresciute in quattro anni. La piccola ha l'età che aveva Rosa quando il padre se n'è andato di casa.
Sorrido anch'io. «Forza, camminare». Faccio con dolcezza, e sistemo meglio la cinghia del borsone sulla spalla. Mi rigiro, riprendo ad arrancare.
«Ha detto forza». Dice Bianca alla sorella. Fanno sempre così: mi commentano, il puffo e la silfide.

Più tardi a casa faccio i piatti controvoglia. La lavastoviglie si è rotta un mese fa e non ho i soldi per comprarne un'altra. Vedo le mie mani sfarfallare sui ripiani unti del lavello. Levo il grosso dello sporco, mi dico. Tanto per ritrovare due scodelle pulite all'ora di cena. Il caldo è una matassa fitta che si pressa nella nostra mansarda. Le bambine confabulano nell'altra stanza. Ingurgito un caffè freddo. Digito un mex al mio amante, che non risponde. Ingolfo il mio silenzio di pensieri. Il tempo ristagna. Sfilo la gonna e il top. Rimango in reggiseno e slip. Bianca passa davanti alla porta e mi lancia uno sguardo investigativo. Dopo due secondi torna indietro con uno scalpiccio di zatteroni, i miei, trafugati per travestirsi da donna. Bisbiglia qualcosa alla sorella che...
«Vai a riposare, ma'?»
...mi chiede con finta noncuranza dall'altra camera. Il tono è allusivo.
«Perché? Mi devo levare dalle scatole?» Rispondo sorridendo. Gli occhi socchiusi nello sforzo di riacciuffare un pensiero per la coda.
«Ehm sì...»
Mi volto ed è dietro di me. Rosa. La grande. Tredici anni. Le calotte compatte dei piccoli seni che sporgono da una canotta glam. Le gambe chilometriche che sgusciano dagli shorts, un po' divaricate sui lunghi piedi da cicogna. Uno strano ritegno sulla faccia da barbie, un misto tra ironia e soggezione. Ho uno sbocco d'affetto per lei.
«Rosa. Ti muovi velocissima. Due secondi fa non stavi in camera tua?»
«Ehm già...»
«E quanto è trasgressivo questo vostro gioco che dovrei perdermi dormendo?»
«Parecchio, ma'».
«Una cosa tipo escursione in internet chattando con ignoti?»
«Un po' peggio, ma'. Una cosa tipo disegnare con i pennarelli la faccia di Harry Potter sul muro della mia stanza».
«Cristo Rosa! Se ti viene male te lo tieni. Chi se lo può permettere l'imbianchino?»
«Lo disegno prima a matita, ma'».
Rumino un po' in silenzio sull'eventualità dello scempio della parete. E decido di rischiare. Dopotutto Rosa disegna bene e abbiamo passato cose peggiori.
«Va bene». Dico.
«Ha detto di sì!» Esulta Bianca facendo capolino dalla porta, e cade dagli zatteroni.
Vado in camera mia. Il letto è sfatto. La zanzariera di tulle raccolta in una plissettatura indegna dietro la testiera in ferro battuto. Odore di piedini e di polvere. C'è una foto sulla parete, dalla mia parte. Risale a quattro anni fa. Al centro ci sono io, in jeans cinesi, magrissima, a gambe un po' larghe sugli zatteroni che adesso Bianca trascina per casa. I capelli di paglia, un'aria sfinita. Bianca mi abbraccia la coscia destra. Rosa è appesa al mio braccio sinistro. Sono crocifissa da questi due corpicini. Due zavorre di bambine spaventate all'idea che possa volarmene via quando l'obiettivo della Canon del nonno si dilaterà con un clic. Dietro di me la pavimentazione del belvedere, la balaustra che si affaccia sul mare e incornicia una striscia cobalto. Il lenzuolo del cielo turchino. È stata scattata un pomeriggio d'agosto, dopo un mese che, tutte le notti, mio marito mi urlava sulla testa il suo diritto a... sognare.

* * *


L'avevo capito a maggio, che trafficava con le puttane su internet. Dormivamo in stanze separate. Per comodità. Io con le bambine. Lui sul divano letto del salotto. A me faceva comodo non dover subire gli assalti del suo cazzolino duro. A lui poter strisciare di soppiatto fino al computer. Accenderlo. Digitare al buio credendo che dormissi. E invece sentivo il crepitio della tastiera sotto le sue dita corte. Le pause. Il rumore secco dell'invio. Il trillo leggero della risposta. E di nuovo il crepitio dei tasti. Il disprezzo mi screpolava il cuore. Il nostro amore era finito da subito. Stavamo insieme così... per pregiudizio. Per paura che le bambine potessero soffrire. Tutta la mia vita era un luogo comune. Fatica. Ristrettezze. E un marito ordinario che si muoveva per casa stropicciato e indigesto. Crollava sul divano davanti alla tv. Riempiva del suo odore amaro il salotto. Mediamente affettuoso. Taciturno. Perennemente arrapato. Il sesso con lui era un'abbuffata a stomaco vuoto. Una volta ogni tanto, per scaricare l'eccitazione accumulata. La fame di niente di preciso, in quel buio disperante. Una stantuffata asciutta. Lo strofinio della masturbazione. Finito. E quel fastidio poi, di sdraiarmi accanto alla sua schiena di gomma. Per le bambine doveva essere diverso. Luca giocava molto con loro. Sedeva sul pavimento per ore, a spostare cavallini di plastica dura. Chissà che vuoto devono aver sentito quando lui se n'è andato.

Una notte di fine luglio di quell'anno terribile, esasperata dall'insonnia, entrai di soppiatto nello studio. Mio marito era al computer, di spalle, in fondo alla stanza, circonfuso della luce rossastra delle immagini porno che scorrevano sullo schermo.
«Che è 'sta roba Luca?» Gli chiesi dalla porta. Lui armeggiò con i tasti e il computer si spense con un rumore di frittura.
«Niente. Pubblicità». Rispose dal buio. Una voce senza corpo. Da distanze siderali.

Da quella notte, tutte le sere, Luca aspettava che le bambine andassero a dormire per ricoprirmi di insulti. Si sentiva stanato e ridicolo. Si sentiva offeso. Era un uomo insoddisfatto con un gran complesso di inferiorità. Commerciante contro redattrice occasionale. Non reggeva il confronto. Batteva i pugni sul tavolo. Regredì ad una spontaneità elementare, radicata nel maschilismo. Io ero una donna tiepida, e avrei fatto meglio ad allargare le gambe più spesso se volevo tenermi il marito. Lui era un uomo, e l'uccello tirava. Aveva tutto il diritto di cercarsi qualche distrazione, se non poteva neanche dormire con me.
Dal suo punto di vista aveva perfettamente ragione. Ma le mie aspettative erano diverse dalle sue. Non mi interessava il sesso che pretendeva di erogare. Non mi interessava più lui, da anni.
Di giorno lo evitavo. I miei genitori litigavano come ossessi quando ero piccola, e non avrei sopportato di rivedere il mio dolore di allora negli occhi di Rosa e Bianca. Misi la sordina. La imposi a mio marito. Nel mio mutismo ero esplicita:non si parla dei nostri problemi mentre le bambine gironzolano per casa.
Accudivo alle cose meccanicamente. Cucinavo. Rigovernavo. Lavavo i panni... Senza trascurare niente, perché nella trama delle nostre giornate non si aprissero squarci pericolosi. Sentivo lo sguardo rutilante di Luca su di me. Era piombato con tutte le scarpe nella paranoia. Credeva che non lo volessi più perché avevo un altro. Frugava nelle mie cose. Mi spiava. Il tempo cagliava i grumi indigeribili. Ma non potevo mollare.
Chissà cosa captarono le bambine in quel periodo... Cosa lessero dietro i sorrisi che dimenticavo di scollarmi dalla faccia. Negli occhi bui del padre che urlava per ogni stronzata, e le mandava puntualmente a giocare nell'altra stanza. Bianca era molto agitata. Non voleva andare all'asilo. L'altra continuava a fare le cose con un distacco angelico. Sarebbe stata dalla mia parte, qualunque cosa fosse successa, ma io mi guardai bene dal tirarla dentro quella merda.
L'imperativo era salvare le bambine.
E il loro salvataggio implicava il mio. Non avevo forza sufficiente per assecondare la rabbia del padre, il suo dolore, e impedirgli di andare a picco. Iniziai ad assumere la paroxetina, e abbassai il reostato della sofferenza. Adesso le mie energie erano tutte volte a cogliere i segnali di malessere delle mie figlie.
Da un giorno all'altro il padre se ne andò, e io mi espansi e colmai tutte le lacune che il suo abbandono scoperchiava. Divenni autista, donna delle pulizie, insegnante, infermiera... Vorticai tra mille incombenze, senza fare un errore.
Ma prima... Oh prima, dovetti dare l'annuncio della separazione.
Era un pomeriggio di settembre e la luce filtrava dolce dalle tende da sole. Io feci dei respiri profondi e spinsi un pugno nel petto. Poi chiamai: «Bambine, venite a sedervi che devo parlarvi». «Che devi dirci, ma'?» Chiese Rosa con sospetto entrando per prima nel salotto.
«Sedetevi».
E la sospinsi sul divano. Bianca ci trotterellò dietro. Io la presi in braccio e la sistemai accanto alla sorella, le raddrizzai le gambette, ma i piedini tornarono ad aprirsi.
Indietreggiai di un passo e le guardai. Era una scena che si sarebbe stampata dentro di noi, chissà con quali colori. Due bambine di nove e quattro anni, su un divanetto celeste a due posti. Come naufraghe su una zattera. Il pavimento azzurro disseminato di giocattoli. La polvere che vellutava i mobili. Un senso di scompiglio, di cose spostate, che faceva a pugni con la luce che inondava quieta la stanza.
«Devo dirvi una cosa». Ripetei. C'erano solo la mia voce e il tormento di scegliere le parole più adatte... e quattro occhi dilatati da un'apprensione terribile.
«Che è 'sta cosa, ma'?»
«Io e papà ci separiamo... per un po'». E poi convulsamente, per ammortizzare il colpo: «Ma questo non cambia nulla per voi. Papà continuerà a essere il vostro caro, bravissimo papà, e lo potrete vedere tutte le volte che vorrete. Soltanto che io e papà... un po' ve ne sarete accorte ultimamente, non andiamo d'accordo sulle cose. E discutiamo sempre. Siamo stanchi di discutere così, non ci fa bene, e perciò ci prendiamo una pausa...»
«Su che cosa non andate d'accordo?» Mi domandò Rosa. Questa non me l'aspettavo. Chissà cosa aveva sentito la notte, quando si svegliava ai nostri borbottii, si aggrappava alla testiera e attaccava l'orecchio alla parete.
«Non andiamo d'accordo in generale...»
Rosa incassò la spiegazione abbassando le palpebre spesse. Il piccolo volto chiuso in un'espressione imperscrutabile. Gli occhi obliqui sigillati, la bocca rosa che sporgeva in un bocciolo socchiuso. Qualcosa che assomigliava alla tristezza che disturbava la sua concentrazione. Stava decidendo di fidarsi di me, come sempre. Il mio amore biondo.
«Nooo. Perché? Perché vi separate?» Garrì Bianca all'improvviso. Era in preda a un convulso rifiuto. Un gomitolo di terrore e di incredulità. Assorbii il suo parossismo. Non sapevo più che cosa dire.
Ma Rosa intervenne in mio aiuto. Decisa. «Piantala Bianca. Te l'ha detto. Non cambia niente per noi».
A Bianca fece l'effetto di una doccia gelata: si calmò istantaneamente. Io mi voltai verso Rosa rallentata dall'ansia e dallo stupore. Aveva ancora gli occhi bassi, le mani tra le cosce, le labbra che sporgevano socchiuse.
Dove la teneva tutta quella forza?
Bianca mi fissava con uno sguardo opaco.
E il silenzio ci ruggiva addosso.

* * *


Socchiudo gli scuri e la porta. Mi infilo nel letto. Il lenzuolo aderisce alla mia pelle sudata. Per interrompere questo insopportabile flusso di ricordi devo pensare al sesso. Faccio delle fantasie, e incomincio a toccarmi. L'ultima volta che ho fatto l'amore con Pino lui mi ha spinto la testa all'indietro e mi è venuto in bocca. Dopo mi ha accudita come una bambina malmenata. Si è steso vicino a me e ha ascoltato le mie rassicurazioni, su quanto lo amo, anche se vive lontano da me e non so mai quando potrò rivederlo.
Sentivo che covava delle angosce. Che riposava il cuore accanto al mio corpo ammaccato, prima di ripartire per la Calabria.
Quando l'ho conosciuto, due anni fa, era estate, come adesso. Delle amiche mi avevano invitata a bere qualcosa al circolo nautico. Era sera. Si sentiva l'odore del mare. Il cielo sembrava il tendone turchese di un circo, con le stelle stampate. Pino sedeva al nostro tavolo. Amico di amici. Un ingegnere minerario di cinquant'anni. Brizzolato. Taciturno. Di una mestizia intrigante. Abbiamo scopato tre giorni dopo, e da allora ci siamo visti quando abbiamo potuto, nella casa delle vacanze della sua infanzia, nella parte vecchia del paese. Ancora non so molto di lui. Ci sono delle faglie nella sua vita di cui non parla mai. Certe volte mi chiedo se abbia un'altra donna dall'altra parte dell'Italia. Se i sogni di questa donna e i miei si intreccino sfiorando la luna, quando ci addormentiamo pensando a lui. Ma probabilmente non ci sono altre. Soltanto questa sua imprendibilità, questo bisogno di silenzio e solitudine che lui spaccia per indecisione e ambivalenza, e asseconda facendo le valigie e saltabeccando da una sponda all'altra dell'Italia.
Vengo con uno spasmo convulso e smetto di toccarmi. Due lacrime scendono sulle mie guance.
Non sapevo che un ingegnere minerario potesse occuparsi di trivellare il fondo del mare.
E piombo in un sonno di seta.
La seta scivola e sciaborda. Mi sciolgo su di essa in rivoli di sudore.

Sono stata solo una volta nella casa di Pino in Calabria, per poche ore. Una specie di trullo scabro sulla spiaggia, profondo e fresco, forse una foresteria della società petrolifera. I pavimenti di pietra, la scala a chiocciola interna che sembrava l'anima di una conchiglia. I muri porosi bianchi. I mobili chiari gonfi di umidità.
Avevamo dormito a casa mia la notte prima (le bambine erano dalla nonna), e fatto l'amore con una dolcezza inedita. Un sesso voluttuoso e lento, che ci aveva lasciati intontiti sulle lenzuola sudate, e nel blu del plenilunio filtrato dalle tende di ostia della finestra aperta. Le tende si gonfiavano e dibattevano come vele panciute, vibravano come ali di farfalle bianche.
E la mattina mi aveva svegliata una secchiata di luce.
Pino era davanti al letto, vestito da ingegnere, con una ventiquattrore in mano, e un sorriso ammiccante che complicava la sua aria indecifrabile.
«Mi hanno telefonato dalla piattaforma. C'è un problema con la trivellazione. Come spiegarti... Hanno incontrato delle rocce e temono che si spacchi tutto. Devo andare là. Una questione di ore. Vestiti che ti porto con me».
E siamo partiti assieme.
Per tutto il viaggio, in auto fino all'aeroporto, e poi seduta accanto a Pino in aereo, con gli occhi risucchiati dai nastri di campi interrotti dalle case che sembravano zollette, da covoni strade sghembe e pinete, e poi dal patchwork di campagne e cemento e montagne visto dall'alto, ho macinato in silenzio considerazioni sulla richiesta che lo accompagnassi nel suo viaggio.
Gli uomini fanno sempre così a un certo punto, quando decidono che sei importante per loro. Fino a quel momento ti scopano e sorridono strano. E poi, una mattina, saltano su a dire vieni con me da certi parenti. Vieni, accompagnami al lavoro. Ti immettono a un livello avanzato di intimità, quello che lambisce il cuore del bersaglio: la convivenza.
Chissà quanto ci pensano prima di fare questo passo. Chissà che si dicono in quelle zucche a compartimenti. E quando lo fanno, con noncuranza, come se ti stessero chiedendo di stirargli una camicia, forse si aspettano di essere inondati dalla tua gratitudine.
Siamo scesi dall'aereo per una scaletta cigolante accostata al portello da due inservienti in tuta. La pista ribolliva di vapori. E abbiamo camminato verso l'uscita con la sensazione di fendere un muro di calore.
Il respiro mi bruciava la gola.
Ero accecata dalla luce.
Ma più di tutto ero oppressa dall'angoscia di non sapere che cosa avrei potuto rispondere a Pino se mi avesse proposto di andare a vivere con lui. Cosa avrei potuto dirgli? Che le bambine non erano pronte e avrebbero sofferto di nuovo?
Più tardi, dallo studio nel trullo, seduta ad un tavolo da disegno davanti alla finestra spalancata, tra canestri ricolmi di grandi fogli arrotolati, ho osservato Pino che parlava con il tecnico sulla spiaggia.
Sembrava l'inquadratura di un film. Sullo sfondo la fusciacca del mare blu, e la piattaforma scheletrica un po' spostata sulla sinistra. Il cielo turchino e la spiaggia granulosa.
Pino era di tre quarti, un po' ingobbito dalla concentrazione. Le spalle larghe sollevate in un atteggiamento di difesa. Gesticolava e parlava con il tecnico indicando qualcosa sui fogli che appoggiava di taglio contro il petto.
E guardandolo mi sono accorta di aver assimilato ogni particolare della sua cara persona. La strana protuberanza del cranio, il collo sottile, la schiena che non finiva più, saldata al culo lungo e piatto, le gambe da ragazzo.
Ogni parte del suo corpo si era innestata in me in una specie di memoria tattile e olfattiva.
Non avrei potuto vivere senza quell'uomo.
Perché era l'amore.
Ma a questo punto, in uno spasmo di ulteriore lancinante consapevolezza, ho capito che la pratica di questo amore doveva essere circoscritta, precipitare, fluire, essere interrotta e ripresa nei confini frastagliati della mia vita accanto alle bambine. Così come le bambine avevano dovuto circoscrivere e limitare la convivenza con il padre.
Queste erano le condizioni della loro ricostruzione, e della loro incolumità.

* * *


«Dormi, ma'?»
«Sì, dormo Rosa».
«E parli? Non cazzeggiare ma'».
«Ti voglio bene».
«Oddio non ti mettere a gureggiare adesso. I borsoni sono pronti. Non ci far fare tardi alle prove generali».

* * *


Mezz'ora dopo alla scuola di danza. Un termitaio di madri e ragazzette fatte d'adrenalina per il saggio di dopodomani. Cataste di borsoni negli spogliatoi. Picchi di isteria tra le teenager. Le piccole assorbono l'agitazione e la scaricano improvvisando nell'ingresso dei giochi convulsi immediatamente repressi dagli adulti. Il maestro si aggira a scatti per la pista. Segaligno. Gli occhi vetrificati dalla tensione. Un pinocchio capellone e trendy in pantaloni da danza e scarponcini di pelle morbida. Fa entrare una classe alla volta per provare i balletti.
«Primo turnooo! In pista!» E un nugolo di bambine in tutù rosa tra i quattro e i sei anni, pugnetti contro i fianchi e gomiti all'indietro, inonda il parquet e si dispone magicamente in ordine. La musica erutta dallo stereo e gambette muscolose tese sulle mezze punte impastano il tempo addomesticate in una serie di passi che è ormai un automatismo. Hanno provato per mesi. Le madri dietro il vetro trattengono il respiro, battono il tempo con la punta dei sandali. Esecuzione passabile. La musica cessa. Lo scompiglio esplode. Il maestro butta fuori tutte e invoca: «Quarto turnoooo...»
Entrano le teenager, al ritmo irresistibile di Sean Paul. Figurine elastiche da cartoon della Marvel. Si raggruppano e allontanano. Formano ellissi, cerchi e stelle. Si dispongono in fila e diventano un'unica ragazza con sedici braccia. Riemergono. Si espandono perfettamente allineate, come un festone di bambole di carta teso da mani invisibili. Rosa è fantastica, così concentrata. Quasi argentea nel top turchese e nei fouseaux neri che scoprono i fianchi spigolosi. La pancia lattea.
La sua inaccessibilità mi ferisce.
Il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei jeans. Lo sfilo, lo apro e avvampo. È lui che chiama! Mi precipito fuori dalla scuola di danza. Mentre attraverso gli sguardi malevoli o comprensivi delle altre madri la manina aperta di Bianca mi sfiora una coscia.
«Mamma, dopo tocca a me».
«Lo so lo so». Dico veloce. «Adesso torno. Rispondo al telefono. Torno subito. Tu vai. Vai».
Finalmente sulla breccia del cortile.
«Pronto, Pino...» Dico ansimando. La porta a vetri della scuola pulsa alle mie spalle. Musica attutita. Gli urli da domatore del maestro.
«Torno stasera amorellino mio. Potrai liberarti una mezz'oretta, verso le dieci?»
Sento che mi si apre il diaframma. Mi lascio inondare.
«Sì».
«Facciamo l'amore».
«Sì». E mi curvo un po', per trattenere questa dolcissima sensazione di calore.
«A presto allora».
«Sì».
Rientro nella scuola. Le mie percezioni sono rallentate. Sono in sovraccarico di benessere. Mi guardo attorno. Le mie colleghe mamme sedute nell'ingresso o accalcate dietro il vetro che delimita la pista formano un bestiario variegato. Ciccione. Strafighe. Massaie. Rumene. Professioniste e segretarie. Divorziate e maritate. Di molte so la storia. Di qualcuna sono amica. Di altre sopporto il sorriso di commiserazione. Qualcuna mi ha vista con Pino. Certe sono proprio insostenibili, con i loro discorsi di passati di verdure e di mariti in sovrappeso. Eppure persino con loro sento di avere qualcosa in comune: la capacità di fare branco quando ci sono cuccioli da accudire.
Mi avvicino al vetro. Bianca balla al centro della pista. Col sorriso da gatto Silvestro e una stellina di luce su un incisivo.
Non avevo mai fatto caso a quanto fosse brava. Prende la rincorsa. E fa un salto perfetto.
Io smetto di respirare. All'improvviso capisco che nonostante tutto, nel bene e nel male, nonostante il mio sforzo disperato di essere una brava mamma, la mia distrazione, i miei sbagli, loro crescono.
Crescono da sole e potrebbero farcela anche senza di me.
Che sollievo, mi dico. E mi viene da piangere.

© 2008 Caterina Falconi