Eva Clesis, Salsa borotalca



A
cinque anni non è facile accettare l'idea che tua madre rimanga dieci giorni in ospedale a causa di un'anguria.
Avrebbe potuto benissimo mangiarla come facevano tutti, stampando quattro morsi a mezzaluna su di una bella fetta.
Invece no.
Invece s'era beccata un'indigestione ingoiando il frutto per intero, con la scorza e tutto, senza neanche masticarlo. Mi pareva incredibile come ci fosse riuscita. Doveva essere dotata di una bocca enorme, da supereroe, e di una gola elastica come il corpo di un boa. Era una cosa mostruosa.
Per questo le era venuto il pancione sporgente.
Eva Clesis
Eva Clesis è lo pseudonimo di una ragazza distratta e mancina nata a Bari nel 1980. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo romanzo, A cena con Lolita (Pendragon). Nel 2007 ha partecipato alle antologie Posa 'sto libro e baciami (Zandegù) e Eroticamente (Valter Casini). Nel 2008 è uscito il suo secondo romanzo, Guardrail (Las Vegas), a cui sono seguiti Parole sante (Perdisa Pop, 2013) e Finché notte non ci separi (Lite-Edition, 2014).
Papà cercò di fregarmi dicendo che mamma andava a farsi un viaggetto. E che lui l'accompagnava alla stazione mentre io sarei stata per qualche giorno dalla zia. È una bugia, gli risposi subito. La mamma va in ospedale, dove i dottori le apriranno la pancia con un coltello. Poi le tireranno fuori l'anguria che s'è mangiata, e la ricuciranno se promette di non farlo più... Certo che non lo farà più, due sono già abbastanza, concluse lui, mentre prendeva i miei bagagli e li sistemava in macchina.
Due angurie? Gli chiesi io.
No, mi rispose lui. Due figli.

Per compensarla dell'anguria perduta, quelli dell'ospedale diedero in cambio a mia madre un bambino vivo, forse un orfano.
Io la rividi solo quando tornai a casa, dopo quindici giorni passati a guardare Candy Candy di nascosto a mio cugino e Uragano Polimar quando invece c'era lui. Mamma sembrava debole ma era più magra e meno boa e con un neonato tra le braccia. Mi accolse con un bacio commosso, mostrandomi l'intruso che le succhiava le tette.
Guardai il marmocchio con sospetto.
Facendo una smorfia offesa, le chiesi subito se lo potessimo buttare via.
Ma no, Cristo, rispose lei con veemenza, stringendoselo ancora di più al seno. Questo qui è il tuo fratellino... quando eri dalla zia è volata la cicogna, mmh... hai capito adesso?
Non sapevo bene cosa fosse una cicogna, ma le dissi che non ne aveva bisogno.
A lei bastavo io. In fondo era mia madre.
E poiché mi apparteneva avrei dovuto decidere io per lei.
Sì, tesoro, ma, vedi, mi disse, lui è un maschietto...
Una risposta così idiota mi lasciò turbata e senza parole. Qualcosa mi diceva che non potevo assolvere alle funzioni di un maschio orfano barattato con un'anguria e trasportato per vie ignote. Nei giorni successivi valutai tuttavia un'altra e più efficace obiezione.
Feci ai miei genitori una proposta alternativa al pupo.
Misi nel loro letto Ken, il fidanzato di Barbie, e indicando il bebè dormiente nella sua candida culla di pizzi e trine esclamai sbrigativa: adesso che vi ho dato un maschietto, possiamo per favooore buttare quello là?
Ma con mia somma sorpresa, ricevetti un nuovo diniego. Mia madre mi fece un regalo per sollevarmi il morale. L'ennesimo Mio Mini Pony.
Quello verde acqua col culo a stelle e la coda rosa e profumata da pettinare.
Cavolo, io invece avrei tanto voluto un Dolceforno. Mamma ogni volta diceva che il fornetto per bambini era pericoloso e continuava imperterrita a regalarmi quegli odiosi cavallini di gomma. Ormai ne avevo così tanti da poterci fare la piramide delle cheerleaders. E questo grave fatto, unito alla presenza dell'orfano che gattonava ovunque, contribuì a far scoppiare in famiglia una tacita ma palpabile aria di guerra. I mesi passavano, il pupo cresceva. Io continuavo a lamentarmi con mamma e papà che il nuovo bambino puzzava, piangeva e occupava un sacco di spazio. Ma la battaglia la vinse lui, e così, invece di far finta di averlo perso per strada, traslocammo tutti quanti. Era il 1985.

La nostra nuova casa, sempre in affitto (all'epoca convenivano), aveva due stanze da letto, un armadio tarlato gentilmente concessoci dalla proprietaria, un bagno grande e uno piccolo, una cucina con le piastrelle gialle e un balcone, uno stanzino di cui ricordo poco fuorché le dimensioni ridotte e la puzza di muffa (peculiarità di tutti gli stanzini di questo mondo) e infine un soggiorno-sala da pranzo che in pratica non serviva a nulla salvo quando venivano gli ospiti (peculiarità di tutti i soggiorni-sale da pranzo di questo mondo).
Era una casa così grande da farmi quasi dimenticare la forzata coabitazione con l'odioso lattante, cui nel frattempo era stato dato pure un nome per mezzo di uno shampoo combinato in chiesa, al cospetto dei parenti.
Era una casa così grande che con un po' di sforzo e qualche distrazione (i pomeriggi passati in cortile a giocare a campana con le amichette. I salti con l'elastico tenuto teso da quattro gambe di bambina. Cocacolapepsicola e aranciatalimonata) potevo persino arrivare a convincermi d'essere ancora l'unica figlia per i miei genitori. E ci passai liscio un anno intero senza registrare la crescita del piccolo mostro, muta quando bisognava cantargli la ninna nanna perché dormisse, sorda ai suoi picci per la dentizione, immune all'odore di pappe e pannolini. Trascorrevo in cortile la maggior parte del tempo, ma non chiedetemi perché mi comportassi in una maniera così stronza. In fondo ero una bambina. E sarà che nei bambini i bisogni primari sono più forti della costruzione di un sentimento, fosse anche di un sentimento di sangue. O che certi bambini nascono più egoisti e affamati di attenzioni di altri. O che la logica in amore non esiste e nei cuori ancora semplici è un fatto evidente. Io ero ancora un cuore semplice che preferiva pisciare accucciata sul marciapiede piuttosto che salire in casa e trovare la propria madre che abbracciava o nutriva un altro bambino. Ed ero troppo piccola per accettare un parto naturale ma già troppo grande per ricordare il mio. E di avere avuto, a mio tempo, le sue stesse attenzioni.

A ogni modo, le cose tra me e quel bambino cambiarono nell'estate del 1986, quando la banda di ragazzine che frequentavo allora mi convinse a partecipare a una gara per inventarci nuovi cibi in protesta alla penuria di latte e derivati causata da "ciernobill". Passi per le verdure o il pesce, che nessun bambino mangia, ma non sapete cosa significa svegliarsi la mattina senza poter ammorbidire i Rice Crispies in una tazza di latte e Nesquik perché a casa tua manca il latte, e tua madre in alternativa vuole convincerti a usare l'acqua minerale o al massimo a fare colazione con il tè. Alternativa scioccante. La mia amica Rita, promotrice dell'iniziativa e spirito quanto mai indomito, prima di avere quella fantastica idea di produrci il cibo da sole (un po' l'evoluzione dell'uomo selvatico che impara a coltivare la terra dopo fallaci generazioni di cacciatori e raccoglitori) aveva provato a mangiare tè col Nesquik per una settimana, ma dalla disperazione aveva ripiegato sulla zuppa di biscotti col succo di frutta.
Avremmo creato un nuovo tipo di latte per il latte al cioccolato utilizzando tutto ciò che di alternativo al latte vero si poteva trovare in casa.
Chi portava l'acqua era squalificata. E anche chi portava il tè.
Meglio era se trovavamo qualcosa di bianco e liquido da mischiare a qualcos'altro di bianco o altrimenti di liquido. Pomeriggi interi dietro al parcheggio a unire tra loro i nostri ingredienti segreti: farina, saliva, zucchero, Nivea, cipria, borotalco, profumo, vino bianco, lievito, sale, ghiaccioli al limone, uova, candeggina, formaggetta Maman Louise, ammorbidente, burro, docciaschiuma, Nutella bianca che non ha mai avuto un nome degno di essere ricordato, fiocchi di puré, formaggino, Colgate, il Ciocorì della cagnetta bianca e bottiglie di balsamo al cocco in quantità industriale. Daniela, adorabile bimba di sette anni dai capelli lunghi e biondi e un piccolo neo sul labbro superiore, fu squalificata la seconda volta che si presentò quando scoprimmo che quella cosa bianca dolce e cremosa che aveva portato per unirla alle altre era latte in barattolo, latte spalmabile altrimenti detto "condensato". Lei obiettò che non si chiamava latte e tantomeno "col densato", perché in grande c'era scritto Nestlé. Eppoi un'altra bambina aveva portato il burro, e la madre di Daniela le aveva detto che era "radiato" anche quello. Ci fu una riunione straordinaria durante la quale il verdetto, pressoché unanime (l'unico voto contrario fu quello di Daniela, che così dimostrava di non essere una bambina scema) fu: sì al burro e no al latte in barattolo. Al nostro decimo incontro avevamo riunito talmente tanta roba da doverla versare in più contenitori, tra pentole e ciotole in adunanza trafugate nelle dispense materne. Con lo scolapasta ci andò male e un po' di "nuovo alimento" si disperse sui marciapiedi e colò giù fino in strada. Un cane randagio corse ad annusarlo vivacemente, senza azzardarsi a leccarlo, ma nessuna di noi ci fece troppo caso. Nessuna di noi aveva infatti un cane.
Il risultato delle nostre fatiche fu versato nel contenitore più capiente che avessimo. Uno zaino rivestito di buste di plastica.
Ora che il nuovo latte era pronto, urgeva l'ennesima assemblea straordinaria per trovargli un nome adeguato. Dalle nostre menti acute uscirono parecchi tentativi onomastici, alcuni creativi, tipo nullatte o lasciampo, altri un po' meno per lunghezza e banalità, tipo "è qualcosa che somiglia al vero latte ma non lo è perché fa le bollicine", oppure "un latte inventato dalle bambine di dove abitiamo noi".
Alla fine se ne trovò uno che piacque a tutte. Il collatte. L'idea venne a Barbara, che chiudendo lo zainetto con il liquido s'accorse troppo tardi d'averci perso un fermaglio dentro, che s'era incollato sul fondo e a pescare con le mani nessuno l'aveva più trovato. Peccato, però. Era il suo preferito. Dopo l'invenzione, bisognava brevettare il prodotto, testarlo su un gruppo campione che avrebbe fatto da cavia umana per dirci com'era venuto di sapore. Be', a questo punto vi sarete chiesti dove tenevamo il collatte di notte, quando eravamo costrette a tornarcene a casa.
È presto detto. Lo mettevamo sotto una macchina abbandonata, vicino alla tana della gatta del quartiere, che una volta aveva partorito laggiù. E, fatto straordinario, neanche lei per quanto annusasse s'azzardò mai a leccare il collatte per tutto quel tempo, badando solo a sorvegliarlo. Anche lì, nessuna di noi ci fece troppo caso. Nessuna di noi aveva un gatto in casa tranne Daniela, che però era stata squalificata e non era quindi autorizzata a dirci la sua.
Perciò promuovemmo un'altra riunione straordinaria, l'ultima, ma il nome delle cavie non saltò fuori. Nessuna di noi voleva berlo, soprattutto per via della puzza. Pensammo di fare "attocco", ma all'un due e tre c'era chi tratteneva la mano limitandosi a dire "per me per me per me io ne butto..."
Eh?
Eh che?
Hai detto treee?
Chi, io? No!
Allora, forza... butta!
Butta tu se non ci credi.
A chi?
Oh, ma la volete finire...
Non ho visto la sua mano...
Ma se ho detto: tre...
Allora hai detto tre!
No, ha detto TE!
Dici a me?
Sì, ma senza mano non vale...

Iniziammo a litigare. E alla fine decidemmo che ognuna di noi avrebbe preso la sua parte di collatte dallo zaino e se lo sarebbe bevuto la mattina dopo col Nesquik. Il pomeriggio successivo, ogni bambina scese a giocare con una bottiglia di plastica o un bicchiere appresso, e Rita, la capobanda, si prese l'onere di fare le porzioni. Calò i contenitori nello zaino come i secchi in un pozzo. Per ognuna venne fuori un collatte bastante per almeno due colazioni, e c'è chi tra di noi esclamò persino, menomale! Non ne potevo più di bere tè! Ma chiunque fosse stata a dirlo, aveva un tono poco convinto. Appuntamento il giorno dopo, per dirci se ci era o no piaciuto.

Tutte se ne andarono a casa a mettere il collatte in frigo. Anch'io salii in casa con la mia porzione, e per la prima volta passai il resto del pomeriggio nella cameretta, la porta chiusa, a fissare di nascosto il mio bicchiere pieno di nuovo alimento. Feci sette o otto tentativi di portarmelo alle labbra, ma in tutti quei giorni chiuso nello zaino il mitico collatte aveva assunto un odore schifoso e indefinito, di marcio, e a ben pensarci neanche il colore era incoraggiante. Quello strano verdino fosforescente come lo Slimer... Bah! Lo fissai per bene sotto la luce della lampada, ne diedi da bere dapprima un po' a Barbie e al Cicciobello. E dopo un'ora entrambi stavano benissimo, anzi! Barbie ne voleva dell'altro, ma era troppo educata per dirmelo. Così le staccai la testa dal corpo e aiutandomi col dito le feci scolare un po' di collatte dentro. Quando gliela riattaccai, perdeva un po' dalla giuntura di plastica, ma la bambola sembrava entusiasta. Cercai di mettermi il dito sporco in bocca per una piccola degustazione, ma mi faceva troppo schifo. Anzi peggio. Corsi a lavarmi.
Mi convinsi che cotto doveva avere un buon sapore.
Cotto sarebbe diventato bianco com'era prima, e in fondo ci sono molte cose che da crude fanno schifo. Le patate, ad esempio.
Le patate da crude fanno schifo, ma da cotte sono fritte e hanno una sorpresa dentro.
Andai quindi in cucina a scaldare il collatte e... toh, chi vi trovo?
Il famoso bambino. Quello della cicogna. Quello in comodato d'uso al posto dell'anguria. Intanto il pupo aveva fatto un anno, ma io avevo continuato felicemente a ignorarlo. Poi "ciernobill" e l'esigenza di creare un altro latte m'avevano distolto da quel problema in pannolino.
Mia madre l'aveva messo nel seggiolone e s'era allontanata a stendere i panni sul balcone. Il pupo guardava annichilito la Carica dei 101 in videocassetta, constatando per la prima volta in vita sua l'incredibile forza ammaliatrice del mezzo televisivo.
Misi la bottiglia di plastica sul fornello spento, aspettando impaziente che si scaldasse. Ma dopo un paio di minuti il collatte era ancora verde, fetido e freddo. Non capivo. Uhm. D'accordo. Era probabile che mia madre facesse qualcosa per riscaldare i cibi... sì, ma cosa?
E perché la cucina non era diventata calda?
Tutto questo trambusto aveva distolto il lattante, che mi guardava interessato. Era evidente che mi stesse giudicando, che se la ridesse dei miei futili tentativi. E fu nel momento in cui il mio odio per lui, per quel piccolo e irriverente fagocitaplasmon assunse l'apice, oserei dire il clou, che ebbi l'idea. Diavolo, come avevo fatto a non pensarci prima!
Eccola lì la mia cavia ideale. Se gli andava bene l'avrei bevuto anch'io, magari turandomi il naso, se andava male andava male e basta. Un bambino in più uno in meno non faceva differenza. Così mi arrampicai sul tavolo, presi una tazza e la riempii a metà del collatte. Svuotando la bottiglia scoprii anche dov'era andato a finire il fermaglietto di Barbara.
Be', era fatta.
Gli avvicinai la tazza e provai a fargli colare un po' di nuovo alimento sulla bocca. Il malefico lattante aveva certe labbra serrate a paperino che producevano bollicine di saliva, io cercavo di forzarne l'apertura con le dita, ma erano terribilmente viscide. Bleah! Stavo per aprirmi un varco nella bocca del piccolo mostro per rovesciargli una bella sorsata di collatte, quando questi iniziò a farmi certe smorfie da commediante mettendosi a frignare con una voce davvero potente per essere solo un nano. Non era un bambino, era una sirena della polizia. Piangeva e urlava che faceva tremare i vetri, e ovviamente mia madre si materializzò in cucina allo scoccare del suo secondo acuto. Darmi un ceffone, allontanarmi dal lattante, rubarmi la tazza e versare il collatte nel lavandino furono un tutt'uno. Non so come ci riuscì. Infrangere i miei sogni di piccola inventrice e buttare nello scarico il lavoro mio e della mia squadra di specialiste di quartiere, be', anche quello fu un tutt'uno.
Ebbe anche il tempo di dire, mentre distruggeva i miei sogni di gloria: «Ohmioddio, FERMA! Ma che è 'sto schifo? Ti rendi conto che stavi dando del veleno al fratellino? Del VELEENOO AL FRATELLINO! Neanche se ne va dal lavello, avevo appena finito di lavare, non è possibile... ma si può sapere che cos'è... colla? STO PARLANDO CON TE! Ma c'ha la muffa... Ohggiesù, che porcheria...»
Fino alla minaccia personale. «Mo' che torna tuo padre dal lavoro FACCIAMO I CONTI!»
Quella sera feci i conti con mio padre, ma dato che non avevo ammazzato il marmocchio, la mia vita era salva e il pomeriggio successivo potevo essere giù in cortile per l'appuntamento. Ad aspettarmi c'erano solo Barbara e Fabiana, che come me non avevano avuto il coraggio di bere il collatte. Andammo a citofonare casa per casa per sapere dov'erano finite le altre, ma ci risposero le mamme arrabbiate dicendo che le loro figlie erano tutte in punizione. Dai racconti esagitati delle genitrici pareva che nessuna delle bambine avesse bevuto il nuovo alimento, ma che tutte avessero cercato altre cavie. E allora chi aveva bruciato i gerani, chi aveva stecchito il pappagallino della nonna, chi aveva incollato i pesci rossi alla vasca.
Da balcone a balcone girava intanto la voce che una bambina pazza avesse provato ad avvelenare il fratellino di un anno con quella roba.
«Chissà chi è stata!» Sussurrò Barbara facendo la voce da grande.
Io non fiatai. Dopo averle salutate tornai a casa con l'aria abbattuta di chi ha perso una scommessa con la scienza.

© 2008 Eva Clesis