Massimo Vasini, Tanti gatti blu

Ci saranno altri giorni, / ci saranno altre voci. / Sorriderai da sola. / I gatti lo sapranno. (Cesare Pavese)


N
on mi hanno creduta. Quelli del pronto soccorso non hanno minimamente creduto alla storia che ho raccontato. Il medico ha detto che una persona non si riduce un occhio come il mio cadendo per le scale. Mi ha chiesto se è successo altre volte. Senza neanche versare una lacrima ho spiegato che Matteo, da quando i galleristi lo ignorano, beve in modo incontrollato e a volte si dispera e se la prende con me.
«Vuole denunciare il suo compagno?», mi ha chiesto il dottore.
«No», ho risposto.
«Puoi rimanere da me quanto vuoi».
«Grazie, Delia».
«Non è la prima volta che succede, vero?»
«È successo altre volte, sì».
Massimo Vasini
«In verità non ho mai amato alla follia i gatti. Preferisco di gran lunga i cani, sono più vulnerabili, più buffi, più stupidi. Comunque questo racconto parla di una famiglia di gatti molto unita, ma soprattutto di come a volte l'amore tra due persone scivoli via e si trasformi in una cosa che stentiamo a riconoscere, in una cosa che non avremmo mai immaginato».
Massimo Vasini è nato a Rimini nel 1965. È uscito nel 2007 il suo romanzo d'esordio, Lontano dall'estate, Giraldi Editore. Tanti gatti blu fa parte di una raccolta di racconti d'amore, Come due sposi, pubblicata sempre da Giraldi nel 2011.
I colori del tramonto investivano con la loro luce greve le strade intasate dal traffico, piene di gente che ritornava a casa dal lavoro.
"Con questa confusione ci impiegheremo quasi un'ora per arrivare al mio appartamento", ha pensato Delia. Poi ha detto: «A me Matteo non è mai piaciuto».
«Lo so», ha sospirato Anna, «lo so».
«Non sono mai riuscita a comprendere questo tuo grande amore per un tipo come lui. Capisco il suo fascino d'artista, di pittore noto e di successo, ma è sempre stato un violento, con una passione smisurata per ogni eccesso. È difficile dimenticare quella cena a casa vostra, dove lui, di punto in bianco, ha mandato via tutti a calci in culo solo perché Riccardo aveva detto che i gatti sono animali traditori, inaffidabili».
«Aveva bevuto e fumato. Come tutte le persone presenti quella sera».
«Cosa fai, lo giustifichi? È chiaro che se uno dà di matto per una semplice discussione a tavola, in situazioni di difficoltà è capace di fare di tutto».
Anna ha risposto all'amica con un sorriso amaro, strapazzandosi in modo ossessivo i capelli.
«E comunque è inutile parlarne. L'importante è che tu abbia capito che Matteo è diventato pericoloso da quando passa tutto il tempo a bere», ha concluso Delia.
Anna ha continuato a torturarsi i capelli in silenzio, pensando che la fissazione di Matteo per i gatti era una cosa che in fondo le era sempre piaciuta.

«Sono apparsi dal nulla. All'improvviso una fila di gatti mi ha attraversato la strada. Il primo teneva fra i denti un gattino più piccolo, forse ferito. Sono riuscito a fermarmi in tempo e il gatto che teneva quello più piccino mi ha guardato come per ringraziarmi. Io li ho fatti passare e ho parcheggiato subito dopo.
Quando mi sono avvicinato a loro, il gattino era già morto, e il gatto più grande, che era la madre, lo stava leccando disperatamente; di scatto ha alzato il capo e ha cominciato a sbuffare verso di me in modo minaccioso. Ma la sua aggressività è cessata nel momento in cui mi sono messo ad accarezzare il piccolino privo di vita: l'ho sollevato con tutte e due le mani e, seguito dal gruppo, ho riattraversato la strada. Arrivati alla mia auto ho adagiato il corpo del gatto su una coperta stesa sui sedili posteriori; tutti gli altri gatti sono saliti, accoccolandosi attorno al morticino. Una volta chiusa la portiera sono partito e siamo andati a casa mia. Nel giardino ho seppellito il gattino morto, mentre gli altri in silenzio mi guardavano. Dopo però si sono messi a miagolare in coro e hanno smesso di farlo solo quando ho portato del latte e delle scatolette di tonno».
«Quanti erano?»
«Otto, compreso quello morto. Sette cuccioli e la madre».
«Hai adottato una famiglia di mici!»
«Per così dire. Un mese dopo sono spariti, letteralmente. Sono tornato una sera e non c'erano più, le ciotole del latte erano ancora piene».
«Stranissimo».
«Sì, come se li avessero rapiti. Una specie di mistero. Da allora raccolgo tutti i gatti randagi che incontro per strada, a casa ne ho quindici. Il veterinario del quartiere è entusiasta della mia vocazione di gattaro».
«Non stento a crederlo».
«Ti andrebbe di conoscere i gatti che vivono con me?»
«Sì. Certo».

«Delia, ti prego, ho bisogno di parlarle!»
«No, Matteo. Non insistere. Anna non può e non vuole sentirti».
«Ma io ho bisogno! Non ce la faccio senza di lei!»
«L'hai picchiata più volte! Piantala stronzo, o chiamo i carabinieri!»
«Ma io non so cosa fare...»
«Prova a disintossicarti, o impiccati. Per me è uguale».

«No, mamma. Ti ripeto che non devi preoccuparti. Sto continuando a lavorare, mangio, bevo e dormo. Solo che lo faccio a casa di Delia, tutto qui».
«Sinceramente non capisco perché non l'hai denunciato».
«Ho preferito così».
«Non vuoi che venga a trovarti?»
«No, mamma. Ci sentiamo domani, ciao».
Vogliono tutti intromettersi nella mia vita. Mi ha persino chiamato Riccardo dalla Corsica per chiedermi se avevo bisogno di lui. E pure Delia, che è la mia amica più cara, si preoccupa troppo; è assillante, esagera.
Possibile che nessuno capisca che ho bisogno di essere lasciata in pace?

«Comincio dalle mani. Dalla sinistra: il mignolo, l'anulare, il medio, l'indice e infine il pollice. Adesso tocca alla destra».
«Sei dolce».
«Ora passo al collo».
«Devo tenere gli occhi chiusi?»
«No, anzi, voglio che mi guardi».
Matteo mi sbottona lentamente il vestito, un vestito pieno zeppo di bottoni; ha la stessa espressione che avevo io quando da bambina aprivo i miei regali la mattina di Natale.
«Piove», dico.
«No. Grandina», fa lui, «senti?» Ferma per un attimo la sua operazione di baci e sbottonamento e ci mettiamo entrambi in ascolto. Fuori sta grandinando in maniera furiosa e Matteo entra dentro di me. A stento riesco a dire: «Non ricordo se abbiamo messo la macchina in garage».
Lui mi guarda con occhi pieni d'incredulità come per dire: "Ma cosa vai a pensare? Chi se ne frega della macchina!", poi mi sorride e bisbiglia: «Non ti preoccupare, la macchina è al riparo».

«Ti ho svegliata?»
«...Sì... no...»
«Ti do fastidio?»
«...No... non mi dai fastidio».
Non mi ero accorta che Delia fosse accanto a me. Stavo fumando una sigaretta... mi sarò addormentata... e ora... mi sta leccando in mezzo alle gambe! È bello, sarebbe stupido negarlo. Ma è irritante che nessuno, proprio nessuno, voglia veramente lasciarmi in pace.

«Per favore, passamela».
«No, Matteo».
«Me la devi passare!»
«Non obbligarmi a staccare il telefono. Vai a riposare che è meglio».
«Sono tornati...»
«Cosa?»
«Dille che sono tornati».
«Chi è tornato?»
«Loro. E sono diventati tutti blu».
«Loro chi?»
«I gatti!! La famiglia di gatti che ho raccolto per strada! Quei gatti che erano scomparsi nel nulla! Sono tornati».
«...»
«Pronto... pronto.. Delia... hai capito? Dille che il loro pelo è diventato blu, di un blu scuro come la notte e che stanno bene».
«Ok. Glielo dirò».

«È evidente che quando ha chiamato era in pieno delirio alcolico, hai ragione ad avere paura...»
«No. Non è vero, non conosci Matteo come lo conosco io. E poi... non puoi capire».
«Cosa c'è da capire? Ti ha messo le mani addosso un'infinità di volte, è perennemente ubriaco e non ha nessuna intenzione di smettere di bere, a quanto pare! E tu corri da lui perché hai paura che possa fare un gesto sconsiderato? Sei matta! Sei matta come lui!»
«Parli così perché non lo sopporti».
«Sì, è vero. Ma ti prego, non andare».
La casa era sottosopra. C'era un puzzo di piscio nauseabondo; tante cose giacevano a terra rotte e i divani erano squarciati.
Ho trovato Matteo in un angolo del bagno, raggomitolato sul pavimento, con le unghie sanguinanti. I suoi gatti gli stavano intorno e lo leccavano senza sosta. Era in uno stato semicomatoso. Non riusciva neppure a parlare. Di tanto in tanto faceva una specie di miagolio angosciato, una cosa agghiacciante. Ho chiamato un'ambulanza che è arrivata un attimo dopo. È rimasto in ospedale dodici giorni.

Delia si è comportata come un'isterica e non mi ha voluto ascoltare. Ha urlato che sto facendo un grosso errore e si è messa a ridere come una pazza. «Stai sbagliando! Stai sbagliando!», ha detto tra le risa.

Il martedì sera faccio la lavatrice. Solo i capi colorati. Riempio il carrello di biancheria intima, di lenzuola e qualche camicia.
Rispetto al bere Matteo sta mantenendo la promessa che mi ha fatto, sembra davvero che voglia guarire. Ha ripreso persino a lavorare. Ma il nostro rapporto è in caduta libera. Non ci divertiamo più, a volte addirittura stentiamo a capirci, soprattutto non facciamo l'amore; lui non riesce a toccarmi, ha paura di farmi del male, dice.
Dovrei semplicemente ammettere che è finita. È finita e basta.
Anche se provo un grande affetto per Matteo, forse aveva ragione Delia quando diceva che sbagliavo a tornare da lui.
Il martedì sera Matteo ha il suo incontro settimanale con il gruppo degli alcolisti anonimi, per questo ceniamo presto, e prima delle ventuno sono già sopra il water con la sigaretta in bocca a veder roteare gli indumenti multicolori dentro la Margherita 2000. Sia chiaro: è uno spettacolo ripetitivo, ossessivo, ipnotico, una roba da alienati mentali, però davanti alla lavatrice che lavora mi sento bene, o una cosa del genere; non riesco a pensare a niente e in un qualche modo sto bene. Anche se non è esattamente vero che non penso a niente. La settimana scorsa, dopo aver affogato il mozzicone di sigaretta nell'acqua della tazza, ho sentito un brivido tra le gambe e ho cominciato a toccarmi. Pensavo a come Matteo mi leccava fra le cosce prima che iniziasse a bere. Si perdeva dentro di me decine di minuti, instancabile, appassionato e... parlava dei gatti e rideva. Mentre mi leccava, rideva e parlava dei suoi gatti.
Pensando a questo sono esplosa in un pianto osceno e ho preso a smanettarmi con rabbia, per raggiungere un orgasmo tra le lacrime poco dopo. Con gli occhi rossi e il corpo stremato ho abbracciato la lavatrice, questa volta cercando di non pensare veramente a niente, e mi sono fatta cullare dalla centrifuga.

© 2008 Massimo Vasini