Luisa Ventola, La fortuna di chiamarsi Mario



Mi chiamo Mario.
Luisa Ventola
Luisa Ventola è nata a Torino nel 1971 e vive a S. Stefano di Magra (Sp). Mamma di due bambini e artigiana di borse fatte a mano, è presente nell'antologia Fiocco Rosa. Gravidanza e maternità nei racconti delle donne italiane.
Mario, che nome da vecchio per uno che ha da poco compiuto tredici anni!
Era destino che mi chiamassero così.
Gli psicologi mi includerebbero nella fascia preadolescenziale nella quale di solito tendono a classificare i tredicenni come me.
Questi dottori dell'animo umano non sanno un cazzo!
Sono così rigidamente chiusi nelle loro teorie, in quello che hanno studiato, come se la gente fosse tutta uguale, che non riescono a vedere la persona che hanno davanti, ma sanno solo affibbiarle una categoria, preadolescente con problemi relazionali.
«Tredici anni?... Mmh, allora vediamo, suo figlio è in un periodo di non facile passaggio, un periodo nel quale avvengono cambiamenti spesso motivo di grande turbamento» dice quel genio dello psicologo, pagato un euro e cinquanta al minuto, a mia madre grondante di sudore e seduta composta sul suo pezzo di design in vera pelle.
Io ascolto in piedi vicino alla finestra. Fa caldo.
Fuori le strade deserte delle due del pomeriggio di un piccolo centro storico di provincia.
Mia madre, ancora col mangiare in bocca, mi trascina ogni mercoledì nello studio del dottor Benvenuti, l'affermato professionista da novanta euro l'ora che con le sue mani episcopali e il suo sorriso ebete mi infonde un gran senso di vuoto.
Ritorno a guardare la strada. Un ragazzo tenta di entrare in un bar, spinge la porta ma è chiusa, se ne va deluso, e penso che anch'io avrei voluto trovare chiusa la porta dello studio di Benvenuti, oggi.
Dott. Walter Benvenuti. Psicologo. Specialista in psicoterapia della famiglia, rammenta la targhetta d'ottone scritta a chiare lettere fuori dalla porta dello studio. Quante volte i miei occhi si sono soffermati su quelle parole storpiandole: Dott. Water Benvenuti. Cazzone di uno psicologo. Specialista del nulla.
«So che Mario sta attraversando, come dice lei, un periodo di turbamento interiore» dice mia madre con la voce spezzata dall'angoscia. «Lui non è un bambino come gli altri». E qui fa una pausa, il suo petto si gonfia in un profondo respiro, poi riprende a parlare come se non dovesse più fermarsi. «Mario è grande, è un ragazzino che sa di essere già entrato nell'età adulta e non fa niente per nasconderlo. Non riesce ad essere come tutti gli altri, un tredicenne conforme alla media, sguardo spavaldo, scarsa voglia di studiare, vestito male ma alla moda, cellulare in mano e ormoni impazziti.
Mario è sempre stato diverso in modo intelligente, un bambino di cui essere fieri. Ma quando è cresciuto in questa sua dimensione individuale di spirito libero e anticonformista, allora ho iniziato a preoccuparmi per lui. Vedo i suoi compagni pressappoco tutti uguali, ma loro sono un gruppo, sono amici. Mario invece è solo, ma non solo e incompreso, lui è solo e felice, felice di essere così.
Detesta il calcio, e ogni mio tentativo di convincerlo a scegliersi una squadra all'occorrenza, per avere almeno un argomento in comune di cui parlare in classe con i compagni, è risultato vano.
Si interessa solo di biciclette, della sua bicicletta, una bmx che venera come una Madonna.
Avergli regalato il computer non è servito a niente.
Navigare su internet, perché mai? Neanche di nascosto... ha capito cosa intendo, vero?
Il pomeriggio, dopo i compiti, esce e va allo skate park vicino a casa e lì inizia le sue acrobazie sulle due ruote. È li che lo ritrovo bambino, con quella voglia di muoversi e di divertirsi.
Rincasa la sera quando ormai è buio, fa un salto al ristorante, io gli faccio trovare il suo piatto preferito, trofie al pesto, sentisse che buone che sono. Poi fila a casa e si stravacca sul divano a sfogliare libri di matematica. Quando torno dal ristorante lo trovo ancora sveglio che legge.
Sono tutti libri che leggeva e studiava mio marito. Era un matematico autodidatta, un cuoco con la passione per i numeri, oltre che per la soppressata di polpo, la sua specialità. Da quando è morto non la teniamo più nel menù».

Ecco, ci risiamo con la storia della soppressata.
La racconta a tutti, per non parlare della matematica da cervellone mancato.
La odio quando spiffera così impunemente i fatti nostri a questo perfetto sconosciuto che non sa niente di com'era mio padre. Mia madre considera Benvenuti una persona competente, anche se è consapevole che costui la sta riempiendo di nozioni che lei stessa potrebbe trovare su un qualsiasi manuale di psicologia in edizione economica.
La sta spennando per bene, questo specialista nello sfilettare il conto in banca di madri inquiete, ma lei insiste col dire che ci fa bene venire qui.
Io insisto col dire che fa bene solo a lui.
Mentre il talento della psicologia moderna continua a parlare, io guardo il mio orologio e calcolo quanto è già uscito dal portafoglio di mia madre, e intanto che i miei calcoli inseguono le lancette il tariffario galoppa veloce a un euro e cinquanta centesimi al minuto, e via così fino ad arrivare a novanta euro belli tondi.
Bene, anche oggi il dottor Benvenuti può fare il pieno al suo nuovo suv nero, lavato di fresco.
Ogni mercoledì per me è sempre la stessa tiritera, gli stessi discorsi di mia madre, le stesse bestemmie forbite del dottore: Mario è un bambino maturo, troppo maturo per la sua età.
È quel "troppo" che mi fa incazzare, il troppo presuppone che io sia malato.
Malato di "troppa maturità".
Mario è in cerca di una soddisfacente realizzazione di se stesso, non si riconosce più in quello che era e non sa ancora vedersi in quel che sarà.
Ma che stronzate!

La settimana scorsa mia madre ha esordito con: «A Mario non interessa vestirsi come i suoi compagni», l'ha detto come se fumassi canne nel cortile della scuola, magari davanti al preside, «e se gli compro un jeans di marca lui taglia l'etichetta, non vuole esibire niente, vuole restarne fuori».
Mario, un fantasma della moda.
Mi sono vergognato per lei nel sentire con quanta rassegnata convinzione diceva queste cose.
Aspettavo la reazione di Benvenuti, lui avrebbe dovuto farle capire quale grossa idiozia le era appena scappata di bocca.
Ho aspettato invano.
Quel manichino le ha risposto con voce distratta e intermittente. «Mario ci tiene ad ostentare una sicurezza che non possiede. A lui la moda interesserebbe, ma vuole esibire il suo carattere fatto di sfida e finte certezze. Sai quanto gli costa, in termini di forza di volontà, non essere uguale a loro, non appartenere a nessun gruppo? Tranquilla, gli passerà, vedrai».
Cosa mi tocca sentire. Ma non si vergognano a dire queste cose davanti a me?
Parlano come se non li ascoltassi.
Io ci sono.
Ci sono, anche se resto muto quasi tutto il tempo e faccio l'impossibile per assumere quell'aria svanita da ragazzino con la testa fra le nuvole.
Mia madre lo guarda illuminata e alleviata dai suoi sensi di colpa, ma questo benessere precario dura poco, al massimo fino al mercoledì successivo.
Adesso poi questi due si danno pure del tu, quando si salutano Benvenuti le dice: «Al prossimo mercoledì, Zoe» e lei ricambia con: «Ci vediamo mercoledì, Walter».
Walter e Zoe, messi così vicini sembrano quei nomi che si trovano sui bagagliai delle utilitarie, Sammy e Jessica, Gabry e Marco, Tere e Gigi, Walter e Zoe.
Se penso che forse tra questi due in un incerto futuro potrebbe nascere qualcosa, mi vengono i brividi, i conati di vomito, la dissenteria, mi si rizzano quei pochi peli che ho sotto le ascelle.
Porca zozza, giuro che scappo di casa se succede.

Purtroppo l'ora non è ancora finita e ripiombo, per quanto posso, in apnea.
È il mio metodo per non sentirlo, trattengo il respiro sempre di più e mi concentro per non ascoltare. Sento solo il mio cuore battere all'impazzata, una tachicardia preadolescenziale degna delle teorie del dottore.
Continuo a trattenere il respiro nei miei polmoni di tredicenne e non smetto di contare. Siamo già a settantacinque euro, mancano ancora quindici euro di strazianti idiozie e altrettante spossanti apnee e poi potrò ritornare a casa, finalmente.
La bici mi aspetta.

Mi sento così leggero quando pedalo.
Ma devo pedalare forte perché altrimenti non sento il vento in faccia.
Andare in bicicletta mi fa sentire libero. Libero di essere come voglio.
Quando i muscoli delle cosce iniziano a bruciarmi, allora so che sto andando veloce e sento gli sguardi della gente su di me.

Mio padre è stato colpito da un fulmine.
Quale morte più stupida e assurda può capitare a un essere umano?
Tu lì, ignaro di tutto, in vacanza con la famiglia in Irlanda dopo un anno di lavoro ai fornelli, sulla spiaggia sassosa rimiri il panorama e non tenti neanche di prendere quel pallido sole, poi le nuvole iniziano a correre veloci, si alza un vento gelido e il cielo si rannuvola sempre di più, diventa inaspettatamente scuro e minaccioso, scoppia un temporale all'improvviso e inizi a sentire tuoni che si avvicinano in un susseguirsi di boati.
Pensi alla tua famiglia, bisogna allontanarsi: i temporali al mare sono pericolosi.
Stai tornando in fretta alla macchina e urli ai tuoi figli di sbrigarsi.
Senti un altro tuono, poi ne senti uno più debole, lo percepisci più lontano e meno assordante di quelli che lo hanno preceduto, pensi che il temporale sia giunto quasi alla fine, che se ne stia andando a spaventare qualcun altro, ma dopo un secondo, senza alcun preavviso o presagio di morte imminente, vieni trapassato da un fulmine, la tua fine arriva dal cielo come una spada di Damocle sulla testa.
Eravamo tutti lì, spettatori impotenti di fronte alla forza devastante della natura.
Lo abbiamo visto crollare a terra, ma ancora prima che si accasciasse al suolo, un odore di capelli e tessuti bruciati ci aveva riempito le narici fino alla nausea.
Il cellulare scarico, la corsa ad un chiosco di fish and chips non lontano dal parcheggio per chiedere aiuto. Il viaggio in ambulanza a sirene spiegate, l'attesa nella sala d'aspetto del pronto soccorso come da copione cinematografico, la constatazione di decesso subito dopo.

Pedalo sempre più veloce.
Mi lacrimano gli occhi per il vento.
Piango fino allo skate park.
Tutti i giorni è così. Poi passa, passa quando mi concentro per iniziare a provare il salto dalla pedana più alta.
La bmx fa un gran fracasso sulle assi di legno, atterra facendo un rumore che assomiglia a quello di un tuono.

Benvenuti non demorde e continuava a farneticare. «Il corpo di Mario si sta trasformando e così anche i suoi stati d'animo. Lui vorrebbe spiccare il volo e sentirsi libero, staccarsi da te, Zoe, ma allo stesso tempo teme di non farcela da solo, non si fida abbastanza di sé».
Basta, basta, basta, sto diventando cianotico, devo riprendere fiato ma sono riuscito comunque a leggere sulle labbra di Benvenuti l'ultimo rosario di cazzate che ha riferito a mia madre.
«Basta!» Urlo tanto forte da farlo saltare sulla sedia girevole color senape.
«Scusa, ma non ho finito». Dice Benvenuti con una voce di uno che non si scusa.
«Basta!» Urlo più forte. «L'ora è finita, mamma!» Dico alzandomi di scatto e sbattendo con le gambe sulla scrivania piena di chincaglierie e depliant di informatori medici.
Mia madre imbarazzata non oppone resistenza.
Lei è stanca, io sono stremato, mio fratello Pietro, anche lui è esaurito, siamo tutti psicologicamente logorati da quando mio padre se n'è andato, due anni fa.
Lui non c'è più, lui è morto, kaputt!
Lui è estinto, defunto, trapassato, scomparso.
Lui è il volo di ritorno Ryan Air 355 anticipato di una settimana, lui è una lapide in un cimitero, lui è l'autobus numero 63 direzione camposanto, lui è la scatola dei telegrammi di condoglianze ricevuti, lui è lo sguardo imbarazzato della gente che mi riconosce per la strada, lui è il rumore di stoviglie nervose quando siamo a cena, lui è il silenzio che parla, lui è il garage nel caos, lui è la babele dei miei pensieri alla deriva.
Lui è la soppressata di polpo tolta dal menù.
Usciamo dallo studio di Benvenuti tutti e due sudati.
Mia madre in preda a un rash cutaneo che le invade il collo e la faccia: le succede sempre così quando suda tanto e si innervosisce col sottoscritto che vorrebbe farla finita con questa settimanale onerosa pagliacciata.
Non mi serve lo psicologo. Mi serve qualcuno che mi accetti così come sono.
Mio padre lo faceva.
Lei invece non lo capisce.
Il mio modo d'essere non è cambiato da quando è morto papà.
In fondo a mia madre, così presa dal lavoro al ristorante, ha sempre fatto comodo avere un bambino come me, maturo quanto basta per capire che i genitori tornano a casa tardi la sera e che tu devi restare buono buono in attesa di rivederli per una manciata di minuti.
Niente favole della buonanotte, non c'era mai tempo. Era sempre troppo tardi per quelle.
Sono un bambino nato già grande, parola di Benvenuti.
Un bambino dall'aria adulta ma senza gli occhiali.
Adesso che mio padre non c'è più, mia madre ha scambiato il mio atteggiamento per vulnerabilità.
Io cerco di essere come lui, un uomo pacato e riflessivo, uno che ascoltava prima di parlare, un amante della matematica, del calcolo, della logica e della sua bicicletta coi freni a bacchetta. Non se ne separava mai.

Mio padre decise che era ora di lasciare Genova e la vita frenetica della città dopo l'ennesima rapina compiuta nella zona.
«Trasferiamoci in una realtà più a dimensione d'uomo», disse in tono perentorio. Così, dopo alcuni mesi di preparativi e grazie ai contatti giusti, trasferimmo baracca e burattini a Sarzana, e fu allora che la bicicletta divenne il suo principale mezzo di trasporto.
Non aveva più paura che lo potessero arrotare come quando pedalava ansioso su corso Firenze.
L'angoscia delle macchine alle calcagna, i fumi torbidi dei tubi di scarico nel suo naso ossuto e reso storto da una pallonata presa da bambino, le continue imprecazioni degli automobilisti arroganti che volevano che si facesse da parte, il puntuale strombazzare dell'autobus, all'angolo con la salita della Madonnetta, che ogni volta lo faceva saltare di spavento sulla sella, le voragini nell'asfalto che lo costringevano ad un cambio dei raggi quasi trimestrale, erano oramai solo un ricordo lontano.
Questo piccolo borgo medievale, stretto fra mare e monti, gli aveva reso la vita più facile, e il ciclista che era in lui qui poteva dare sfogo alla sua pedalata flemma e costante, ai suoi scampanellii per salutare gli amici, ai capelli arruffati dalla brezza.
Io amo la matematica, i calcoli, la logica, proprio come lui.
Io amo andare in bicicletta, anche se la mia non ha i freni a bacchetta.
Anzi, la mia i freni non li ha proprio.
Amavo mio padre, e ora mi sento simile a lui. Questo, adesso che non c'è più, mi fa sentire un privilegiato.
Perché mia madre si ostina a non capire?
Lei ha perso il suo compagno, io ho perso tutto.
Al funerale mi dicevano di essere forte, adesso che lo sono, o cerco di esserlo, tutti si preoccupano per me perché è anomalo che un bambino si comporti come un adulto.
Allora decidetevi, come devo essere?
Mario sii forte ma continua a vivere nel mondo dei balocchi! Questo vorrebbero da me.
Invece no, la morte di un padre non può lasciarti indifferente! Mio padre non lasciava indifferente nessuno nemmeno da vivo, figuriamoci da morto!
Se prima ero più saggio degli altri miei coetanei, adesso lo sono ancora di più, cazzo.
Lasciatemi così, mi piace essere così, voglio restare il Mario che sono ora.
Mio padre era così e io voglio essere come lui.
Tutti mettono l'antipasto classico di mare nel menù? La solita anemica insalata di polpo?
Lui invece faceva delle bruschette di mare e presentava il pesce sul pane di Vinca.
È vero, ha ragione Benvenuti, io voglio sfidare il prossimo. La sfida è anche nei miei jeans da mercatino di paese, nella mia maglietta anonima, nei miei capelli senza forma, nelle mie scarpe da ginnastica senza marca, nel mio zaino in tela arancione comprato all'acquario di Genova.
La prima volta che l'ho portato a scuola, tutti pensavano che fossi scemo.
Il secondo giorno la Strozzi, quella di italiano, mi ha chiesto se per caso avevo dimenticato lo zaino a casa, ma quando le ho fatto capire che era proprio quello, lei lo ha guardato con aria impacciata, un misto fra il disgusto e la compassione.
Così facendo, però, ho ottenuto il rispetto dei bulletti della classe, perché mi vedono come un tipo strano, uno da evitare appena possibile.
Senza fare niente sto diventando leggenda, e la cosa inizia a destarmi un certo piacere.
Cosa direbbe il dottor Benvenuti in questo caso?
Mario è come un bimbetto, Mario è in cerca di continue gratificazioni, Mario è egocentrico, un precario esibizionista.
Sì, sì, sì, e allora? Sono un egocentrico che sfida il mondo con la sua normalità. Ho bisogno di mio padre come l'aria, e tutto quello che so fare è vestirmi come lui.
Ho tredici anni ma vorrei averne di più per scappare di casa e passare inosservato. Non so dove andrei, forse lontano da mia madre.
Ero geloso di loro due, così inseparabili, sempre d'accordo su tutto.
Cosa mi resta di questo sentimento? Una profonda rabbia verso me stesso e tempo perso a rodermi il fegato sul perché mio padre non cercasse di passare più tempo con me piuttosto che con lei.
Loro facevano i cuochi insieme, mentre io cuocevo di una stupida gelosia ingenua.
Adesso che lui non c'è mi ritrovo perso e privo della luce che emanavano i suoi occhi chiari, due fessure strette come asole.
A volte mia madre e io ci ritroviamo a fissare la sua foto. Io le spiego che papà mi manca e che sono un ragazzino normale, la supplico di non portarmi più da Benvenuti, le prometto che mi comporterò più modernamente, che sarò più finto se le fa piacere, ma lei neanche mi ascolta e piange sulla mia spalla, mi abbraccia e stropiccia la polo di mio padre che ho addosso, si stringe così forte al mio petto che riesco a sentire l'odore di basilico che ha usato per il pesto. È un odore forte che le impregna i vestiti, è l'odore che mio padre le rimproverava bonariamente di avere alla fine di una giornata al ristorante. È l'odore che sento adesso, lo stesso odore che sentiva lui.
Come si fa a vivere senza di lui? Come si fa a svegliarsi tutte le mattine senza sentire più quel profumo di dopobarba da supermercato che proveniva da sotto la porta del bagno?
La sua voce calda, le sue dita sottili che speditamente tagliavano i pomodorini per le bruschette dell'antipasto della casa, la sua camminata energica e sicura, il rumore dei suoi passi la sera tardi, alla chiusura del ristorante.

È l'ennesimo mercoledì e stiamo salendo le scale dell'elegante palazzo di Benvenuti.
Tre piani di scale fatti con rassegnazione e il cuore in gola.
Non abbiamo ancora finito di salire gli ultimi scalini in marmo di Carrara tirato a lucido, quando scorgo, un attimo prima di mia madre, un post it giallo attaccato alla porta dello studio.
Il Dott. Benvenuti non può essere in studio oggi per un'urgenza in ospedale. Si scusa con tutti i suoi pazienti rimandandoli alla settimana prossima.
Non solo becca i nostri soldi e di chissà quanti altri, lavora pure in ospedale, il porco!
Però i miei occhi oggi sorridono. E pensare che mi sono anche messo i pantaloni alla moda che mia madre mi ha comprato l'altro giorno in un raptus di shopping.
Quando è venuta a casa e me li ha fatti vedere, ancora un po' svenivo.
La perfida questa volta me li ha comprati con la marca scritta a chiare lettere su tutto il jeans, così non la posso nascondere. Sulle tasche posteriori hanno due strane ali argentate, e le parole devil & angel campeggiano in un misto di sacro e profano al di sotto della zona lombare.
Mio Dio.
Di primo acchito mi è venuto un brivido lungo la schiena al solo pensiero di uscire di casa con quei due affari stampati sul culo. Però non me la sono sentita di protestare, sono stanco. Mi sono accordato con lei che i jeans con le ali non li avrei messi per andare a scuola, forse nel tempo libero, in bici le ali non si vedrebbero, terrei le mie chiappe ben incollate al sellino.

Senza dirle niente oggi li ho indossati.
Mentre salivamo le scale mi sono messo davanti a lei in modo che a ogni passo vedesse le due ali muoversi sul mio didietro.
Il suo sguardo è sempre triste, ma oggi invece sorride e mi accarezza. Lo sa che quei jeans mi fanno schifo e che li ho messi con la speranza che si convinca che sto pian piano evolvendomi in un ragazzino normale.
Io so che non è così, ma forse il gesto potrebbe persuaderla del fatto che non ho più bisogno di Benvenuti e delle sue lungimiranti teorie.
Stasera per completare l'opera attacco anche il computer, e prima di arrivare a casa mi faccio accompagnare in edicola a comprare un fumetto.

Albert Einstein diceva: La vita è come una bicicletta, bisogna andare avanti per non perdere l'equilibrio.
Questa frase l'ho scoperta in un quadretto dietro la cassa della bottega dove mi rifornisco di pezzi per la bici. Il proprietario, un tipo burbero che parla ad alta voce, ha anche altri quadretti, ma con frasi decisamente meno intellettuali: "Non si fa credito neanche al Papa" oppure "Il culo e i soldi non si mostrano a nessuno".
L'altro giorno sono entrato per prendere degli adesivi fosforescenti, il volume della sua radio era a manetta e la canzone che davano era orrenda. Una canzone che a un certo punto dice: "...per fortuna non mi chiamo Mario".
Mi sono chiesto se il mio nome fosse talmente da sfigati da ispirare una frase del genere, o se il cantante fosse sfigato di suo per scrivere certi testi.
«Ecco» gridò Livio porgendomi gli adesivi, «con questi ti vedono anche gli ubriachi».
«Quanto fa?»
«Tredici euro».
«Così tanto? Non ne hai un tipo a meno?»
«Ce li ho, belin, ma non sono Bikeflu. Questi sono i più venduti».
«Non m'importa, dammi gli altri, vanno bene uguale».
«Sono otto euro».
«Ecco tieni, ciao Livio, ci vediamo».
«Ciao».
«Ah, Livio, volevo farti una domanda».
«Dimmi, ma veloce che ho da fare».
«Ti piace il nome Mario?»
«Perché?»
«Non rispondere con un'altra domanda, ti piace sì o no?»
«Sì, mi piace, mio nonno si chiamava così».
«Ah».
«Perché me l'hai chiesto?»
«Perché penso che il mio nome sia da vecchio».
«È il tuo nome, è giusto per te».
«Grazie».
«Prego».
«Adesso vado, poi ti faccio sapere se vanno bene gli adesivi».
«Vanno bene, fidati».
«Lo so che vanno bene, dicevo così per dire».

© 2008 Luisa Ventola