Luca Martini, Simba



Mio padre arrivava sempre in ritardo.
Luca Martini
Luca Martini è nato a Bologna nel 1971, dove vive. Si è laureato in giurisprudenza e ha svolto per anni la professione legale. Ha pubblicato tre raccolte di racconti: Per un attimo indelebile (I miei colori, 2001), Riflessi d'interno (Bonomo, 2004), Partitura compiuta per pensieri distratti (Giraldi 2006). Nel campo della prosa ha pubblicato La geometria degli inganni (Voras, 2009), Le mani in faccia (Voras, 2010) e L'amore non centra (La Gru, 2015).
Quando doveva passare a prendermi per il fine settimana mi faceva aspettare anche per un'ora. Io restavo ad attenderlo già vestito, con lo zainetto in mano e la speranza negli occhi, seduto sul letto della mia cameretta.
Ogni volta pregavo che arrivasse davvero, con la paura che invece non l'avrei più visto, forse arrabbiato per qualcosa che avevo fatto o detto. Sempre colpa mia, insomma, fin da allora.
Mia madre me lo ripeteva in continuazione: «Vedrai Tobia che un giorno tuo padre non verrà più a prenderti, e sparirà. Andrà a finire così, ne sono sicura».
E invece arrivava. Tardi, ma arrivava.
Credo che mia madre volesse farmi piangere, ma io non le davo soddisfazione. Avrei voluto, ma mi trattenevo, stringendo il mio zainetto con tutta la forza che potevo. Pensavo alla parola che faceva sparire tutti i dolori, quella che mi aveva insegnato papà quando piangevo perché non volevo andare a scuola. Io la uso sempre, mi diceva, anche adesso che sono grande e funziona davvero, ripeteva. Bastava pensarla intensamente, chiudendo gli occhi e stringendo forte le mani e la paura sarebbe scomparsa. Se poi si urla, precisava, tutto svanisce come per incanto, in maniera ancor più repentina ed efficace.
Io mi ero scelto una parola dolce e forte al contempo, simba, che in swaili significa leone. Era in un libro di avventura che papà mi aveva letto una sera prima di dormire e da allora non me la sono più scordata. Simba era anche il nome che poi avevo dato al fratellino che non avevo mai avuto, con il quale giocavo da piccolo. Ogni volta che pronunciavo quelle cinque, magiche lettere, tutto si faceva più leggero. Simba.
Quello che mi piaceva di mio padre era il sorriso. Anche nelle situazioni più disparate e disperate, mio padre riusciva a trovare il lato leggero della cosa. E sfoderava il sorriso più disarmante che avessi mai visto.
Lavorava in un'azienda di distribuzione di bevande ma con quel sorriso avrebbe potuto fare del cinema. O la pubblicità del dentifricio perfetto.
Mia madre lo aveva sposato per il sorriso, ed era anche grazie a quel sorriso, infantile e incosciente, che non si era mai decisa a divorziare da lui, nonostante le minacce reiterate nei quattro anni di separazione.
Mio padre sosteneva di amare ancora mia madre, di amarla davvero e di non avere mai smesso di farlo. Me lo aveva spiegato la sera che se n'era andato di casa, ed era stato convincente.
«Perché allora te ne vai, papà?», gli avevo domandato.
«Perché non posso amare soltanto tua madre, Tobia».
«Allora non potrai amare nemmeno me?»
«Tu sei una cosa diversa, Tobia. Tu sei mio figlio, tua madre è una donna. Io ti vorrò bene per sempre in maniera unica, non potrò mai amare nessun altro come amo te».
E con il suo sorriso seducente mi aveva convinto, cingendomi con le sue braccia forti e villose. Mi piacevano i suoi abbracci energici, da togliere il fiato, marcati da due tatuaggi che raffiguravano piccole ancore verdastre.
Io, un bambino di sette anni, avevo capito ogni cosa.
Mio padre era un amante, qualcuno che era stato creato per amare.
Amava mia madre, e pure me, ma non poteva amare in quel senso soltanto lei. Era più forte di lui, era come un cleptomane che non può non impossessarsi delle cose degli altri. Condannereste un malato? Forse un figlio normale lo avrebbe fatto. Io invece non lo assolsi, ma riuscii a non condannarlo.
Era un ladro d'amore, ecco. Vedevo mio padre come una specie di Arsenio Lupin dell'amore, un ladro gentiluomo che credeva di risolvere tutto con un sorriso e con il suo fare gentile e seducente.
La realtà era un po' diversa.
A cominciare da mia madre, che non la pensava esattamente così, e all'ennesimo tradimento di mio padre lo buttò fuori di casa. Lo fece in maniera letterale, rovesciando in giardino, oltre alla sua rabbia, ogni cosa. Una piccola montagna incantata che vedevo crescere dalla finestra della mia cameretta, al piano di sopra, fra le grida e i singhiozzi di mia madre, che facevano da colonna sonora a un distacco già consumato da tempo.
Non provavo dolore, forse nemmeno rabbia. Ciò che ricordo di quel giorno è la mia confusione: mio padre era così, andava solo accettato. Non comprendevo la gravità della parola tradimento, ammesso che sia poi così grave.
Con chi la tradisse non l'ho mai saputo e non mi interessa nemmeno. Credo però che l'elenco sarebbe troppo lungo.
Questo era mio padre.

Un sabato pomeriggio venne a prendermi, in ritardo di una buona mezz'ora. Mia madre era più nervosa del solito, perché due settimane prima non si era fatto vedere e non aveva nemmeno avvisato.
«Dovevo chiudere un grosso contratto, non potevo mancare», disse a mia madre.
«Avevo da far bene», disse a me, con il suo solito sorriso e una strizzata d'occhio, che poi avrei cercato di imitare tante volte davanti allo specchio del bagno.
Mia madre tutte le settimane minacciava di andare dal giudice per il divorzio, ma quella volta era più risoluta del solito.
«Se me lo porti dopo le diciannove di domani divorziamo, ma davvero stavolta. Posso andare avanti così, io? Ricordatelo bene, capito?».
Mio padre sorrideva e diceva che non sarebbe accaduto. Era convinto che prima o poi saremmo tornati ad essere una famiglia, una famiglia vera, tutti e tre insieme, insomma. Come quelle del Mulino Bianco, diceva, tutti splendenti, con denti bianchissimi e un'armonia invidiabile. Quando me lo diceva gli si illuminavano gli occhi, e io sentivo il profumo dei biscotti inzuppati nel latte. Gli credevo. Forse, però, era più il desiderio di smettere di vergognarmi davanti a chi si permetteva di giudicare le mie speranze.
Quel giorno mia madre dopo aver urlato contro mio padre smise di colpo di parlare. Si mise seduta sulla sedia di cucina e cominciò a fissare il calendario rimasto fermo al mese precedente. Pareva finita, come una bistecca mangiata fino all'osso, senza più un filo di carne. Da un po' di tempo era nervosa, pallida e stanca. Faticava a gestire i turni che le imponeva l'agenzia di pulizie per la quale lavorava e dormiva poco e male.
Prima di partire strinsi forte mia madre e le chiesi se si sentiva bene. Mi rassicurò con un bacio dolce, mi disse di divertirmi e di non pensare a lei.
Partimmo alle sedici, per andare a trascorrere il fine settimana nella casa che i miei con fatica continuavano a dividere a Cattolica. Da maggio a settembre alternavano i fine settimana. Giugno, luglio e settembre erano della mamma, agosto di papà. Il resto dell'anno ad uso e consumo di chi ne aveva bisogno. Quasi sempre mio padre, che andava a passare in quella casa weekend romantici o passionali. Difficilmente le due cose si fondevano. Soltanto una volta accadde, se la memoria non mi inganna. Si trattava di una sua collega, una certa Samantha. Ma la loro storia durò non più di sei mesi, e i fine settimana di papà tornarono ad essere o romantici o passionali.
Era una giornata molto calda. Era luglio e i miei undici anni erano la cosa più leggera che avessi indosso quel giorno.
L'aria che filtrava dai finestrini spalancati della Ford Capri di mio padre era densa come melassa e il sudore gli bagnava completamente la camicia bianca a maniche corte che indossava. Grondava dalla fronte come un rubinetto aperto. Non avevo mai visto una persona sudare tanto.
Viaggiava forte sull'autostrada e mi divertivo a guardare le persone dentro le macchine che sorpassavamo.
Era un gran pilota mio padre, su questo non c'è niente da dire.
Si metteva in corsia di sorpasso ai centottanta e abbagliava a tutte le macchine che incontrava sul suo cammino, cantando canzonette di Celentano, di cui storpiava le parole. Capivo che era pericoloso, ma non avevo paura. Mi diceva sempre di non guardare quello che faceva al volante. Io, invece, prendevo nota, cercando di capire perché alternava i piedi su quei tre pedali.
«Io so guidare, Tobia, ma tu non imparare da me, mi raccomando. E non dirlo alla mamma, d'accordo?».
Non l'avrei fatto nemmeno sotto tortura.
Quando si viaggiava in automobile mi piaceva fare un gioco che avevo inventato io. Facevamo a gara a chi vedeva per primo un cartello stradale di qualsiasi genere. Io li chiamavo pieffe, non mi ricordo il motivo, ma mi veniva da indicarli con quel buffo nome. Il pieffe triangolare valeva un punto, quello circolare due punti, quello rettangolare delle uscite o delle città tre. Il primo che ne vedeva uno doveva dichiararlo a voce alta. E alla fine del gioco, che poteva durare anche un'ora, si sommavano i punteggi.
Vincevo quasi sempre io a mani basse.
Mia madre non mi permetteva di giocarci, perché le mie grida le facevano venire il mal di testa.
Mio padre invece si divertiva più di me, e sono certo che facesse apposta a farmi vincere.
All'altezza di Cattolica ero in vantaggio ventisette a diciotto. Altri tre punti per me. Vidi scorrere velocemente il cartello e poi superammo l'uscita. Dopo qualche minuto compresi che mio padre non aveva preso la solita strada e iniziai ad agitarmi.
«Papà, dove stiamo andando?»
«Ti porto a vedere qualcosa di meraviglioso, Tobia».
«Che cosa?»
«Una sorpresa».
«Quale sorpresa?»
«Ti fidi di me?» Sorrise.
«Sì, papà», gli dissi, anche se in un certo senso non mi fidavo affatto di lui. Sapevo che le sue intenzioni erano buone, quello sì. Ma sapevo anche che mio padre era la persona più inaffidabile della terra, in grado di rovinare qualsiasi cosa con le sue stesse mani. Eppure, pur avendo questa consapevolezza filtrata dalle dure parole di mia madre, non riuscivo a perdere l'ammirazione che provavo per lui.
«Ricordati, però, che domani devo essere a casa per le diciannove».
«Uffa Tobia, quanto sei responsabile».
«È una cosa sbagliata?»
«No che non lo è, anzi. Tranquillo, mi ricordo benissimo. Ho mai fatto tardi?», mi disse girandosi verso di me e accennando uno sguardo timido. Il colletto della camicia era completamente zuppo di sudore.
«Papà...»
«Ok, ok, va bene, non farmi la predica anche tu. Somigli sempre più a tua madre».
Ci rimasi male. Non sapevo se mi piaceva assomigliarle.
«Ehi, guarda che voleva essere un complimento, Tobia. Quello che voglio dire è che tu sei un bambino molto maturo e coscienzioso. E queste sono doti. E di certo non le hai ereditate da me».
Su questo non c'era alcun dubbio.
Viaggiammo per un'altra ora buona, passando in rassegna strade statali, strade provinciali e piccoli viottoli di campagna, le famose scorciatoie di mio padre che alla fine dilatavano il viaggio di chissà quanto.
Il sole continuava a far ribollire la macchina, che viaggiava ora a velocità più contenuta.
Quando arrivammo a Terni erano quasi le diciannove.
Ci fermammo in un albergo con piscina appena fuori dalla città.
Adoravo gli alberghi con la piscina, anche se non ero capace di nuotare. Mio padre conosceva la mia passione per le piscine, e l'aveva scelto apposta.
Appena arrivati papà salutò tutti. Non credo fosse la prima volta che ci andava, ma non volli approfondire.
Scaricammo i bagagli in fretta e li portammo in camera.
«Chissà che fame hai».
«Sì papà, ho fame».
«Bene, andiamo in un posto che conosco, proprio vicino a piazza della Repubblica».
«D'accordo papà, ma prima telefona alla mamma per dire che siamo arrivati...», gli dissi.
Mi guardò senza dire nulla. Non sorrise.
«...a Cattolica», aggiunsi.
Papà prese un gettone dalla tasca dei pantaloni ed entrò nella cabina telefonica. Credo che abbia telefonato a mia madre, anche se quando tornò, più ombroso di prima, non disse nulla.
Mangiammo un hamburger e delle patatine unte in una delle tante trappole improvvisate nel centro della città. Il posto dove si mangiava benissimo non era riuscito a trovarlo.
Nelle strade della città si respirava un'atmosfera elettrica, ma non riuscivo a capirne il motivo. Attorno a noi sedevano molte persone, quasi tutti stranieri, la maggior parte biondi, con la pelle chiara scottata dal sole di un luglio italiano. Sembravano tutti sorridenti e leggeri, senza problemi, pensieri o genitori separati.
«Perché siamo venuti qui, papà?»
«Mangia Tobia, avrai fame».
«Perché siamo venuti qui, papà?»
Mio padre mi guardò l'orecchio destro poi prese fiato, spostando lo sguardo verso una ragazza straniera, probabilmente inglese o australiana, che gli sorrideva da un po'.
«Ti ho portato qui perché stasera voglio farti sentire qualcosa che non potrai dimenticare. E quando sarai grande potrai dire io c'ero».
Non compresi, ma capii che dovevo solo aspettare. Mio padre aveva questo di bello: sapeva fare le giuste sorprese, e di solito coglieva nel segno.
Un'ora dopo mi trovavo circondato da centinaia di persone che sfidavano la notte bollente per ascoltare il trio di Bill Evans che si sarebbe esibito di lì a poco.
Era il 1978 e l'aria, quella sera, conteneva in sé una promessa di cambiamento.

Avevo sempre amato la musica e avevo un buon orecchio. Anche a scuola mi distinguevo. Riconoscevo le sonate di Mozart dalle prime note e notavo le differenze tra le sinfonie di Beethoven e quelle di Mahler. Inoltre, con il flauto dolce me la cavavo piuttosto bene.
Però una musica così non l'avevo mai sentita.
Osservavo Bill Evans suonare con passione e svogliatezza apparente, mentre la tastiera produceva note che a me non sembrano nemmeno musica. Aveva lo sguardo fisso, che spesso alzava in alto muovendo le spalle al ritmo della musica. Io ero in decima, quindicesima fila al massimo, ma i miei occhi parevamo zoomare soltanto sulle sue mani, sul suo sudore, sulla sua indolenza.
Non avrei potuto nemmeno immaginare niente di simile.
Ero attonito.
Mi guardavo intorno, cercavo nei visi delle persone che assistevano al concerto la magia che avvertivo io, senza trovarla. Qualcuno era interessato, altri leggevano il programma, qualcun altro bisbigliava frasi divertenti. Ma nessuno era nello stato che mi aveva colto fin dai primi istanti. Solo mio padre, a occhi chiusi, seguiva la musica ritmandola con le dita e volava con la mente sulle terzine appena sussurrate dal pianoforte magico di Evans. Mi guardava soddisfatto, certo di avermi stupito. E io, pur non capendo niente di quanto accadeva, gli facevo comprendere che aveva ragione. Ero letteralmente estasiato da quelle melodie. Mi venne in mente mio cugino Alberto, che era entrato in seminario l'estate precedente. Mi parlava di una chiamata, di una voce, di qualcosa che era sceso dal cielo e lo aveva fulminato.
Mi sembrava di provare la stessa cosa.
Forse era Dio che mi chiamava, sotto forma di minime e semicrome.
Che Dio mi potesse apparire denso e perfetto come la musica che stavo ascoltando?
Forse era così.
Mi lasciai andare, chiusi gli occhi ed entrai in un altro mondo.
Il concertò scivolò via a una velocità almeno doppia rispetto a quanto durò realmente. Non mi ricordo cosa suonò Bill Evans quella sera. E non ricordo nemmeno quanto suonò. So soltanto che suonò, e questo mi basta. Non potrò mai smettere di essere grato a mio padre per questo.
Quando ci alzammo non parlai per diversi minuti. E mio padre non mi chiese nulla. Camminammo a lungo, in silenzio, ripassando quello che ci era capitato.
Poi lui ruppe il silenzio, e con ciò anche la magia che avevamo plasmato insieme.
«Avrai fame Tobia, no?»
«Veramente no, papà».
«Ma sì, dai, avrai almeno sete, no?»
Risposi di sì, pur senza desiderare nulla.
Mio padre voleva tornare nel locale dove avevamo cenato.
Ci sedemmo fuori, tra i tavolini ancora affollati nonostante l'ora tarda.
Presi una cedrata e restai a guardare mio padre all'opera con l'inglesina di prima. Avrà avuto sì e no vent'anni, tutta lentiggini e pelle chiara, un sorriso disarmante e tanta voglia di scoprire cose nuove.
Davanti a lei mio padre si muoveva con sicurezza. La dominava stando in piedi, vicino alla toilette, chiudendole con le mani appoggiate al muro ogni via di fuga. Gesticolava in modo buffo. Lei rideva, e lo faceva in maniera dolce, accarezzandosi la coscia fasciata da un vestitino leggero e portandosi l'altra mano piena di efelidi davanti alla bocca. Parlavano fitto. Solo dopo realizzai che mio padre non conosceva una parola di inglese.
Era un grande comunicatore, mio padre.
Ero troppo lontano per sentirli ma abbastanza vicino per immaginare le sue suggestioni. Chissà che argomenti stava utilizzando per convincerla, probabilmente un idioma tutto suo, fatto di allusioni, doppi sensi, seduzioni e sorrisi, tanti sorrisi.
Fatto sta che una mezz'ora dopo mio padre tornò al tavolo e iniziò a farmi fretta, dicendomi che era ora di andare a dormire. Con noi venne anche Julie, «una nuova amica», mi disse. La guardai come si può guardare una sorellastra, e dai suo occhi compresi che anche lei sentiva qualcosa del genere. Una specie di pudore misto a vergogna. Ma tutto durò lo spazio di qualche secondo, fin quando la timidezza lasciò il passo all'intraprendenza.
Arrivati all'hotel mio padre si fece dare la chiave e mi portò in camera lasciando Julie sui divanetti della hall.
«Mi fermo al bar di sotto a bere qualcosa, arrivo tra poco. Tu intanto fai la nanna, campione».
Quando mio padre uscì e girò la chiave nella toppa iniziai ad avere paura.
Ero solo, in una città che non conoscevo, sconvolto da quello che avevo sentito, agitato e inquieto.
Avrei voluto mio padre vicino, avrei voluto stringerlo e abbracciarlo con tutta la forza del distacco che si materializzava sotto le mie palpebre. Ma lui, probabilmente, stava già abbracciando Julie, promettendole amore eterno e una vita piena di emozioni.
«I love you, Julie».
Questo lo sapeva dire benissimo.
Mi rannicchiai sotto le lenzuola, strinsi forte a me il cuscino e cercai di non pensarci.
«Simba! »
Lo urlai diverse volte, ma non piansi.
Qualcuno uscì nel corridoio per cercare di capire cosa fossero quelle urla, poi rientrò nella propria stanza.
Il tempo passò più velocemente e quando mio padre aprì la porta della camera finsi di dormire.
Erano quasi le cinque del mattino.
Quando si sdraiò di fianco a me, nel grande letto matrimoniale, mi accarezzò i capelli e mi baciò.
Ero girato dall'altra parte, ma sono certo che mi sorrise.
La mattina dopo mi svegliò a mezzogiorno passato.
Pranzammo in albergo e poi andammo a prendere il sole nella piscina dell'hotel.
L'acqua era la più azzurra che avessi mai visto e io, seduto sotto l'ombrellone della birra Peroni, mi sentivo un vero signore.
Non gli chiesi nulla di Julie e nemmeno lui me ne parlò. Non volevo dividerlo con nessuno, non quel pomeriggio. E forse neanche lui voleva accadesse.
Restammo a giocare insieme per ore, ed è l'ultima volta che ricordo di averlo fatto in maniera così divertente, scanzonata, spensierata.
Alle diciassette dissi a mio padre che eravamo in ritardo.
Lui capì che avevo ragione e iniziammo a correre.
Dapprima con i bagagli, poi con la macchina.
«Stavolta tua madre mi ammazza».
Leggi divorzia.
Si fermò lungo la strada per telefonarle, almeno credo. Ma fece troppo presto, probabilmente non la trovò in casa.
Arrivammo che erano le venti passate, come al solito in ritardo.
Però ero felice. Ero riuscito a lasciarmi andare al suo affetto, alla sua insensata speranza, che mi faceva recitare in una di quelle colazioni da cartolina, da Mulino Bianco, come diceva lui. E mi piaceva.
Le parole di mio padre si facevano sempre più forti dentro di me, e lievitavamo piano.
«Tobia, torneremo insieme noi tre, io, tu e la mamma. Torneremo a essere una famiglia, ne sono sicuro».
Me lo aveva ripetuto giusto pochi minuti prima di arrivare, con una certezza contagiosa.
Ero sereno.

Sono passati quasi trent'anni da quel luglio del 1978. Fa lo stesso caldo di quella serata strana. Non siamo a Terni e non ci sono così tante persone come quella sera, ma il giardino del Baraccano è quasi pieno. Sono andato a prendere mio padre dalla clinica due ore fa, l'ho fatto mangiare secondo le indicazioni delle infermiere e l'ho sistemato con la sua sedia a rotelle sotto il palco, a pochi metri da me.
Non parla più da cinque anni e si muove solo con la carrozzina che qualcuno deve spingere per lui. Una specie di punizione divina, si potrebbe pensare.
Una legge del contrappasso che condanna un comunicatore come lui al silenzio più cupo.
Mio padre non interagisce più con il mondo, non so nemmeno se comprende quello che gli accade intorno.
Però stasera volevo che ci fosse.
Suono per la prima volta all'aperto. L'emozione è enorme, un trio all'aperto, tutto dedicato alle musiche di Bill Evans, all'uomo che ha cambiato la mia vita.
Prima di cominciare cerco il suo sguardo.
È sbilenco, pare non vedermi. Sembra fisso a cercare un pezzo della scenografia, quella in cui è indicata la marca di birra che sponsorizza il festival. La bocca è socchiusa, in una smorfia di stupore misto a dolore.
Ma c'è, è lì vicino.
Adesso sono pronto.
Lo guardo ancora, sperando si desti.
Nulla.
Inizio a suonare, partiamo subito con «Waltz for debby».
La suono con passione.
Termino anticipando la chiusura, con classe.
La gente applaude forte.
Mi giro verso mio padre.
Mi si stringe la gola.
La serata è serena e stellata, una leggera brezza accompagna i miei pensieri dalle stelle agli occhi di mio padre. Lo fisso tra gli applausi. Stringo i pugni e chiudo gli occhi.
Simba.
Quando li riapro ha il viso bagnato e lo sguardo leggero, e una piccola smorfia di sorriso si è fatta spazio sul lato sinistro della bocca.

© 2009 Luca Martini