Cynthia Collu, Mara chiuse gli occhi



La donna che le aprì la porta era grassa e intabarrata in un lungo caffettano viola. Aveva i capelli cortissimi, irrigiditi in ciuffi ispidi come cardi selvatici. Spesse lenti grigie le nascondevano gli occhi. Mara istintivamente cercò oltre la sua spalla qualcun altro. Lei dov’era? Tornò a guardare la grassona. «Sono Mara Fini», disse con un sorriso forzato.
Cynthia Collu
Cynthia Collu è nata e vive a Milano, dove lavora. Ha frequentato l’accademia serale di Brera, fatto mostre personali e collettive, insegnato lingue presso un istituto professionale, seguito un corso di teatro. Finalmente ha deciso cosa diventare da grande e ha ripreso a scrivere. I suoi racconti sono stati premiati in diversi concorsi, tra cui il premio Elsa Morante inediti, Arturo Loria, Castelfiorentino, e pubblicati su antologie e riviste (per esempio su "Linus"). Un suo racconto è presente nell’antologia Fiocco Rosa. Gravidanza e maternità nei racconti delle donne italiane. Per Mondadori ha pubblicato due romanzi, Una bambina sbagliata (2009), e Sono io che l'ho voluto (2015).
Non voleva essere villana. Aveva solo fretta. Dopo vent’anni d’attesa aveva una fretta terribile.
La donna le sorrise, comprensiva. «Lo so. Prego, entri».
Ci volle ancora qualche secondo perché Mara comprendesse che la persona davanti a lei era la stessa che le aveva risposto al citofono. Osservò la grassona con stupore, incapace di nascondere il proprio sgomento. L’altra la invitò a seguirla nello studio.
Era un locale piccolo ma straordinariamente luminoso. In una frazione di tempo che pure le sembrò scorrere indolente, Mara notò che i muri erano tinti di un giallo caldo, dato a spatola con rilievi diversi, e che i quadri appesi avevano tutti cornici dorate.
«La prego, si accomodi».
La donna l’osservava e continuava a parlarle con la voce di Eva.
Dunque quella era Eva.
Mara si sedette su una poltroncina di pelle, tanto minuscola da sembrare in miniatura.
«Allora, se vuole mostrarmi i suoi lavori…»
Lei si accorse in quel momento di essere per lo meno scortese. Era rimasta tutto il tempo a bocca chiusa mentre l’altra le rivolgeva la parola.
«Mi scusi», disse in fretta.
Aprì il raccoglitore che aveva con sé. Dentro c’erano le fotografie delle installazioni fatte negli ultimi cinque anni. Aveva esposto un po’ in tutta Italia, e alcuni lavori erano stati acquistati dal comune o dalla galleria che l’aveva ospitata – le sue sedie di plexiglas e rame erano persino citate in un’antologia d’arte.
Le foto dei dipinti le teneva invece in un album poggiato sulle ginocchia. C’era anche il ritratto di Eva, coi seni nudi e un bagliore viola negli occhi. Istintivamente nascose l’album sotto il raccoglitore aperto.
«Qualcosa non va?»
Mara scosse la testa e arrossì. Stava facendo la figura della stupida. L’altra donna sorrise e tese le braccia per ricevere il raccoglitore. Braccia grosse, non flaccide. Mara glielo porse con circospezione, attenta a non sfiorargliele. «Signora Leandri, è un onore per me conoscerla», riuscì a dire.
«Chiamami pure Eva», replicò l’altra.
Abbassò la testa per esaminare i lavori e i ciuffetti incollati dal gel le ballarono sul capo in maniera ridicola.
Chiamami pure Eva.
Quante volte Mara aveva desiderato gridare quel nome. Il ricordo compariva nei momenti più inopportuni, mentre piegava i panni della figlia piccola o mentre guardava dalla finestra, oppure mentre faceva l’amore col marito, così, improvvisamente, la ricordava com’era quel giorno sulla spiaggia. Allora provava lo stesso senso di straniamento e desiderava urlare.
Le aveva scritto per incontrarla circa un mese prima – Eva era un critico d’arte di fama nazionale – ma solo ieri le era capitato di leggere l’intervista. Nell’articolo la Leandri raccontava della sua passione per la vela, del corso seguito da ragazzina in una baia sperduta della Corsica, e Mara aveva finalmente collegato i cognomi. Si era ritrovata su quella spiaggia, come allora, con il corpo di lei contro il suo.
«Molti lavori li avevo già visti». Per parlarle si era tolta gli occhiali e ora le due donne si fissavano. Lo stesso bagliore viola di quel giorno, e del quadro.
Mara sentì suo malgrado un vuoto allo stomaco, e per un attimo lasciò che quella sensazione le scendesse sino al basso ventre.
Mi riconosci?, avrebbe voluto chiederle.
«Sono opere interessanti», aggiunse Eva.
Una pausa.
«Ultimamente sto seguendo artisti che come te hanno ripreso il concettuale. Ne sarai al corrente».
Mara assentì, le mani appoggiate con forza sull’album. Per anni il suo unico desiderio era stato di essere ricevuta da quella donna, e ora non riusciva a spiccicare parola.
Sì, no, grazie, felice d’averla conosciuta. Se continuava così si giocava la possibilità di essere annoverata fra i protetti della Leandri – e perché no? forse anche una futura Biennale di Venezia. Sarebbe rimasta una brava artista, una tra le tante, avrebbe sgomitato tutta la vita nell’attesa di un posto al sole.
Aprì la bocca per dire qualcosa. Qualsiasi cosa, anche sfacciata, purché intelligente. Che desiderava solo essere inclusa tra quei fortunati, per esempio.
Ma si rendeva conto che non era vero, quell’eventualità non le premeva più. Perlomeno non in quel momento.
Quello che voleva sapere era altro.
Se Eva ricordava.
Se anche lei ricordava.

«Hai da fumare?»
Mara aprì a fatica gli occhi, e la prima cosa che vide sopra di sé – prima ancora del viso – furono i seni. Erano nudi e talmente scuri sotto la luce violenta del giorno che le sembrarono di un viola innaturale. Quando le tornava in mente quel momento, ricordava di aver pensato che quella matta se li era ustionati.
Si mise a sedere e cercò a tastoni il pacchetto; la sabbia rovente la costrinse a svegliarsi del tutto. Lo trovò e ne estrasse una sigaretta. La tese in alto, e questa volta vide il viso. La ragazza la fissava con aria assorta. Non mosse neanche un muscolo per prendere la sigaretta, e Mara allungò il braccio.
I capezzoli della ragazza erano in fuori, rigidi contro la luce. Mara per un attimo temette di toccarglieli. «Allora?» disse brusca.
La ragazza sbatté appena le palpebre, poi si accoccolò e prese la sigaretta. Indugiò qualche secondo prima di togliergliela dalle dita.
«Hai del fuoco?», domandò ancora.
Mara le passò l’accendino. L’altra accese guardandola dritto negli occhi. Anche le iridi – forse a causa della luce vivida – erano d’un viola intenso. Mandò fuori una nuvola di fumo senza distogliere lo sguardo da quello di Mara. Sembrava riflettere. «Quanti anni hai?», le chiese a un tratto.
«Venticinque».
«Io quattordici. Ma non li dimostro».
«Vero. Sembri più grande».
«È il mio corpo. È formato come il tuo».
Mara inaspettatamente arrossì.
La ragazza si chiamava Eva. Era arrivata alla scuola di vela qualche giorno prima, e Mara non l’aveva mai vista insieme agli adulti.
«Sei sola, qui? Sei ancora piccola…»
Eva tirò indietro le spalle mostrandole la pienezza dei seni. Poi rise, soddisfatta. «Adesso mi trovi abbastanza cresciuta per stare senza mamma e papà?»
Tirò ancora una boccata e le si sedette vicino. Nel farlo la sua mano le sfiorò una gamba. Di nuovo, Mara arrossì. Prese a sua volta una sigaretta e l’accese. Fumò in silenzio, fissando il mare. Sulla spiaggia non c’era nessuno. Gli altri corsisti erano ancora lontani, impegnati in una regata, e lei desiderò solo che non tornassero.
Eva si era messa a raschiare le incrostazioni di una conchiglia. L’operazione sembrava assorbirla totalmente.
D’un tratto si fermò.
«È bello, scopare?», chiese.
Mara ebbe un sussulto.
«Come?»
«È bello?», ripeté Eva. «Io sono vergine».
Il tono era pacato. Forse la ragazza cercava solo la confidenza di una donna esperta.
«Be', prima o poi lo saprai. Capita a tutte. Di fare sesso, intendo».
Eva si allungò sulla sabbia e distese le braccia. I capezzoli si drizzarono, ellittici come due pallottole.
«Rischi di ustionarti», le disse Mara. Poi distolse lo sguardo.
«Non mi hai risposto. Voglio sapere. Com’è?»
Mara pensò al corpo di Matias. «È come scoprire l’altra metà di noi stesse», rispose. Poi continuò in fretta: «Un po’ banale, se vuoi».
Le dita della ragazza si mossero adagio. Trovarono il corpo di Mara e si fermarono sull’ombelico. Lei immaginò la lingua di Matias frugarle la stessa cavità.
Eva sollevò di poco la mano, continuando a toccarla con i polpastrelli.
«Perché non ti togli il reggiseno?» chiese d’un tratto.
Mara sganciò in silenzio le bretelle del costume e rimase a petto nudo. «Contenta?»
«Brava,» approvò Eva. Si girò su un fianco e si chinò ansimando verso di lei. Aveva l’alito impastato di vino.
«L’uomo che vedo sempre con te, è tuo marito?»
«Sì».
«Da quanto sei sposata?»
«Sei anni».
«È stato il tuo primo uomo?»
Mara trasalì. «Sì», disse ancora.
«Scommetto anche l’unico». Eva non attese risposta. «Mettiti una crema» continuò, «sei tu che rischi di ustionarti». Si guardò in giro e trovò quello che cercava. Prese il tubetto della lozione solare e ne spremette un po’ su un palmo, poi le avvicinò la mano al seno.
«No», disse Mara. «Faccio da sola».
La ragazza s’irrigidì. «Ti dà fastidio che ti tocchi?»
«Che c’entra».
«Allora te la metto».
Le sue dita, con movimenti leggeri e circolari, cominciarono a massaggiare.
Mara taceva, guardando fissamente oltre il braccio di Eva.
«Mi piacerebbe farti un ritratto» le disse all’improvviso. «Un bel ritratto a olio. Peccato che qui non abbia il necessario».
«Oh!» disse Eva. Finì il lavoro e contemplò l’altra, soddisfatta. «Tu dipingi?»
«Sì. Mi piacerebbe ritrarti come sei adesso». Poi chiarì: «A seno nudo».
Gli occhi di Eva ebbero un lampo e Mara si diede della stupida. Si stava prestando al gioco di una ragazzina ubriaca.
«Potresti farmi il ritratto quando torniamo in Italia».
«Certo».
«E se non ci vediamo più?»
«Lo farò comunque. A memoria».
Eva sospirò, poi con un movimento rapido fu sopra di lei. Le sue labbra si fermarono vicinissime a quelle di Mara.
«Ci conto», le alitò in faccia.
La donna fremette sentendo l’odore dell’alcol. Se fosse provenuto da un'altra persona l’avrebbe disgustata. Invece in bocca a Eva l’eccitava.
Stettero entrambe immobili, ascoltandosi respirare. Gli occhi della ragazza adesso erano spalancati nei suoi, con la fissità tipica degli ubriachi.
Mara aspettava. La ragazza le spostò una ciocca di capelli.
«Ci conto», ripeté con voce roca.
Di colpo si sollevò. «Passeggiamo? Mi annoio».
Si allontanò di una decina di metri, poi si voltò facendo segno di seguirla. Mara osservò il mare. La linea dell’orizzonte era deserta, la regata doveva essere ancora in pieno svolgimento. Si sollevò a fatica. Sentiva una sensazione di svuotamento allo stomaco, come se avesse fame, e i suoi movimenti erano rallentati. «Ho preso troppo caldo», pensò. Cercò di raggiungere Eva, ma la ragazza aveva iniziato a correre, allontanandosi verso la parte più esterna della spiaggia. A un tratto la vide fermarsi, raccogliere un giglio selvatico poi, con una brusca inversione, tagliare in diagonale la spiaggia. Entrò in mare e con un tuffo scomparve sott’acqua. Mara ne intravide la figura scura nuotare sul fondo.
Vai, vai pure, così ti passa la sbronza, pensò. Si sentiva indispettita. Mi annoio, le aveva detto. Prima però si era divertita a stuzzicarla!
Seguì per un po’ la sagoma di Eva sotto il pelo dell’acqua, poi la perse di vista. Aspettò ancora.
Il mare riluceva tranquillo, quasi fermo sotto il sole a picco. Eva non riapparve. Stupida! pensò Mara. Stupida ragazzina viziata! Le venne voglia di andarsene e di lasciarla lì. Poi vide i titoli dei giornali: bambina ubriaca annega sotto lo sguardo indifferente di un adulto. Di colpo si mise a correre. Entrò in acqua stupendosi di sentirla fredda. Cominciò a nuotare.
Uno, due, respira!
Uno, due, respira!
Al «respira» sollevava il capo guardando davanti a sé, ma scorgeva solo la superficie piatta del mare, fino all’orizzonte. Aumentò la potenza delle bracciate, puntando verso un gruppo di rocce. Ricordava di aver visto Eva nuotare in prossimità degli scogli: la ragazza poteva aver sbattuto la testa ed essere svenuta. Magari era riuscita ad aggrapparsi a qualcosa, e non era andata a fondo.
Mara si concentrò sul ritmo del proprio respiro. Sentiva le braccia farsi pesanti, le gambe – il suo punto debole – erano già di piombo.
Non era mai stata una gran nuotatrice, andava al largo solo quando aveva qualcuno vicino – una paura dei crampi nell’acqua alta che non era mai riuscita a vincere. Si chiese come avrebbe fatto a trascinarsi dietro Eva, nel caso l’avesse trovata svenuta. Non doveva pensarci. Solo nuotare.
Le parve di vedere, in lontananza, la sagoma di una barca, forse qualche velista stava tornando alla base. Guardò meglio, e l’orizzonte tornò piatto come prima. In ogni caso, non sarebbero arrivati in tempo.
Sul fondale lunghe alghe scure si muovevano appena, come pigri tentacoli. Dovevano distare almeno dieci metri. Non sarebbe mai riuscita a immergersi così tanto. Ma se Eva era sul fondo, avrebbe dovuto farlo. Perlomeno avrebbe dovuto tentare.
Arrivò presso gli scogli e ci girò lentamente attorno. Poi si allontanò di qualche metro, scrutando l’acqua in profondità. Una selva di rocce taglienti le puntava contro. In quel mentre qualcosa le urtò la spalla. Mara urlò, pensando all’attacco di una bestia marina, forse il barracuda avvistato da qualcuno del campo.
Davanti a lei una mano fuoriusciva appena dall’acqua, facendosi cullare dalle onde. Le dita magre si aprivano e chiudevano dolcemente, come per dirigere un’orchestra. Mara squittì, incapace di credere all’orrore che le si spalancava davanti.
Dietro la mano apparve un braccio, poi una spalla arrotondata, ed Eva riemerse. «Te l’ho fatta!», strillò ridendo. Fece roteare le braccia e schizzò mulinelli dappertutto. «Hai avuto paura, eh?»
Mara non rispose. Si aggrappò a lei e strinse forte. Eva continuò a ridere, andarono sotto insieme, riemersero. La donna non la lasciò andare ed Eva cominciò a divincolarsi. Le gridò qualcosa e tentò di aprirle le braccia, ma Mara non mollò la presa. Vedeva i propri piedi lontanissimi dalle alghe, che invece la volevano afferrare e tenere giù. Andarono di nuovo sotto, dibattendosi entrambe.
Tutto le divenne appannato. Vide i capelli neri di Eva allargarsi come i tentacoli di una medusa. La ragazza aveva gli occhi in fuori, e li roteava come un’indemoniata. Mara strinse più forte. La bocca di Eva si aprì in un sorriso beffardo. Sta per uccidermi, pensò Mara.
Avrebbe voluto chiederle scusa per il terribile gesto a cui la spingeva, ma non riusciva a lasciarla andare.
Un colpo violento alla pancia le tolse il respiro. Si piegò in due allargando le braccia. Subito dopo un pugno in testa la stordì. Poi non ci fu più niente, se non la sensazione appagante che finalmente era finita.

Mara poggiò i gomiti e si mise a sedere. Si sentiva meglio. Le era rimasto solo il dolore al petto per tutta l’acqua che Eva le aveva fatto vomitare. Ma presto se ne sarebbe andato.
Non ricordava niente di quello che era successo dopo il colpo alla testa. Quando aveva ripreso i sensi c’era Eva china su di lei. Le stava premendo il torace con le mani e aveva gli occhi pieni di spavento.
La ragazza adesso riposava, il corpo rannicchiato contro il suo. Mara le scostò i capelli fradici dalla fronte e il viso le apparve innaturalmente piccolo, ancora più infantile. Sembrava appartenere a una bambina di appena dieci anni.
«Via, lasciami!», borbottò Eva. Ma forse sognava di essere ancora in acqua, e che lei la stesse affogando.
«Perdonami» sussurrò Mara.
Ecco, arriva l’impressione di star tralasciando qualcosa. È come un’urgenza, l’eco lontana di un bisogno a cui lei non ha mai dato ascolto. Si concentra su quel pensiero, tentando di dargli una forma, e intanto accarezza lievemente la nuca di Eva, cerca la fossetta sul collo dove mette le proprie dita, per rilassarla.
Le sembra finalmente di essere vicina a una risposta – il pensiero è diventato un’immagine, poi una sensazione precisa, che lei conosce bene, anche se non riesce a metterla a fuoco – quando si sente chiamare a gran voce.
Trasale, toglie in fretta la mano dalla nuca di Eva, e la sensazione svanisce, mandata in frantumi dal richiamo di Matias.

Da quando era arrivata al campo, Mara aveva la noiosa sensazione di aver trascurato qualcosa. Forse l’idea della perdita era legata alla vita libera che conducevano in quella baia isolata, praticamente inaccessibile da terra. Quel girare seminudi tutto il giorno, fare i propri bisogni nella sabbia, scavando un buco poco profondo, lavarsi con l’acqua ferma di una cisterna che rischiava di provocare infezioni se bevuta, dormire in tenda, o per terra, sotto le grandi stelle che riempivano gli occhi e il cuore – tutto la stupiva e la commuoveva. Solo Matias le sembrava sempre uguale – rumoroso e disponibile quanto bastava per ottenere l’approvazione altrui.
Lo osservò venirle incontro, raggiante, dopo aver portato la barca a riva. Probabilmente aveva vinto la gara. O forse no. Matias era sempre allegro, una cosa stupida come una sconfitta non gli avrebbe di certo cambiato l’umore.
Arrivò scuotendo tutto il corpo con la falcata delle gambe possenti. Si piazzò davanti a Mara e lei si sorprese a pensare che i peli che gli sbucavano dall’inguine avevano un che di eccessivo.
«Si dorme mentre gli altri lavorano?», domandò l’uomo guardando in tralice Eva.
A lui la ragazza non piaceva. «Una sciacquetta come tante», aveva commentato quando Eva era arrivata al campo, «ce l’ha scritto in faccia che vuole solo fartelo tirare».
«È ancora una bambina», aveva ribattuto Mara, «potrebbe essere tua figlia».
Matias aveva piegato il capo e si era dondolato adagio sui talloni. Era l’atteggiamento col quale manifestava di essere infastidito da qualcosa, e Mara capì che era stato l’accenno al figlio a irritarlo.
Difficilmente lei e Matias litigavano, nei momenti di tensione il marito riusciva a minimizzare le cose più terribili e alla fine anche Mara si ridimensionava, sebbene a volte, insieme al problema, aveva la sensazione di sminuire anche se stessa. Un giorno c’era stata una litigata furiosa, Matias si era incattivito, le aveva gridato che volere un figlio era puro egoismo, che lei si faceva condizionare dalla mentalità comune, cos’era diventata, una borghesuccia qualsiasi?, non vedeva i problemi sociali, non ricordava che il capitalismo si riproduce solo attraverso le guerre, che ne era stato della compagna che aveva sposato? C’erano troppi guai al mondo per ficcarci dentro un figlio, non ne avrebbe fatta di carne da cannone, lui.
Lei aveva guardato la pelle tirata del marito, gli occhi pallidi, la bocca torta in modo buffo, quasi stesse per scoppiare a piangere, e aveva deciso. Una settimana dopo aveva abortito in una clinica dai muri gialli e un orribile linoleum per terra. Matias era rimasto fuori della sala operatoria. Quando Mara l’aveva rivisto, le era sembrato di ottimo umore.
A volte però, se per strada vedeva una mamma con in braccio il proprio bambino, Mara si sentiva defraudata. L’impulso era di entrare in un negozio e comprarsi ogni sorta di cose inutili. Spesso lo faceva, ma la soddisfazione di aver sciupato i soldi di Matias durava poco. Allora passava in rassegna tutte le cose positive del suo rapporto, finché i bambini in braccio alle loro mamme ritornavano a lasciarla indifferente.
Matias si lasciò cadere sulla sabbia, continuando a osservare Eva con aria di disapprovazione.
«Chi ha vinto?»gli chiese Mara.
«Indovina», rispose lui, di nuovo allegro.
Lei fece quello che il marito si aspettava. Gli si accoccolò vicino come una gatta. «Complimenti al cocu!» disse.
Era una battuta che ogni tanto rispolveravano. Uno del campo, un italiano, durante una cena al ristorante di Bonifacio aveva detto quelle parole al cuoco, suscitando l’ilarità dei presenti. Il cuoco non si era risentito. Sentirsi dare del cornuto per ignoranza della lingua francese era una cosa che l’aveva fatto ridere. «Oui, je suis cocu, mon ami!» aveva commentato.
La frase magica funzionò anche quella volta. Matias l’attirò a sé. Mara si lasciò baciare. Intanto osservò Eva. La ragazza era sempre nella stessa posizione, le gambe rannicchiate contro il petto. Sembrava dormire profondamente.
A poco a poco arrivarono anche gli altri. Il primo fu Lubo. Scese con un salto dal vaurien e per il contraccolpo il pene gli si sollevò sfiorandogli il pube. Indossava il solo giubbotto di salvataggio. Lubo era l’unico del campo che girasse completamente nudo. Mara desiderò toccare il cespuglio biondo che gli ombreggiava i genitali: sembrava fatto di lanugine, e al tatto doveva essere ugualmente morbido.
Eva si alzò subito per andargli incontro. Dunque, prima fingeva.
Camminò pigra, togliendosi con indolenza la sabbia dal petto. Come fu vicina a Lubo gli gettò le braccia al collo. Lui la respinse infastidito. «Matias!» gridò a gran voce, «se continui così ti voglio con me alla Giraglia!»
Matias emise una risata chioccia. Lubo era uno skipper famoso, e partecipare con lui a una regata importante come la Giraglia sarebbe stato un onore. Nonostante questo, Mara provò imbarazzo per l’evidente soddisfazione del marito.
La piccola spiaggia si riempì di barche e richiami. Mara andò a suonare il gong per il pranzo. Quel giorno era toccato a lei e a Eva prepararlo. Invece di aiutarla la ragazza era sparita. Mara non l’aveva cercata, cucinare era una faccenda che preferiva sbrigare da sola. Aveva preparato della pasta fredda e un’insalata di mare, poi era andata a sdraiarsi sulla spiaggia.
Arrivata in cucina vide che una delle caraffe di vino era quasi vuota. Istintivamente pensò di allungarla con l’acqua. Poi si diede della stupida. Meglio lasciare le cose come stavano, tutti si sarebbero accorti che il vino era annacquato.
Eva si era seduta a capotavola. Infilzava svogliatamente della polpa di granchio e di tanto in tanto guardava Lubo. Lui la ignorava ostentatamente. Mara si chiese se tra loro ci fosse stato qualcosa.
No.
Com’è scopare, le aveva chiesto Eva. Poi aveva aggiunto, sono vergine.
Forse allora qualche bacio. Magari un po’ spinto, ma niente di più. Oppure non c’era stato niente. Non ancora, perlomeno.
Non ancora, si ripeté Mara.
Concentrò la sua attenzione su Lubo. A giudicare dalle rughe doveva essere vicino alla quarantina. Il viso era magro, sottile, e il naso lungo e storto lo deturpava. Se non fosse stato per quelle natiche sode, e per la lanugine bionda del pube, Mara non lo avrebbe mai preso in considerazione. Invece ultimamente lo sognava. Entrava furtivo nel suo sonno trasformandosi ogni volta in un'altra persona. Ora aveva la faccia di Matias ma lei sapeva che non era Matias che la stava scopando. Ora era un cagnolino che lei trovava per strada, poi ancora era suo padre. Lei si faceva scopare da Lubo senza raggiungere mai l’orgasmo, e la mattina si svegliava sfinita dal desiderio.
Adesso si chiedeva se delle natiche sode fossero un motivo sufficiente per desiderare un uomo. Non aveva mai desiderato Matias in quel modo.
Suo marito era un buon compagno di strada, avevano la stessa visione del mondo, insieme a lui la vita pareva tutta una discesa.
E poi la faceva ridere.

Degli energumeni con dei cani al guinzaglio apparvero sulle dune, e Lubo andò loro incontro. Confabularono per un po’, poi l’olandese tornò sui propri passi. «Tutto a posto, possiamo rimanere».
Si rivolse agli italiani e aggiunse: «Mi raccomando, ragazzi, non andate in giro, dobbiamo stare solo sulla spiaggia».
Le guardie si allontanarono verso l’interno dell’isola, e presto furono inghiottite dalla macchia. Mara sospirò. Nonostante le rassicurazioni di Lubo, aveva temuto che quei gorilla non concedessero loro di fermarsi: la baia che li ospitava era incantevole, le montagne, ricche di vegetazione, si specchiavano nel mare che riluceva dello stesso colore verde; l’acqua era talmente ferma che sembrava di essere in un lago.
Aveva lasciato il campo base con gli altri velisti il mattino stesso, per una navigazione che li avrebbe tenuti lontani tre giorni. La prima tappa era stata l’isola di Cavallo, di proprietà dei Savoia.
«Proprietà privata del vostro mancato re», aveva detto Lubo sfottendo gli italiani. «Dovevate far fuori il padre, invece di lasciarlo scappare all’estero con tutti i soldi. Imparate dai francesi, loro sì che sono persone serie, pas vous, les sales ritals!»
Matias aveva approvato con una gran risata, ignorando l’epiteto offensivo, e Mara si era ritrovata a fissare ostentatamente il pube dell’olandese.
Si faceva buio. Sistemarono le barche, calarono le vele e le piegarono per usarle come coperte durante la notte, poi prepararono un falò per arrostire il pesce; Lubo accostò l’accendino e la legna prese fuoco. Si avvicinarono tutti, e per qualche minuto l’osservarono divampare in silenzio.
Nonostante il fuoco Mara si sentì rabbrividire. Prese una vela e ci si avvolse. Si lasciò cadere a pancia in giù, intrecciò le mani a coppa e ci appoggiò il mento. Da quella posizione cercò Matias. Scorse invece Eva, seduta accanto al falò.
La ragazza girava lo sguardo attorno, irrequieta, cercando qualcuno. Il fuoco le illuminava il viso, gettandole luci guizzanti sotto gli occhi. I capelli scarmigliati formavano una matassa scura resa ancora più voluminosa dalle ombre inquiete della notte. Sorrideva a fior di labbra, lo stesso sorriso beffardo – parve a Mara – che aveva avuto sott’acqua.
Mara chiuse gli occhi. S’immaginò di andarle vicino e di strattonarla, di gridarle Sei una stupida, ti si legge in faccia che muori dalla voglia di scopare, e la parte l’hai destinata a un vecchio, a Lubo, uno che ha l’età di tuo padre. Solo perché gira con le chiappe dure e l’uccello in fuori! Lui ti farà male. Ti prenderà e ti farà male. Approfitterà del tuo corpo. Si prenderà tutto di te, anche la più piccola goccia di sudore. E tu soffrirai. Non sai quanto. Hai solo quattordici anni, piccola mia. Sei ancora un cucciolo indifeso. Lui, invece, gli artigli li ha ben lunghi.
Quando li riaprì vide una mano appoggiata sulla spalla di Eva. Accanto, una sagoma appena più scura della notte. Mara riusciva a distinguerla solo a tratti, quando il fuoco si allungava a rischiararla.
Si concentrò su quei contorni, cercando di individuarne la zona di confine col buio. Per un po’ ebbero la stessa consistenza, poi Eva si alzò, e Mara capì che l’ombra non sarebbe più riapparsa. Il diavolo aveva alla fine emesso il proprio richiamo. Osservò Eva entrare nel muro nero alle sue spalle, e sparire. Contò fino a dieci, poi si avviò nella stessa direzione. Probabilmente la ragazza stava andando dove erano attraccate le barche, il posto più tranquillo per appartarsi.
Dopo pochi metri il buio fu assoluto, Mara non riusciva a scorgere neanche il chiarore delle proprie mani. Proseguì ancora per una ventina di passi poi si voltò a guardare il fuoco. Brillava lontano, sempre più fievole.
Dove stava andando? Se si fosse persa, se si fosse allontanata dalla spiaggia, quegli uomini vestiti di nero non ci avrebbero pensato due volte ad aizzarle contro i cani. Le parve di sentirli nei dintorni, fiutare silenziosi l’aria, in attesa.
La sensazione di pericolo le si appiccicò addosso, umida.
«Torno indietro», si disse.
Fu allora che udì lo sciabordio. Sottile, ritmico, paziente nel suo eterno movimento. Che stupida a non averci pensato prima, se costeggiava il mare non poteva perdersi!
Proseguì, seguendo il parlottio dell’acqua alla sua sinistra. Camminò per un tempo che le sembrò interminabile. E se loro non fossero andati verso le barche? Perché ne era stata subito così maledettamente sicura?
D’improvvisò intravide davanti a lei una macchia tenue, opalescente, i cui contorni tremolavano, smuovendo l’oscurità circostante. Pareva una grossa bestia accucciata, pronta a balzarle alla gola.
Dunque, stava per succedere. Si fermò terrorizzata, aspettando l’attacco.
Nel buio sentì nitidamente la voce dell’uomo. Diceva: «Adesso ti piace, adesso non senti più male, vero?»
Poi i gemiti di Eva: «Sì», diceva, «sì».
E ancora: «Così, così».
La forma si scompose, la parte superiore si allungò indietro, poi ritornò al centro, divenne più schiacciata, di nuovo si scompose. Mara comprese che la parte sopra era il corpo – di lui, di lei? – a cavalcioni dell’altro.
«Ti piace, ti piace?», ripeteva l’uomo. La voce gli moriva in gola nello spasimo di trattenere l’orgasmo.
Mara chiuse gli occhi. La macchia opalescente rimase impressa qualche istante nella sua retina, poi si dissolse. Sentì ancora Eva squittire «sì», e Matias ripeterle «ti piace». Allora si voltò per tornare indietro.
Devo stare attenta a non fare il minimo rumore. Il mare ce l’ho sulla destra, se vado sempre dritto arriverò al falò, dove ci sono gli altri. Poi mi ficco dentro una vela e dormo. Dormo tutta la notte. Sarà il mio sudario. Bagnato di mare e di sperma. Chissà quanti ci hanno fatto l’amore nascosti in quelle vele. Chissà in quale viaggio. Chissà in quale vita.
Rise dei suoi pensieri. Erano malati, come lei. Si fermò davanti al mare e spalancò le braccia, sollevandole contro il cielo.
«Chissà in quale vita!», gridò più forte che poteva.
La sua voce risuonò perfetta nel silenzio, un cristallo limpido che tagliava l’aria. La sabbia bagnata era tiepida e sensuale sotto i piedi, le annunciava un bagno altrettanto piacevole. Il suo corpo era tutto un prurito.
Mara si tolse il reggiseno e gli slip ed entrò in acqua. L’abbraccio fu istantaneo, morbido e accogliente come aveva previsto. Cominciò a nuotare nel buio dirigendosi al largo. Il rumore secco delle sue braccia che rompevano l’acqua le fu di conforto, significava che era ancora viva. Si concentrò di nuovo sul ritmo del nuoto.
Uno, due, respira!
Uno, due, respira!
L’oscurità davanti a lei era una grande vulva nera, immensa come il buio che la circondava.
«Arrivo», disse Mara.
Nuotò con forza verso quel globo di carne che l’aspettava.
Si immerse.
Non c’era molta differenza tra il sopra e il sotto. Solo i rumori. I rumori erano cambiati. Sentiva nitidamente il suo cuore battere all’unisono con il mare. L’aria cominciò a mancarle.
Non voglio risalire. Non ancora.
Pensò a quello a cui aveva assistito sulla spiaggia. La petite mort. Chi aveva definito l’orgasmo in modo così sublime?
Si lasciò andare alla massa d’acqua.
Giù.
Le gambe si ostinarono ad allargarsi, e il mare la respinse in alto. Con un colpo di reni lei forzò la discesa, ma sembrava che una mano la respingesse in superficie contro la sua volontà.
La petite mort, ripeté Mara, e aprì la bocca per bere.
E di colpo fu tutto evidente.
Adesso sa che cosa ha lasciato in sospeso: ha ridotto il suo problema a fantasie inutili, a sogni inquieti del dormiveglia che al mattino non si ricordano più. Deve correre a comunicarlo a Matias. Dirgli che non è più intenzionata a rinunciare a un figlio. Piuttosto rinuncerà a lui. Alla sua tacita richiesta di ridurre tutto ai minimi termini, anche le emozioni più importanti, per poi poterle ridicolizzare e dire che può farne senza. Lei no. Lei vuole rischiare. Vuole poter soffrire per qualcosa che ne valga la pena. Lei vuole un figlio, ne vuole uno, due, tanti. Vuole sentirsi la pancia scoppiare per una nuova vita, sfornare bambini come un’ape industriosa, lasciare qualcosa dietro di sé, e poi ancora qualcosa, e poi ancora, in un’eco lunghissima che sconfigga la morte percorrendo i secoli, vuole pensare che i suoi occhi, le sue mani, la sua voce ritornino in un’altra che non sarà lei, ma che esisterà solo perché lei è esistita. Ecco, deve parlare di questo con Matias. In fretta, prima che le forze l’abbandonino.
Tese le braccia in alto, diede un calcio vigoroso all’acqua e tornò in superficie. L’aria le schiaffeggiò con violenza i polmoni.
Si mise a pancia all’aria, con braccia e gambe allargate. Rimase così, un tronco di carne da cui spuntavano due rami per parte che la tenevano a galla. Il cielo era pesante sopra di lei. La sua coperta.
Dormirò, pensò Mara.
Chiuse gli occhi. Nel silenzio le parve di sentire gridare il suo nome. Poi ancora.
Mara, Mara, Mara!
Lontano, quanto lontano non avrebbe saputo dirlo, una luce si accendeva e spegneva.
Mara, Mara!
«Matias!», urlò lei.
Prese a nuotare con forza verso la salvezza. Nuotava e piangeva. Matias non l’aveva abbandonata. Sarò un bravo compagno di strada, le aveva detto. Aveva mantenuto la promessa.
La luce diventava sempre più luminosa, una stella di ghiaccio nel buio, se allungo una mano riesco a prenderla, uno sforzo ancora e la prendo, la lancerò in aria attraverso la notte, e io e Matias ci giocheremo come due bambini innocenti. Ti prego, Matias, aspettami!
Sentì Matias tuffarsi che era ancora lontana. Lo sentì ansimare verso di lei, avvertì la forza delle sua stretta, il corpo possente che la sosteneva. Si mise supina, lasciandosi portare a riva. Vide il cielo pesarle di nuovo addosso, ascoltò lo sciabordio dei propri capelli nelle onde, infine il calore della sabbia sotto la schiena, e la voce di Matias che le chiedeva come stava.
Al chiarore della torcia le sembrò pallidissimo.
«Ti ho sentita gridare qualcosa nel buio, poi entrare in acqua, poi ho capito che ti stavi allontanando da riva. Che è successo, Mara?»
Lei non rispose. Guardava in alto, oltre il viso del marito, dove il cielo si apriva al chiarore della Via Lattea. «Ho freddo», disse.
Matias si adagiò sopra di lei.
«Coraggio, è tutto passato. Adesso ci sono io».
Poi, stupito. «Non hai niente addosso».
«Già».
«Stai bene, Mara?»
«Sì».
«E il costume?»
«È in mare».
La osservò con più attenzione.
«Stai bene, Mara?», le chiese ancora.
«A meraviglia», rispose lei.
Pensò ch’era davvero buffo. Stava ripetendo le stesse parole del giorno prima. Solo che il giorno prima c’era Eva.
Adesso lui si sarebbe chinato a baciarla. Non si stupì di sapere che l’avrebbe fatto. Non si sarebbe stupita più di niente, da quel momento in poi.
Matias la baciò.
«Scopami, Matias».
«Qui?», chiese lui soltanto.
«Sì. Qui».
L’essere completamente nuda – sentirsi così nuda – le sembrava una cosa straordinaria, il suo vero punto di forza, come se acquistasse di significato solo in quella dimensione.
Attirò a sé il marito, sentì il suo sesso diventare duro e finalmente si rilassò.
Si sarebbe riappropriata di quello che era suo. Di ogni centimetro della pelle di Matias. Delle sue carezze, della sua lingua, della stretta delle sue cosce.
E di Eva. Dei suoi capelli intrisi di mare. Del suo alito aspro. Dei suoi umori, ancora caldi sul pene di lui.

«Ottimo lavoro. Davvero».
Eva Leandri le restituì il raccoglitore con un sorriso.
«Credo si possa organizzare qualcosa, noi due. Magari un’esposizione in uno spazio aperto. Che ne dici?»
«Sarebbe meraviglioso», rispose Mara.
«Alcune tue opere richiamano esplicitamente delle forme naturali. Pensavo d’inserirle in un parco, o forse in uno spazio più importante. Magari la Rotonda della Besana. Vedremo. Prima voglio visionare i tuoi lavori. Dove hai lo studio?»
«In corso Como. Ma la maggior parte li tengo smontati in un capannone in zona Navigli, qui vicino».
«Ottimo. Forse riesco a farci un salto la settimana prossima. Mi lasci il tuo recapito telefonico?»
«Sì», disse ancora Mara.
Era stordita dalla piega frettolosa che stavano prendendo gli avvenimenti, dalla piccola stanza inondata di luce, dalla donna grassa davanti a lei che aveva curiosamente gli occhi di Eva.
Aprì la borsa e frugò cercando un foglio e una biro. Come al solito era senza biglietti da visita. Mentre scriveva, l’album le scivolò dalle ginocchia e cadde a terra con un tonfo.
«E quello?», chiese Eva.
«Oh, niente. Fotografie di lavori vecchi. Quadri a olio fatti tanto tempo fa».
«Coraggio, dammelo».
«No», disse Mara. «Non è il caso».
Eva la guardò e a lei parve che la stesse deridendo perché sapeva già tutto. Glielo porse.
Le pagine cominciarono a scorrere una dietro l’altra. Qualche volta Eva si soffermava, faceva un’osservazione, un complimento, poi proseguiva.
Mara contava mentalmente i fogli che mancavano all’arrivo del ritratto.
Ancora due pagine. Si ferma. Sta guardando il dipinto del gatto e del vecchio. Il muso nero del gatto è in primo piano, gli occhi gialli, un po’ obliqui, fissi sullo sguardo di chi osserva. Il gatto è messo in diagonale, a formare una croce con la mano dell’uomo.
Una pagina. Il dipinto di una donna che si toglie una maschera. La maschera riporta i lineamenti del viso e il viso scoperto rivela una maschera veneziana. Lei non commenta. Prosegue.
Il suo ritratto.
Mara trattenne il respiro. Eva era concentrata sul foglio, col capo chino. I ciuffetti di capelli le cascavano in giù, rigidi. Una ruga profonda le solcava la fronte.
Ci fu un lungo silenzio. Poi Eva alzò il capo.
«Dunque, hai mantenuto la promessa», disse.
«Sì», rispose Mara.
Eva guardò la ragazzina del ritratto.
«Mi avrai trovata molto diversa. Sono passati quasi venti anni».
«Sì», disse ancora Mara.
Eva tacque. Le sue labbra si contrassero in una smorfia che voleva essere un sorriso.
«E tuo marito?… Non ricordo il suo nome… »
«Matias».
»Già, Matias. Come sta?»
«Ci siamo lasciati qualche anno dopo. Non l’ho più visto. Adesso sto con un altro. Abbiamo due figlie».
Tacque e anche l’altra donna rimase in silenzio. Mara ne avvertì l’ostilità. Poi Eva chiuse l’album con un colpo secco.
«Avevi ragione tu. Sono cose superate. Bei lavori, ma non hanno la forza delle sculture che fai adesso. Insisti su quelle».
Glielo tese e Mara la ringraziò. Non avevano più niente da dirsi.
«A presto, allora».
Prese l’album, il raccoglitore, la borsa e si alzò.
«Aspetta, ti accompagno».
Il caffettano viola frusciò sibilando contro la sedia, e la donna la precedette fuori della stanza. Aveva le spalle rilasciate, come quelle di una vecchia.
Arrivata alla porta le tese in fretta la mano. «Ci vediamo, allora».
«Sì», disse Mara. Uscì senza voltarsi. Ascoltò il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle e invece di prendere l’ascensore scese la prima rampa di scale. Al piano sottostante si fermò e si sedette sugli scalini. Aprì l’album. I seni nudi di Eva riempivano lo spazio, vibranti di colore, sembravano supplicare di essere toccati.

Qualcuno mi sta scuotendo. Apro gli occhi e vedo Eva sopra di me. Il suo bel viso è preoccupato. Vorrei baciarla, ma non ho la forza di sollevarmi. Però sto bene. Mi sento in pace. Perché Eva non mi lascia tranquilla?
Mi domanda «come ti senti». Continua a scuotermi il petto, il dolore mi si irradia sino al ventre. Poi capisco che mi sta facendo un massaggio cardiaco.
«Va meglio?» mi chiede. È tesa, mi guarda angustiata. «Parla, ti prego! Come ti senti?»
«Bene. Ti amo», rispondo.
«Mi hai fatto prendere un accidenti. Un accidenti! Pensavo ch’eri morta. Come ti senti?»
«Bene», le dico di nuovo. Desidero solo veder sparire la ruga dalla sua fronte e aggiungo: «Sto a meraviglia».
Eva smette di torturarmi il petto. Per un po’ ci tiene le mani appoggiate, poi mi sposta delicatamente i capelli dalla fronte. Mi mette una ciocca dietro l’orecchio.
Ancora, vorrei dirle, fallo ancora!
«Mi sono presa una paura!... Non sai quanta acqua hai vomitato. Non respiravi, accidenti, t’ho fatto la respirazione bocca a bocca e il massaggio al cuore, ma tu continuavi a non respirare…»
«Sei stata brava», le dico.
Lei ha un piccolo sorriso fiero. «Mio padre è medico. Mi ha insegnato lui».
Si china di nuovo su di me. «Come stai? Sicura di stare bene?»
«Sì», le dico.
Eva mi osserva, sembra non fidarsi.
«Hai freddo?»
«No. Davvero, sto bene».
Per tranquillizzarla punto i gomiti e mi siedo.
Non le sto mentendo, mi sento davvero bene, a parte i dolori al petto e allo stomaco. Ma forse è per l’acqua che ho bevuto. Passeranno presto.
Sorrido a Eva con aria colpevole.
«Scusami. Ti stavo affogando».
«No. La colpa è mia. Sono stata una stupida. Non dovevo spaventarti a quel modo».
Mi mette una mano sulla fronte, poi la ritira, allarmata. «Scotti», dice.
Io faccio una risatina. Mi viene fuori uno squittio che rivela quanto sono felice. «Mi stai facendo da mamma? Sto benissimo, davvero. E comunque al campo abbiamo una farmacia al gran completo».
Eva mi fissa, incerta. Forse le dispiace che le sue mansioni d’infermiera siano già finite. Ha i capelli incollati al viso. Alcuni le rigano le guance, come rughe sottili. Mi ricorda l’Ofelia col viso bianco e i capelli scomposti che ho dipinto anni fa. Per fortuna Eva non ha fatto la sua fine.
«Scusami», le dico ancora.
Poi mi sento stanca. Mi sdraio e chiudo gli occhi. Mi fa piacere sentire la sabbia rovente sotto la schiena. Sono ancora viva.
Eva non dice più niente. Si sdraia accanto a me. Poi mi abbraccia. Ho l’impressione di avere un cucciolo caldo sul cuore.
Sento una pressione improvvisa sulle labbra. Il suo corpo che mi cerca.
L’urgenza delle sue piccole mani.

Mara si alzò e scese a piedi le scale rimanenti.
Quando uscì dal portone scoprì che stava diluviando. Milano respirava a fatica nell’improvviso acquazzone estivo. Si coprì la testa con i raccoglitori e nel farlo si accorse di stringere in mano un pezzo di carta. Sopra c’era scritto il suo numero di telefono. Non si era neanche accorta di averlo tenuto stretto in pugno sino a quel momento.
Si avvicinò a un cestino e lo buttò via. Poi strappò dall’album la foto di Eva, la fece a pezzi e buttò via anche quella.
Avrebbe voluto dire a Eva tante cose. Che con lei aveva superato un limite e che era stata felice. L’unica volta che lo era stata senza rimorsi né incertezze.
Si coprì di nuovo il capo e corse veloce verso la fermata del tram.
Il 15 l’avrebbe portata nei pressi del capannone, dove teneva tutti i suoi lavori. Non avrebbe faticato a trovare il quadro. Non l’aveva mai imballato.
Era sempre stato appeso al muro, a sinistra, appena si entrava.

© 2009 Cynthia Collu