Azzurra D’Agostino, Essere il capitano



IIl medico si avvicinò alla bambina e lei pensò che il suo fiato odorasse di formaggio, o forse di ragù, e che la sua pelle avesse qualcosa di unto. Ma non era questa, forse, la cosa fastidiosa; quello che la metteva a disagio era il fatto che le facesse male.
Azzurra D'Agostino
Azzurra D’agostino ha pubblicato le raccolte poetiche D’in nci’un là (I Quaderni del Battello Ebbro, 2003) e Con ordine (Lietocolle, 2005). Suoi racconti e interventi critici sono stati pubblicati su varie riviste e antologie (tra cui Bloggirls, Mondadori, Best off 2006, minimum fax e In un gorgo di fedeltà, interviste a venti poeti italiani, Il ponte del sale 2007). È giornalista pubblicista e scrive per il teatro.
E che dopo sarebbe dovuta uscire all’aria aperta con quella sensazione di stordimento addosso, con l’occhio che le pungeva e la luce del sole trasformata in spine.
Bendata e malconcia e stranamente oppressa: qualcosa che la strappava al suo essere bambina.
Ogni volta cercava di fare finta di niente, che tanto sarebbe passato presto; ma un giorno che era uscita dall’ospedale con l’occhio buono vide un gatto con la coda annodata correrle davanti nel vialetto e qualcosa cambiò. Per la prima volta ebbe un presagio.
«Perché quel gatto ha un nodo nella coda?», chiese a sua madre camminando.
«Non lo so, glielo avrà fatto qualcuno».
«E che cosa non doveva scordare?»
«I nodi per ricordare si fanno ai fazzoletti, non ai gatti. Non si fanno queste cose. Il gatto ha male».
Il gatto correva sbilenco e lei pensò che fosse nelle trame di un ben magro destino; e per una qualche misteriosa ragione che non sapeva spiegare lo sentiva affine. Inventò qualcuno che faceva il nodo, e il gatto che urlava.
Poi però immaginò che il gatto sarebbe riuscito a sciogliere da solo quel nodo. Subito dopo pensò che anche lei aveva un suo nodo da sciogliere, e sentì di essere così vicina a quel gatto spelato come non lo era mai stata con nessuno. Non era come con le sue amiche: era felice con loro.
Lì con quel gatto invece era come essere uguali, senza averlo scelto e senza trovarlo bello, la cosa che vorresti meno al mondo. Essere come un gatto randagio e menomato. Chi lo vorrebbe? Eppure era così. Sentiva che tutta quella faccenda sarebbe stata più dura di quanto aveva creduto. E anche lei allora sarebbe stata dura, si disse, dura come la pietra. E avrebbe odiato o picchiato chiunque l’avesse presa in giro.
Comprese quel giorno che non era solo l’alterazione dei suoi sensi, a cambiare il mondo; era il mondo stesso a cambiare verso di lei. Qualcosa sembrava deridere la sua improvvisa infermità: la pianura verdeggiava e altri bambini scoppiavano di vita; il sole splendeva e tutto era incredibilmente bello come sempre. Persino lì all’ospedale, tra i rami dei radi alberi del giardino, giovani ali volavano frusciando, e tutto era in ordine come se niente fosse. Lei si sentiva infelice però, fuori posto, e non se lo sapeva spiegare. Infelice perché qualcosa non tornava: per qualche strana ragione non riusciva a guarire. Evidentemente dipendeva da lei, questo era chiaro. Aveva visto decine di dottori, e questo le aveva fatto capire in modo lampante che era lei ad essere strana, a non avere una malattia come le altre. I dottori seguivano tutti un percorso che conosceva a memoria, e che evidentemente era la norma: le facevano le visite sempre nello stesso modo (tranne un omeopata che – aveva sentito da sua madre – costava carissimo), poi dicevano tante cose con vari nomi lunghi, ma in genere tutte queste cose significavano solo che non avevano la minima idea di cosa lei avesse; quindi le prescrivevano una cura.
Nelle settimane successive alle visite, iniziava un calvario ogni volta diverso: prima i colliri, poi le pomate, quindi la dieta che la ridusse pelle e ossa; varie volte le avevano dato anche delle punture, prima sul sedere e dopo – per quelle al cortisone – sul collo. Aveva sentito dire (forse dalla vicina di sua nonna, che ogni pomeriggio veniva a casa a parlar male del condominio) che il cortisone gonfiasse le persone fino a renderle dei mostri. La cugina della vicina pare si fosse gonfiata a tal punto da confondere la testa col collo. Questa cosa le aveva fatto una certa impressione e temeva, più ancora del dolore, che quelle iniezioni l’avrebbero resa una di quelle strane creature isolate, quelle a cui a scuola non parla mai nessuno. Come la Alberici, con la sua seconda di reggiseno in quarta elementare, e tutta quella pelle butterata e quei capelli unti e quei vestiti vecchi e quei genitori ancora più vecchi. Questo non sarebbe accaduto. Non sarebbe mai stata come l’Alberici, con la rassegnazione a dipingere le pieghe della bocca, e quella voce mesta e quella paura a dire ogni cosa che tanto la irritavano. Le sembrava di intuire che l’unica cosa da fare fosse andare avanti, e fregarsene; fare le cure anche se non funzionavano e restarsene in quella sua certezza di avere solo un accidente passeggero.
Ora era il momento di questo vecchio che puzzava leggermente, e lei gli avrebbe dato retta, anche se aveva la tentazione di odiarlo per quello che le faceva. Ma poi pensava che lui non voleva farle male, anzi sua mamma diceva che i medici vogliono farti bene, e questo ovviamente cambiava le cose. Lui faceva semplicemente quel che doveva, senza sforzarsi di essere gentile, né buono né cattivo; era soltanto un dottore.
Il fatto che fosse zoppo non la impietosiva, né glielo faceva sentire più vicino, come era stato per il gatto annodato; anzi, vedere la sua figura claudicante spuntare col bastone in fondo al corridoio, settimana dopo settimana, aumentava la sua brutta sensazione di un mondo pieno di inciampi.

La bambina restava sola col medico in una stanza del sotterraneo con delle spesse porte di metallo. Si sentiva un eroe catturato e torturato in un bunker, anche se questo senso di avventura non bastava a toglierle la paura. Sua madre non poteva entrare, e la guardava da una feritoia tipo quella delle celle dei carcerati. A volte si girava dall’altra parte, sembrava impressionata. Il vecchio stava chino su di lei, preparando quella macchina, sua madre dietro al vetro, l’odore di disinfettante, il freddo del metallo, il duro del lettino, l’ordine di stare assolutamente immobile. A un certo punto restavano sole, lei e la macchina. Solo il suono di un braccio meccanico, e quell’essere pervasa da serpenti di fuoco, e non vedere niente da una parte e dall’occhio buono vedere dietro al vetro la faccia pallida di sua madre e il dottore che non sorrideva mai e che voleva che stesse ferma, immobile come morsicata da un ragno velenoso. Le mani le sudavano e stringeva forte i pugni e dentro si diceva orafinisceorafinisceorafinisceorafinisceorafinisce e dopo un po’ davvero finiva e lei si sentiva svaligiata e stanca e voleva un teletrasporto per essere già nel suo giardino, ma il teletrasporto non lo avevano ancora inventato e questo la rendeva triste. Perché poi doveva camminare su per le scale, un po’ barcollando come dentro la pancia di una nave, uscire al sole accecante cercando di parlare di niente e poi l’autobus, correre sennò riparte, e quelle persone dentro pigiate che le sembrava la guardassero tutte e la facevano sentire strana e scendere e prendere il treno e in treno stare seduta e zitta. La mamma le comprava, come premio perché era stata buona, uno dei suoi giornali a fumetti, e – anche se non avrebbe dovuto leggere per non stancarsi – lo finiva in genere nella prima mezz’ora di viaggio, un vero record.

Il paese in cui abitava era un agglomerato di case gettate sulla valle come una manciata di spiccioli. C’erano due chiese, una farmacia, una piazza e una scuola. Nella sua classe erano diciotto, di varie età, e la maestra (una donnetta energica coi capelli cotonati) faceva lezione ai bambini dalla prima alla quinta tutti insieme. Il più grande tra loro era Tito Perdetti, da tutti chiamato Il Scimmia, per via di una faccia schiacciata tagliata da due labbroni in fuori. O forse non si sa, forse non era nemmeno per quello che lo chiamavano così; è che quando ti viene appioppato un nome, da bambino, ti pesa come un macigno e finché sei piccolo non hai la forza di togliertelo di dosso. Il Scimmia aveva digerito il suo a suon di botte date e prese, tanto che era riuscito a farsi portare rispetto e a far dimenticare l’ironia con cui lo avevano appellato la prima volta, quando era ancora in seconda. La maestra non riusciva a tenerlo buono, e quasi ogni giorno lo sottoponeva alla "saponata", una punizione temuta come tremendo affronto e dolorosa umiliazione da quasi tutti i bambini della classe. Ma non dal Scimmia. Si prendeva le sue saponate con un gusto che era un piacere vederlo; il che ovviamente irritava ancor di più la maestra, perché con il suo ostentato sorriso sminuiva il tono del supplizio. La saponata consisteva nell’essere immobilizzati da un braccio della maestra, mentre con la mano rimasta libera, chiusa a pugno, sfregava le nocche sul cuoio capelluto. Non era particolarmente doloroso, in realtà; era più che altro considerato molto umiliante. Ma Il Scimmia pareva non avesse questo orgoglio, anzi: sembrava tanto più orgoglioso di sé quanto più pesanti erano le umiliazioni e le punizioni che riceveva. Nonostante questo, e nonostante i ripetuti cadaveri di rospo, topo, lucertola, grillotalpa e varie altre bestie che la maestra si ritrovava sulla sedia o nei cassetti della cattedra, lei gli voleva a suo modo molto bene. In un modo sano, non pietoso o sufficiente: Tito è un bambino intelligentissimo, rispondeva alle altre maestre durante la ricreazione, quando queste le chiedevano come facesse a tollerare i suoi scherzi cattivi; e questa risposta sembrava bastare e si cambiava discorso.

Una mattina la bambina rientrò in classe, dopo alcuni giorni di assenza per via del tentativo di un dottore che aveva voluto operarla. Aveva ancora nel naso gli odori pungenti e inumani della sala operatoria, la sensazione della mano dell’infermiera da stringere forte forte, il verde asettico del telo con cui l’avevano coperta, perché non vedesse niente per lo meno con l’occhio buono. Era voluta tornare a scuola quanto prima, perché a casa pensava troppo, nelle lunghe ore in stanze buie, e si sentiva sola e diversa e non voleva. La mamma spiegò alla maestra che la luce era un problema, che dava fastidio, e dunque la maestra salì su una sedia e svitò la lampadina del lampadario sopra al banco della bambina. Per il suo rientro in classe avevano creato un cono d’ombra solo per lei. Quando varcò la soglia dell’aula, per la prima volta portando avanti la sua faccia bendata, le sembrò che calasse un silenzio strano, come concentrato tutto sul suo volto; forse non era nemmeno vero, ma le parve che il suo intero piccolo mondo fosse tutto intento a guardare stupito e attonito la sua benda sull’occhio. In effetti molti la guardavano, studiandola, chiedendosi se in effetti questa bambina con quasi metà faccia coperta fosse la stessa con cui giocavano di solito, o se questo cambiasse le cose in modo definitivo. Persi in questo pensiero, perché colti di sorpresa da un improvviso mutamento del noto, i bambini tacevano – nessuno le diceva nulla.
Poi si sentì, sonora come un grido di piazza, una voce da un angolo dell’aula scandire beffarda: «Toh! È arrivato Capitan Harlock!»
La tensione evaporò in uno scoppio di risate. La bambina si sentì arrossire la parte libera della faccia e con l’occhio buono guardò in direzione della voce: era stato Il Scimmia. L’occhio buono era lucido di rabbia e lei avrebbe voluto saltare addosso a quel ragazzino maledetto, anche se era più grosso di lei, e riempirlo di calci, pugni, graffi, fargli sentire fisicamente tutto l’uragano di violenza in cui l’aveva gettata con quella frase cretina. Anche l’Alberici rideva, adesso, come se i lunghi anni di isolamento non fossero stati altro che la preparazione a una situazione come questa: una lunga attesa del momento in cui poter infine essere uguale a tutti gli altri, una voce del coro, e deridere con loro qualcuno che finalmente non era lei, tanto più cattiva quanto più stantìo si era fatto il suo dolore. Qualcuno comunque la rimise al suo posto con una battutaccia e lei ritrovò quell’espressione offesa e disperata che aveva di solito. Fu la maestra a troncare la questione, invitò la bambina a sedersi al suo banco in ombra e intimò agli altri di smettere e per il momento la cosa finì lì, col principio dell’ora di matematica.
Ma lei sapeva bene che questo era solo un preludio a lunghe lotte, e che Il Scimma o chiunque altro abbastanza onesto da seguire l’istinto di sbeffeggiarla pubblicamente e non dietro le spalle (prerogativa in genere delle femmine), non avrebbe aspettato che la campanella, la corsa in bagno, l’uscita da scuola o qualsiasi altra occasione lontana dagli adulti per prendersi gioco della sua rabbia impotente.
Attese la fine della lezione con il senso inevitabile della tragedia. Quando il trillo meccanico segnò l’inizio della ricreazione, i bambini presero le loro merende dalla cartella (la sua crescenta le pareva insolitamente gommosa e insapore) e man mano che finivano di mangiare potevano uscire in corridoio a giocare. Piantò lì gli ultimi morsi a quella roba e si decise. Il nemico va affrontato di petto, le aveva detto una volta suo nonno. Non bisogna farsi mettere i piedi in testa da nessuno, aveva aggiunto sua nonna.
Il Scimmia stava seduto sul muretto delle scale a scambiare figurine attorniato da cinque o sei ragazzini alti. Era il gruppo di tutti i maschi più grandi della scuola, avranno avuto undici o dodici anni, c’era persino Raul, che aveva fatto due volte la seconda e ne aveva tredici e rubava le gomme nel bar centrale.
La bambina si avvicinò a testa alta, anche se voleva piangere. Ma non avrebbe pianto, non avrebbe chiamato la maestra né invocato la mamma. Era una questione solo sua. Il mondo le si poneva di fronte ostile e a grugno duro, sotto forma di un dodicenne con la bocca come una ferita. E lei avrebbe risposto come poteva.
«Guarda guarda, ecco Capitan Harlock!»
Il Scimmia la indicò col mento agli altri, e questi presero a sghignazzare.
«Non sono Capitan Harlock. Non devi mai più chiamarmi così».
«Ah no, eh?»
«No».
«Perché sennò cosa mi fai, Capitan Harlock?»
«Ti ho detto che non mi devi chiamare così».
«Capitan Harlock! Capitan Harlock!»
Ora tutti ridevano, e si sentiva chiamare da tutte le parti: Capitan Harlock! Capitan Harlock! La bambina vedeva quel ragazzino troppo alto, seduto a guardarla con gli occhi stretti a fessura e il sorrisetto invincibile, e si sentì montare dentro una forza nuova, che non conosceva. Si buttò con tutte le sue energie contro Il Scimmia e quello che ebbe appena il tempo di vedere furono le sue pupille allargarsi in uno stupore improvviso, le braccia allungarsi in avanti come a cercare equilibrio e poi sentì solo delle urla e quindi un silenzio gonfio di attesa.
Il Scimmia giaceva un piano più sotto, nel pianerottolo delle scale, e sembrava una grande bambola di gomma. Non piangeva, non si lamentava, stava lì gettato come il guanto di una sfida persa in partenza. La bambina si guardò attorno e tutti avevano le bocche aperte a "O" e stavano zitti, poi una mocciosetta bionda e tignosa iniziò a urlare chiamando la maestra. La bambina odiò anche lei, incondizionatamente come si odiano i traditori, e si disse che non le avrebbe parlato mai più.
La maestra si affacciò dal muretto verso la tromba delle scale, e vedendo Il Scimmia laggiù ancora immobile disse qualcosa in fretta tra sé, quindi chiamò a gran voce la bidella e mandò tutti i bambini in classe.
La bambina tornò al suo posto con la testa che le girava, e gli sguardi accusatori degli altri non facevano che aumentare il suo rapimento. Non aveva neanche capito bene come era successo. Non voleva, davvero. Non volevo, si ripeteva dentro, giuro non volevo farlo cadere, non sapevo che fosse così in bilico, non credevo che fosse così leggero, non volevo che succedesse, non…
«Vieni con me».
La maestra era rientrata (quando? da quanto stava lì? perché Il Scimmia non era con lei?) e la guardava seria da dietro gli occhiali. La prese per un braccio e la tirò fuori dalla classe come un palloncino all’elio che sbatte distrattamente contro gli spigoli. La maestra era così seria che non sembrava nemmeno arrabbiata. Non le aveva fatto neanche la saponata. La saponata era per i crimini minori. Per quello che aveva fatto lei non sapeva che genere di punizione la attendeva, magari non era ancora stata inventata. Forse l’avrebbero messa in carcere, o in orfanotrofio; forse sua madre e suo padre non l’avrebbero più voluta, avrebbero detto che quell’assassina non era la loro figlia. Si sentì incrinare il volto, e l’occhio buono si riempì di lacrime. Ma non doveva piangere. Doveva essere forte, e si rimangiò il groppo in gola.
Nel frattempo la maestra la tirava e si fermò solo nell’aula in fondo alle scale, la stanza dei bidelli con le pareti in piastrelle bianche e quei rubinetti come zampe di metallo gocciolanti. Qui si fermò e la fece sedere in una sedia al tavolo da cucina, su cui stava un barattolo dello zucchero aperto.
«Dunque, vuoi spiegarmi cosa succede, Caterina?»
La maestra era ferma in piedi di fronte a lei, dall’altra parte del tavolo. La bambina con l’occhio buono guardava per terra e stava a testa china.
«Mi dispiace».
«Ci credo, ci mancherebbe altro. Ma come ti è venuto in mente di buttare un tuo compagno giù dalle scale?» (Silenzio) «Me lo spieghi come ti è venuto in mente?» (Silenzio) «Me lo vuoi spiegare, Caterina?»
«Non lo so, ho sbagliato, mi dispiace».
L’occhio buono aveva identificato una macchia tra le mattonelle e ci si aggrappava come un naufrago alla deriva. Servivano cose reali, per distrarsi da quell’incubo.
«Questo non basta, Caterina».
Quando la maestra era molto molto arrabbiata finiva tutte le frasi con il nome dell’incriminato. La bambina abbassò ancora di più la testa e l’occhio buono le pungeva di lacrime, ma cercò di ributtarle giù e soffiò fuori un debole «Lo so».
«Adesso chiamo tua madre e gli raccontiamo cosa succede. Ti faccio venire a prendere, Caterina».
«Ma c’è il compito di italiano…»
«Non mi interessa niente, Caterina. L’italiano non conta, se uno non sa vivere coi suoi compagni non importa se studia l’italiano».
«Ma il Scimmia…»
«Si chiama TITO».
«Sì, ecco Tito mi ha detto…»
«Non mi interessa cosa ti ha detto. Qualsiasi cosa abbia detto, non è una buona ragione per buttarlo giù dalle scale. Da te non me lo sarei mai aspettata».
Quindi la maestra senza attendere repliche andò nell’altra stanza, dove c’era il telefono, e la lasciò lì da sola, come uno straccio vecchio buttato sulla sedia, con tutto il peso di quell’ultima frase addosso. Deludere la maestra, a cui voleva così bene; e deludere la mamma, e il babbo, e tutti, tutti… era diventata brutta di fuori e anche di dentro, e nessuno le avrebbe mai più voluto bene, mai mai più. Sospirò. Dov’era adesso Il Scimmia? Forse era morto. Forse l’aveva ammazzato. Era una assassina. A nove anni. Cosa sarebbe stato di lei? L’avrebbero messa in istituto, era certa, avrebbe perso il suo nome e per tutta la vita avrebbe girato sotto i ponti a rubare dai bidoni come i gatti. Dio, come era facile rovinarsi la vita! Era tutta colpa di quella malattia, di quella maledetta benda. Iniziò a odiare quello che era proibito odiare: i dottori, gli ospedali, le medicine e tutto quanto. Fuori di nuovo il sole, come a dimostrazione che il mondo se ne frega del fatto che tutto fa schifo e che cose tremende accadono ogni minuto a sommergere dei piccoli destini da niente. La primavera è primavera e amen.
La maestra rientrò e si mise a sedere sulla sedia dietro al tavolo, guardando in silenzio quella testina abbassata, simile al petto di un uccello quando lo si tiene in mano per drizzargli l’ala spezzata.
«Ebbene?»
«Cosa?»
«Non mi chiedi nemmeno come sta Tito?»
Dunque non era morto!
«Come sta?»
«È all’ospedale. Abbiamo chiamato di corsa sua madre e la guardia medica e l’hanno portato subito al pronto soccorso».
«Mi dispiace tanto, io non volevo».
«Se davvero non volevi, Caterina, non dovevi farlo. Ma l’hai fatto, solo questo conta. Occorre pensare alle conseguenze delle proprie azioni. Quando una cosa è successa non si torna più indietro».
La testa ora le si era fatta di paglia. Temeva l’arrivo di sua madre, temeva che vedendola non l’avrebbe riconosciuta da quel mostro che era diventata, temeva che il crimine l’avesse trasformata, resa più brutta, deforme, e che non l’avrebbero voluta più prendere a casa. "Questa non è mia figlia", avrebbe detto sua madre guardandola distrattamente, "non ho niente a che fare con questo mostro indemoniato" e l’avrebbero lasciata lì, chiudendo a chiave quella stanza fredda odorante di muffa, e forse una bidella impietosita le avrebbe portato un avanzo ogni tanto e quella sarebbe diventata la stanza proibita dove tenere il mostro guercio che non si sapeva più dove mettere perché non lo voleva nessuno.
All’arrivo di sua madre tutto quel terrore accumulato si sciolse in un pianto disperato. Sua madre in principio la guardò severa, senza dire nulla; ma quando la bambina le si aggrappò ai fianchi urlando di portarla a casa, di picchiarla, che era un mostro, che non voleva, che qualcosa l’aveva presa, che non sapeva cosa aveva, strappandosi i capelli, percuotendosi il viso, cercando di strapparsi la benda senza che riuscissero a tenerla ferma, capì che non era il momento per sgridare.
La abbracciò stretta dicendola buona, buona, ci pensiamo dopo, e la bambina tacque e la guardò seria con l’occhio buono.
«Posso venire lo stesso a casa con te?»
«Sì, ora andiamo a casa. Chiedi scusa alla maestra».
«Maestra», qualcosa le si piantò in gola come un coltello. Non voleva dire che le dispiaceva: non voleva perché non era quello che sentiva. Quello che sentiva era più grande, immensamente più grande e misterioso del dispiacere… il fatto insomma era che le mancavano le parole. Lei non poteva dire che le dispiaceva. Puntò il suo occhio buono dritto in quelli della maestra che attendeva sgomenta. Taceva e la guardava con l’occhio buono, lucido di una ferocia sconosciuta e come implorante una spiegazione a quello sbigottimento.
«Sì, lo so».
La maestra emise soltanto quel breve sussurro, come in un sospiro, le passò una mano sul capo e aggiunse diretta alla madre che ora doveva tornare in classe e di passare a scuola il giorno seguente dopo le lezioni. Il resto della giornata passò così, insignificante, e la sera la bambina andò a letto presto e non chiese nemmeno di guardare i cartoni animati alla tivvù.

Il pomeriggio seguente, dopo una silenziosa mattinata in casa, la madre la accompagnò all’ospedale del paese, molto più piccolo di quelli che era abituata a frequentare per le sue visite specialistiche in città. Presero l’ascensore fino al terzo piano, dove lesse sulla targhetta all’ingresso "Ortopedia" e le sembrò un nome amichevole, come se dietro quella porta ci fosse un giardino pieno di verdure e frutteti.
Il Scimmia nel letto bianco pareva più piccolo del solito. Stava giocando con un giochetto elettronico e quando la vide nel vano della porta, spinta avanti dalla madre, alzò appena gli occhi e poi li ributtò sul piccolo schermo come due biglie senza espressione.
La madre non l’aveva preparata al fatto che lui ostentasse indifferenza, che lei intuì essere una sofisticata e pericolosa specie di odio, e quando la mamma uscendo chiuse la porta dietro alle sue spalle, si sentì persa in un territorio sconosciuto. Era per la prima volta sola ad affrontare i segni dei suoi gesti nel mondo. Anche la mamma del Scimmia uscì, buttandole un’occhiata sospetta come a controllare che fosse davvero una bambina e nient’altro. Poi le madri si misero in corridoio a parlare e loro due restarono soli nella stanza in mezza luce. Dalle tapparelle abbassate filtrava un bel pomeriggio di maggio, e all’improvviso le sembrò che fosse tutto un po’ meno grave, meno pesante, qualche uccello passava a rigare il cielo e una mosca si era fermata contro il vetro. Il mondo stava pur sempre lì, magari davvero noncurante ma perlomeno reale, vero, intero, e questo adesso le dava un po’ di coraggio.
Andò fino al bordo del letto e restò in piedi a guardare Il Scimmia con l’occhio buono, senza che lui battesse un ciglio o si distraesse dal suo gioco.
«Lo sai fare Mario Bros?», le chiese a un certo punto, dopo aver finito un muro.
Lei disse no con la testa.
«Guarda».
E le fece cenno di sedersi accanto a lui sul letto per vedere meglio come funzionava. Seguivano insieme l’omino fare su e giù per il percorso, con la sua tutina rossa e i movimenti a scatti; lei con l’occhio buono guardava attenta sia lo schermo che i comandi, lui si muoveva affannato con le spalle quando c’era un passaggio molto difficile. A un certo punto morì, e imprecando (era abbastanza grande da dire le parolacce) gettò il gioco ai piedi del letto. Poi le fece, orgoglioso: «Lo sai che mi hanno dato cinque punti qui» (e le indicò una benda dietro la testa) «e poi mi hanno messo questo qui» (indicò un gesso alla gamba) «e forse me ne mettono anche uno qui?!» (e indicò un polso steccato).
«Fa male?»
«Un po’».
«Io di punti ne ho sette» (disse lei toccandosi la benda sull’occhio, per la prima volta con una punta di vanità).
«Sì ma io non ho mica solo questi! Ne ho anche quattro nel ginocchio e tre all’appendicite!»
«Sì ma te sei più grande…»
«Ah, già». (Restò un po’ pensieroso in silenzio) «Ticchio ci provava da una settimana, a buttarmi dal muretto, per quella storia della figurina; ma non c’è riuscito perché io sono più forte. E ci sei riuscita te!»
«È che io ti ho preso di sorpresa».
«Be’, del resto sei Capitan Harlock!»
La bambina rise e le sembrò che il corso delle cose avesse modificato di nuovo e a sorpresa direzione. Ora non era più soltanto la cattiva, la reietta, l’assassina, l’indemoniata, il mostro orbo… ora era lì con Il Scimmia che le parlava come faceva solo coi suoi amici grandi delle medie, mentre di solito si teneva alla larga dalle bambine con disprezzo. Che strani segreti si nascondevano nelle pieghe delle ore, nel corso del sole appena sopra le loro teste malconce... Era venuta lì con l’idea che lui la umiliasse, la minacciasse di ammazzarla di botte non appena fosse stato di nuovo in grado di camminare, o magari peggio, la deridesse per il resto dei suoi giorni convincendola di essere niente… e invece quello la paragonava a un eroe invincibile delle galassie.
«Tito», chiese a un tratto tornando seria e fissandolo con l’occhio buono: «ma tu mi odi?»
Il Scimmia sembrò turbato dall’essere chiamato per nome. Stavano facendo un discorso da grandi, due stupiti esploratori in una terra nuova. La guardò, erano vicini, seduti l’uno accanto all’altra sul bordo del letto, due piccole cose odoranti di medicina, ugualmente spaventati e ugualmente intenzionati a cavarci fuori i piedi, da quel pasticcio misterioso che era lo stare al mondo. Poi lui scosse la testa e disse:
«Ma Capitano! Certo che ti odio! Però ti perdono perché mi hai dato cinque punti e due gessi tutti in una volta. Adesso posso battere anche Raul, che si vanta sempre di avere nove punti. Eppoi così salto un sacco di scuola!»
Risero e poi restarono ancora fermi a seguire le nuvole che galoppavano a forma di condor e di sfinge.
«Se vuoi ti vengo a portare i compiti, domani».
«Ma no, sai che me ne frega».
E restarono di nuovo zitti, a guardare quel pezzo di cielo che si vedeva dalla finestra, le mani e gli avambracci nudi che si toccavano, e una forma elementare di felicità che li pervadeva facendo svaporare anche la paura. Sarebbero guariti, tutto passa, pensavano, e fuori c’erano i campi e non c’era niente di più da chiedere, niente che contasse, in quel celeste di luce e nel caldo di quelle piccole braccia uguali e tutte ingombre di futuro.
La porta si aprì e rientrarono le madri. Erano serie e non sorridevano e alla bambina parve di ripiombare in quel senso di torva oppressione delle ore precedenti. Forse erano i grandi a complicare tutto, si disse. La madre la prese per mano e le intimò di salutare, la mamma del Scimmia continuò a guardarla con sospetto mentre sfilava un metro sotto di lei verso l’uscita. A un tratto, mentre era già fuori dalla porta, Il Scimmia le gridò: «Capitano, di fumetti ne hai?»
Lei rientrò raggiante, guardò con l’occhio buono la mamma del Scimmia quasi a sfidarla, perché lei poteva entrare nel mondo del Scimmia (era il Scimmia stesso a volerlo, a indicarle le navate di una vita nuova che spuntava timida ma decisa come una gemma); mentre alla madre non era concesso altro che di essere una madre che sta ai piedi del letto a preoccuparsi che ci sia abbastanza acqua nella caraffa sul comodino. La madre non sapeva quello che loro sapevano.
«Topolino, tutti gli Almanacchi, Batman, Snoopy…»
«Be’ portameli, vediamo se mi batti, scommetto che io finisco una storia che te sei ancora al titolo!»
La bambina annuì radiosa, sorrise con la bocca e con l’occhio buono e uscì tirandosi dietro la porta dipinta di verde. Fuori le rondini giocavano a mezz’aria e si spandeva un vento leggero che sapeva di fiume.

© 2009 Azzurra D'Agostino