Laura Bottazzi, Una valigia a metà



M
i faccio la valigia e me la filo. Ho deciso. Se riesco a sganciarmi velocemente, arrivo in città per l’ora di pranzo.
Laura Bottazzi
«Negli ultimi anni la figura della casalinga pare essere tramontata per far posto alla donna in carriera, oberata di impegni, perfettamente sincronizzata nell’ottemperamento dei suoi doveri di madre e lavoratrice. Così sembra che nell’immaginario collettivo ci sia spazio solo per donne divorziate, single, al limite fidanzate. Eppure esiste ancora una categoria che resiste silenziosa e quasi del tutto snobbata: quella delle donne della medio alta borghesia. Dopo aver scritto questo racconto, un amico un giorno mi ha parlato proprio delle "casalinghe affette da bovarismo". Ecco, forse senza volerlo io ho scritto proprio di una di loro, una “Desperate Housewife” che nulla ha a che vedere con le deliziose interpreti della serie televisiva, ma che vive ostaggio delle proprie debolezze e ipocrisie, come se l’infelicità fosse l’unica certezza possibile».
Laura Bottazzi è nata nel 1975 e vive a Viterbo. Ha esordito sulla rivista Fernandel con il racconto Susanna, pubblicandone poi diversi altri.
Nel 2009 è uscito il suo primo romanzo, Una pelle bellissima.
Fuori ancora nevica e forse dovrei sentirmi in colpa a lasciare Angelo qui in albergo da solo, ma io devo sopravvivere, e un altro giorno con questo tordo deficiente potrebbe essermi fatale.
Mi fisso a guardare la neve che scende morbida e copre il mondo, lo rende tutto bianco, come un fungo o una malattia. Ci saranno tre metri di neve là fuori, non so immaginarmi cosa possa voler dire rimanere qui a primavera, quando tutto questo si sarà sciolto.
Però è bella la neve. Una volta mi piaceva un sacco, molto più di adesso.
Adesso c’è Angelo, che se potesse piallerebbe ogni singola cima innevata per farci un centro commerciale.
Certo, andarsene ora, senza nessuna spiegazione, è una vera bastardata. Mi chiedo se si meriti tanta cattiveria, se non dovrei magari andare giù alla hall e farlo chiamare. Forse dovrei aspettarlo in camera e affrontarlo, dirgli semplicemente "ti lascio, bello. Me ne vado".
Ah! Come godrei a vedere quella sua faccia da pollo morto gonfiarsi di rabbia!
Mi guarderebbe come si guarda un cane randagio, e con tutto lo sdegno possibile mi volterebbe le spalle dicendomi di andarmene dove mi pare.
Nell’indecisione, mi verso un goccio di vodka. La sento scendere nelle viscere lenta e bollente come fosse lava.
Che caldo.
Mi tolgo il maglione e lo butto sul letto. Mi guardo intorno alla ricerca della mia Vuitton semirigida. La individuo sopra l’armadio; mi chiedo chi l’abbia infilata là sopra, ma non faccio fatica ad immaginare Angelo intento a ordinare in modo maniacale l’intero guardaroba.
Che palle.
Se ci ripenso ora, mi sembra impossibile aver creduto di amarlo.
Da bambina mi piaceva sporgermi dalla finestra e osservare la neve che scendeva. Fissavo i singoli fiocchi ed era come librarmi nel cielo. Poi aprivo la bocca cercando di inghiottirli. Erano gocce di cristallo e sembravano buonissime. Ora guardo fuori e la mia immagine si specchia nel vetro e si sovrappone a tutto.
Sono davvero depressa.
Controllo nell’agenda quand’è l’appuntamento con il mio analista. Accidenti, se ho segnato la data giusta non riuscirò a vederlo prima di una settimana. Devo assolutamente chiamare la segretaria e farmi anticipare la seduta.
Cerco la rubrica dentro la borsa, ma non la trovo. Provo a ricordarmi dell’ultima volta che l’ho usata. Quando è stato? Forse l’altro giorno, quando ho disdetto l’appuntamento con l’estetista? Santo cielo, senza quella rubrica sono una donna finita. Scommetto che me l’ha nascosta Angelo, di sicuro per farmi impazzire, per farmi piombare nell’esaurimento nervoso e avere una scusa per liberarsi di me. Ma se crede che basti così poco, si sbaglia di grosso. In ogni caso è colpa mia: dovrei imparare una volta per tutte a memorizzare i numeri sul cellulare come ogni comune cristiano. Razza di idiota: ci sarà pure un motivo se nessuno usa più la carta e la penna.
Tutta questa neve che cade comincia a darmi sui nervi.
Mi alzo e mi metto alla ricerca della dannata rubrica. Passando accanto al mobile bar, ne approfitto per versarmi un altro goccetto di vodka.
A ogni passo affondo i piedi nella moquette blu e beige; è così soffice che decido di togliermi le ciabatte e di camminare a piedi scalzi. Per associazione di idee mi viene in mente il film A piedi nudi nel parco. Lo ricordo solo vagamente, ma l'immagine di Robert Redford in impermeabile beige mi fa venire da piangere.
L’avrei voluto anch’io un Robert Redford tutto per me.
Mi faccio uscire dalla testa Robert con un bel sorso di vodka e ricomincio a cercare la mia rubrica. Striscio i piedi sul pavimento di velluto e penso che c’è sempre un motivo se negli alberghi a cinque stelle si pagano cifre esorbitanti: solo il camminare su questa moquette vale tutti i soldi che chiedono per dormire qui.
Apro i cassetti dello scrittoio, li richiudo. Apro le ante dell’armadio, controllo dentro le tasche delle giacche e delle pellicce che mi sono portata dietro, ma della mia rubrica non c’è traccia.
Sono al limite di una crisi di panico e non ho nemmeno il numero per chiamare il mio analista. Mi sento sola e disperata e quell’idiota di Angelo se ne sta a sciare da qualche parte con quei cretini dei suoi amici montanari. Spero che cada in un burrone. Spero che si rompa tutte le ossa. Spero che una valanga lo travolga.
Santo Dio.
Guardo dentro il beauty-case e non credo ai miei occhi: ho trovato la mia rubrica. Sono così felice che scoppio in una risata. Ci vuole perlomeno un altro bicchiere di vodka per festeggiare.
Cerco il numero del dottor Confini, lo chiamo e mi risponde la sua segretaria.
«Se non è un’urgenza signora» mi dice «temo che non sia possibile spostare l’appuntamento».
Avrei una gran voglia di strangolarla. «Le pare che l’avrei chiamata se non fosse stata un’urgenza?»
«Il fatto è che il dottore è fuori città per un congresso. Se vuole posso fissarle un appuntamento con il collega».
«Ma sta scherzando?!» Forse sono finita in una candid camera.
«Mi spiace signora».
«Può, per favore, farmi parlare con il dottor Confini?» Razza di mentecatta.
«Il dottore non è in studio». Me lo dice con un tono talmente piatto che per un attimo ho la sensazione di parlare con una voce registrata. Sono completamente atterrita, mi sento così smarrita che invece di urlare quel che penso del dottor Confini e della sua segretaria, mi limito a chiudere la telefonata con un grugnito.
In ogni caso ho deciso: appena torno in città cambio psicologo.
Non so per quale strana associazione di idee, ma mi viene in mente l’immagine di Charlize Teron che si spoglia nella pubblicità di un profumo.
Se avessi il culo meno basso, le somiglierei pure. In ogni caso ho bisogno di un bagno caldo anch’io. Così apro i rubinetti della vasca idromassaggio e la guardo riempirsi. E mentre la guardo inizio a piangere e non lo so perché piango, forse per tutto il tempo scivolato via silenzioso. Per tutto quello che non ha lasciato traccia, per i miei anni migliori, per i ricordi e per il futuro che verrà. Piango per me e per tutto ciò che avrei potuto essere e non sono stata. Piango per le mille vite che avrei voluto vivere e per le catene che mi hanno tenuta ancorata ad una sola me stessa. Piango perché ho bevuto troppa vodka e invece dovrei mettermi a dieta. Piango perché mi sento scema, ma proprio perché mi sento scema, inizio a ridere.
Mi sta colando tutto il mascara. Sembro un mostro, un pierrot da film horror. Saggio la temperatura dell’acqua nella vasca e mi spoglio. Lascio cadere deliberatamente a terra il pigiama di seta e mi immergo. C’è un istante, assolutamente impagabile, in cui la sensazione di benessere data dalle bollicine d’acqua calda è tale, che tutto il mondo scompare.
Socchiudo gli occhi e scivolo giù, sempre più sotto, in mezzo alle bolle che mi massaggiano il viso quasi con violenza. Cerco di ignorare il trillo del telefonino, ma la suoneria con tutto il suo chiasso ha rotto ogni incanto, così mi alzo imprecando e rispondo con la voce più aspra che ho.
«Tesoro! Come stai?» La voce è quella di Annalea.
«Come stai bellissima?» Rispondo con tono finto gioviale mentre mi immergo di nuovo nella vasca da bagno e metto in stand by l’idromassaggio.
«Come vuoi che stia, sempre di corsa. Mi chiedevo dove fossi finita. Sono giorni che non ti vedo in palestra».
«Sono in montagna».
Un attimo di pausa. «Ma non sei tu quella che odia la neve?»
«Odio sciare. Non la neve» specifico.
«Non è la stessa cosa?»
«No» dico secca, irrigidendomi per il pressappochismo della gente. «Neve e sci sono due cose diverse».
Ad Annalea non sembrano interessare le mie elucubrazioni. Ha qualche secondo di esitazione, poi mi chiede se andrò alla festa che ha organizzato per la sera del 12.
C’è un secondo, un secondo infinito, in cui sono tentata di dirle tutto, di raccontarle di quanto detesti mio marito, di come la nostra relazione si sia perduta in silenzi e mugugni risentiti, di quell’amore che credevo di provare e del quale mi sentivo appagata e che ora invece mi disturba come un coltello piantato nello stomaco.
Vorrei parlarle delle umiliazioni, dei tradimenti reciproci, delle meschinità e dei dispettucci da quattro soldi. Vorrei dirle che quindi no, alla sua stronzissima festa io non ci sarò. Ma Annalea non è l’amica a cui si possano confidare cose del genere. Probabilmente ne rimarrebbe così scioccata da attaccarmi il telefono in faccia per la fretta di spiattellare le mie confidenze a tutti i nostri amici. Così prendo fiato e soffoco un sospiro.
«Pronto!» La sento dire dall’altra parte.
«Sì, ti sento. Stavo pensando se siamo liberi, ma non dovrebbero esserci problemi».
«Bene, sono contenta. Allora vi do per confermati».
«Naturalmente»
Che si fotta. Al limite Angelo ci andrà da solo.
Riaggancio con un senso di oppressione al petto. Avrei bisogno dei miei ansiolitici ma non ho nessuna voglia di alzarmi dalla vasca. Riavvio l’idromassaggio e cerco di dimenticare.
Mi viene in mente Tell me why dei Genesis. Credo non ci sia niente al mondo che mi deprima più di quella stupida canzonetta, così penso che forse dovrei controllare l’ora e iniziare a fare i bagagli. Mi alzo dalla vasca e mi infilo l’accappatoio dell’albergo. Passo nella camera da letto e mi verso un altro goccio di vodka, poi, anche se non dovrei, butto giù un paio di ansiolitici.
Anche saltando non riesco a raggiungere la valigia che Angelo ha infilato sopra l’armadio, sono costretta a trascinare una sedia e ad arrampicarmi. Afferro la Vuitton, ma l’operazione risulta così maldestra che per poco non cado a terra. Recupero l’equilibrio ma non posso fare a meno di pensare che avrei potuto rompermi qualcosa, magari sbattere la testa, spaccarmi la spina dorsale, rimanere paralizzata. Cazzo, la gente muore per cose simili.
Mi siedo sul letto per cercare di riportare i battiti del cuore alla normalità. E, in questo preciso istante, realizzo di non avere un posto dove andare, una volta scappata da qui.
Elenco mentalmente i possibili amici e parenti a cui chiedere ospitalità, ma mia sorella, con tre bambini un gatto e due cani, nonché un marito di un’inettitudine imbarazzante, non può rappresentare certo un rifugio. Credo che dopo due giorni di permanenza a casa sua, tornerei da mio marito in ginocchio pregandolo di riprendermi con sé.
Ci sarebbe Alberta, la mia migliore amica, la compagna di liceo e poi di università. Quella con cui ho diviso la casa da studente, gli esami, i fallimenti, le vittorie. Perfino qualche amore.
Mi stendo sul letto poi sollevo la cornetta del telefono dell’albergo e digito il suo numero di casa.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli. Il tempo si dilata e mi ritrovo nel suo appartamento. Mi guardo intorno, sento lo squillare del telefono che rimbomba tra le pareti. Ogni cosa al suo posto; le tende appena scostate lasciano entrare la luce del mattino. Tutto è immobile e muto se non per quel suonare osceno e ripetitivo. Torno al mio albergo e penso di riattaccare quando sento un "pronto" ansimante all’altro capo del filo.
Mi salgono le lacrime agli occhi.
«Ciao» dico con un senso di sollievo.
«Michela?»
«Scusa, ti ho disturbato».
«No, non preoccuparti. È che ero nello studio…»
«Come stai?» Le chiedo tanto per prendere tempo.
«Bene. Sto preparando una mostra di pittura. Incasinata».
Sorrido, ma con invidia. Alberta è sempre stata diversa da me: ha lavorato nell’arte fin dalla laurea e ora ha una galleria tutta sua.
Io che ho fatto?
Alberta irrompe nei miei pensieri e mi salva con le solite domande di rito. Si entusiasma quando le dico di essere in montagna, rimpiange di non avere mai tempo per una fuga all’insegna dello sci e dell’aria buona. Parla a ruota libera, eccitata e allegra. Mi racconta qualcosa a proposito di alcune vecchie foto di noi due ai tempi del liceo. Mentre parla io fatico ad ascoltarla, ma mi lascio trasportare dalla sua voce come se le parole fossero note musicali, e immagino di essere lì accanto a lei, nel suo salotto giallo, seduta in poltrona a fumarmi una canna o a bere un caffè. Mi vedo sorridere, un plaid sulle gambe, l’aria serena. La luce è ovunque: entra dalle finestre e invade gli spazi. Ma con dolcezza, senza violentarli mai.
«Michela, ma ci sei?»
Ritorno alla realtà e sorrido di nuovo, questa volta con la rassegnazione di chi sa che ormai è troppo tardi per tutto.
«Sì, ti ascoltavo».
«Ti senti bene? Sei strana».
Se solo riuscisse a leggermi nel cuore, se solo provasse a tirarmi fuori le parole… ma ormai ho perso il mio momento per confessarmi, ammesso che ci sia mai stato, e questa è stata una telefonata inutile.
«Uh? No, sto bene. Un po’ annoiata forse…»
«Vorrei annoiarmi io!» Sospira.
«Ora devo andare tesoro. Ho appuntamento con la massaggiatrice».
«Dura la vita, eh?!» Butta lì con una risata senza sapere quanto ci abbia azzeccato.
«Già… piuttosto dura in effetti» dico ridendo a mia volta.

Sono stata una stupida a non dire niente ad Alberta.
Mi domando se comunque mi avrebbe capita. Ha sempre adorato Angelo, lo considera come uno di casa, praticamente un parente. Probabilmente avrebbe cercato di convincermi a rimanere con lui, avrebbe sminuito la mia stanchezza.
Forse è questo ad avermi frenata al telefono: sapevo già quello che Alberta mi avrebbe detto. Parola per parola.
Ora sono di nuovo al punto zero. Questa è la realtà.
Mi alzo dal letto e inizio a riempire la valigia: inutile rimuginarci sopra. Magari richiamerò Alberta quando sarò arrivata in città, a fatto compiuto.
Guardo fuori la neve che cade lenta. Ci sono stati tempi felici, momenti in cui all’idea di un avvocato divorzista avrei riso di gusto.
La neve di New York ha un colore tutto suo. In viaggio di nozze la guardavamo scendere dalla finestra dell’albergo. Erano fiocchi multicolori delle insegne al neon, dei lampioni, dei cartelloni pubblicitari. Un pulviscolo chimico che niente aveva di questa neve che scende vergine come un batuffolo di cotone. Però era bella.
Ho voglia di un po’ di musica, così accendo la televisione. In onda ci sono i soliti programmi strutturati appositamente per sedare orde di anziani e casalinghe frustrate. Per una strana forma di masochismo mi fermo a fissare lo schermo, gremito di persone che non ho mai visto e che non fanno che parlare, come se quella per loro fosse una vera urgenza.
Distolgo lo sguardo e lo punto sulla mia valigia fatta a metà. Improvvisamente mi sento stanchissima.
Afferro la rubrica e cerco il numero di Claudio.
Risponde al primo squillo: «Amore».
«Ciao».
«Amore» ripete in un sussurro. «Dio! Credevo non ti avrei più sentita».
Mi sento così vigliacca che non riesco a dire niente. Sto richiamando il mio ex amante per pura disperazione e ne sono perfettamente consapevole. Quando gli avevo detto addio, un mese fa, l’avevo fatto senza alcun rimpianto. Ero semplicemente stufa di non riuscire ad amarlo. Nessuna tragedia greca, nessuna rinuncia da eroina ottocentesca. Claudio l’avevo abbordato in un locale durante una serata con delle amiche. Gli avevo fatto scivolare tra le mani un foglietto di carta con il mio numero. Lui l’aveva preso, aveva sorriso senza guardarmi. Il pomeriggio successivo eravamo a letto insieme.
All’inizio era stato tutto meraviglioso, tutto come da copione. Poi però io avevo cominciato a sentirmi soffocare, e più lui si attaccava a me, più io mi sentivo stringere in una morsa. Claudio per me non era mai stato niente e ormai non rappresentava nemmeno più un diversivo. Così ho troncato. Con un notevole sollievo, devo dire.
E ora lo sento aggrappato al telefono e a tutto ciò che non sto dicendo.
«Come stai?» Gli domando per prendere tempo.
«Bene». Fa una pausa. «Mi manchi».
«Già».
«Tu come stai?»
«Così…» Non saprei immaginare un momento peggiore della mia vita.
«Dove sei?»
«In montagna».
«Ah…» Sembra deluso.
«Sto per tornare a casa» dico d’un fiato, poi mi zittisco aspettando una reazione, ma Claudio rimane in silenzio.
«Lascio Angelo» specifico.
«Davvero?»
Annuisco ma non dico niente, mi alzo e mi verso un altro po’ di vodka.
«Vieni da me». La sua voce è morbida ma decisa. Dice esattamente quello che volevo sentirmi dire e lo fa in modo perfetto. C’è un incantevole istante in cui mi sento avvolgere dal calore delle sue parole, poi mi rendo conto che tutta quella dolcezza è talmente stucchevole da darmi la nausea. Improvvisamente sento di odiarlo: se solo fosse stato meno accondiscendente, meno amorevole, se solo mi avesse maltrattata un po’… Ecco, allora mi sarei lasciata salvare. Invece mi sta condannando a tornare sui miei passi, a rivedere i miei piani. Rimarrò di nuovo sola.
Avrei una gran voglia di sbattergli il telefono in faccia, ma mi trattengo e cerco di mantenere un tono perlomeno educato: «Lo sai che non posso».
«E allora perché mi hai chiamato?» Ha la voce esitante di chi ha paura di ricevere una risposta.
«Non lo so».
«Non devi per forza trasferirti da me, lo sai».
«Sì. Ma ho bisogno di tempo».
«Va bene» soffoca un sospiro.
«Scusa».
Riattacco sentendomi veramente a pezzi. Bevo quel che rimane della vodka e me ne verso dell’altra.
Non si dovrebbe bere sotto l’effetto di psicofarmaci.
La mattina fuori di qui si allunga in un andirivieni di sciatori impavidi. Li vedo salire e scendere dalla funivia di fronte l’albergo.
Mi siedo sul letto con un sospiro, mi domando se non ci sia il rischio che con questo tempo Angelo faccia ritorno in albergo prima del solito.
Cristo, a questo non avevo proprio pensato. Maledizione. Se mi trovasse qui ancora con mezza valigia da fare, sarebbe un disastro.
Che balla potrei inventarmi?
Al pensiero di una simile situazione mi viene un tale attacco d’ansia che sento il cuore schizzarmi letteralmente in gola.
Mi alzo in piedi con uno scatto e corro verso l’armadio per insaccare la mia roba.
La riverso dentro la valigia senza nemmeno piegarla, poi chiudo la zip e per sicurezza infilo il bagaglio sotto il letto.
Butto per terra l’accappatoio e mi infilo la biancheria. Mi asciugo i capelli, cercando di farmi una messa in piega decente, poi inizio a truccarmi, ma la mano mi trema talmente che l’eyeliner non fa che sbavarsi. Prendo aria cercando di impormi di stare calma. Mi strucco e ricomincio da capo. Quasi soddisfatta, vado all’armadio e mi infilo un tailleur Armani. Mi butto la pelliccia sulle spalle, poi prendo la borsa e allungo le mani sotto il letto per recuperare la valigia. Apro la porta della camera e già mi sembra di respirare l’aria frizzante della libertà. Sorrido, anche se sono consapevole che per cantare vittoria dovrò essere lontana da qui prima che Angelo rientri in albergo.
Chiamo l’ascensore e sono talmente impaziente che non riesco ad impedirmi di battere il piede a terra. Mentre le porte automatiche si aprono ho la sensazione che dentro l’ascensore potrei trovare Angelo: faccio per voltarmi e scappare, quando mi rendo conto che l’interno del vano è totalmente vuoto.
Devo restare calma.
Entro e schiaccio il pulsante del piano terra.
Alla reception una signorina che potrebbe avere sì e no vent’anni mi sorride mentre illustra una piantina del luogo a due turisti tedeschi.
Mi sembra di impazzire, se non si sbriga, io quella cartina gliela strappo dalle mani e me la ingoio. Accidenti a lei e a questi due rincoglioniti.
Finalmente la ragazza si sgancia dai due tedeschi e mi saluta.
«Sarebbe così gentile da farmi portare la macchina?» Le chiedo.
«Parte?» Domanda sorpresa.
«Sì, un impegno improvviso».
«Mi auguro nulla di spiacevole».
«No, no» la rassicuro.
Lei annuisce e mi chiede se ho del bagaglio da far caricare. Poi fa una telefonata al responsabile del garage e chiama un facchino, che arriva quasi subito. Il facchino prende il mio bagaglio, che vedo scomparire in mezzo a una montagna di altre valigie dirette verso il garage.
«Parecchia gente in partenza oggi?» Dico tanto per fare conversazione.
«Sì, qualcuno» conferma rimettendosi a controllare qualcosa che dalla mia posizione non riesco a vedere.
Mi siedo su una poltrona e aspetto la mia macchina. Cerco di ammazzare il tempo sfogliando una rivista, ma l’ansia mi divora, così la rimetto giù e mi rassegno ad attendere fissando l’ingresso. Ogni tanto guardo l’orologio, la lancetta dei minuti, quella dei secondi. Il tempo è eterno e immobile. Mi alzo dalla poltrona, ma non ho idea di cosa fare, per cui mi risiedo subito. Mi sento una cretina a starmene con le mani in mano, così afferro il cellulare nella borsa e fingo di inviare messaggi. Ogni tanto butto l’occhio verso la strada per vedere se la mia auto sta arrivando.
Finalmente, dopo una decina di minuti, la mia Audi nera compare di fronte all’hotel. Il sollievo è tale che per poco non mi metto a saltellare.
Afferro la pelliccia ed esco talmente in fretta che il mio saluto alla ragazza della reception si incastra fra le porte girevoli dell’albergo.
Un giovanotto in divisa scende dalla macchina e mi porge le chiavi. Gli passo una piccola mancia e lo ringrazio. Balzo sul sedile rapida come un gatto e avvio il motore senza nemmeno pensare a regolare le impostazioni di guida, sistemate da Angelo secondo le sue esigenze. Mi ritrovo così a dover scivolare per più di metà sedile solo per raggiungere i pedali. In ogni caso non mi fermo. Devo allontanarmi da qui in un modo o nell’altro. Poco importa se dovrò guidare come se fossi alta un metro. Mi premuro solo di spostare lo specchietto retrovisore, per il resto avrò tempo di fermarmi fra qualche chilometro.
Non mi sono nemmeno tolta la pelliccia, e il caldo è insopportabile. Accendo l’aria condizionata, ma a questo punto inizio a gelare. Tra l’altro, tutto questo pelo mi ostacola nei movimenti. Di solito mi spoglio prima di mettermi alla guida, non ho mai capito quelli che riescono a guidare infagottati in cappotti e giacconi. Io ho bisogno di sentirmi leggera.
Ho percorso già un po’ di strada. Posso anche pensare di fermarmi. Solo che qui sono tutti tornanti e curve e precipizi. Tra qualche minuto dovrei raggiungere un passo, forse lì potrò finalmente parcheggiare. La neve non fa che scendere senza sosta. Odio guidare quando nevica: i fiocchi si appiccicano al vetro e lo gelano. Le gomme termiche fanno ancora presa, ma se continua così dovrò mettere le catene.
Accidenti. Chi diavolo le ha mai messe le catene alle gomme?
Finalmente raggiungo il passo. C’è un piazzale di discrete dimensioni antistante un rifugio. Accosto l’auto, spengo il motore, sgancio la cintura e scendo.
Nevica così fitto che hanno bloccato perfino la cabinovia. Non si vede a un palmo dal naso, l’atmosfera quassù è spaventosa e desolante. Sembra che l’umanità si sia estinta e che io sia l’unica sopravvissuta. Non passano macchine e non sento alcuna voce. Perfino il rifugio pare deserto. Rabbrividisco, ma non per il freddo.
Apro il portabagagli per infilarci la pelliccia e noto qualcosa di strano che sulle prime non riesco a identificare. Rimango qualche istante in contemplazione, poi capisco: la mia valigia non è la mia valigia. Quel deficiente del facchino deve averla scambiata con quella di qualche altro ospite in partenza.
Maledizione. Se questa non è un tragedia, una vera e proprio congiura, non so proprio cosa sia.
Avrei voglia di piangere. Di sedermi per terra e farla finita così: crepando di freddo.
Dio santo, e adesso?
Mi accascio sul sedile dell’auto e scoppio in singhiozzi. Questo posto mi fa paura, sono nel pieno di una tormenta di neve, ho perso il mio bagaglio, e se Angelo è rientrato in albergo ormai ho perso anche mio marito.
La mia vita è uno schifo, ecco cos’è. È un totale fallimento.
Signore salvami.
Mi tremano le mani e i miei calmanti sono rimasti in valigia. Perché devono capitare tutte a me?
Che numero ha l’albergo? Forse… sì, dovrei averlo scritto sulla rubrica. La cerco nella borsa, la apro, scorro con il dito le varie voci: ecco il numero, meno male.
«Ma lo sa che mi avete perso la valigia?!» Urlo piangendo ad una receptionista piuttosto confusa.
«Scusi…?»
«Sono la signora Cordelli!»
«Oh signora, meno male! Ci eravamo accorti dell’errore e non sapevamo come contattarla. Suo marito…» Il cuore smette di battere. Trattengo il respiro. «Suo marito risulta irraggiungibile e non avevamo il suo numero».
Sono così sollevata che mi rimetto a piangere.
«Signora?» Chiede imbarazzata la ragazza dall’altra parte.
«Scusi… non è niente».
«Se fosse così gentile da dirmi dove si trova, le manderei subito un autista con la sua valigia».
Ci penso su, perfettamente cosciente che questa è la mia ultima chance.
«Mio marito non è ancora tornato vero?»
«No, non risulta».
«Mi fa il favore di chiamare la stanza?»
La sento perplessa ma esegue.
«No signora, non risponde nessuno».
Sospiro; sia quel che deve essere.
«Non mandi nessuno. Torno indietro».
Riattacco il telefono. Butto la pelliccia nel vano portabagagli, poi sistemo in fretta sedile e specchietti e riparto. Il tempo mi rema contro e io devo essere veloce.
La neve scende ancora fitta e io credo di non averla mai odiata tanto. Prego solo che Angelo si sia fermato in qualche rifugio e ora stia mangiando e bevendo con i suoi amici. In fondo non avrebbe senso per lui tornare in albergo: per quel che ne sapeva io avrei avuto l’intero pomeriggio impegnato tra saune e massaggi.
La macchina slitta sulle curve. Mi impongo di andare più piano, ma le strade sono sempre meno praticabili. Se rimanessi bloccata qui sarebbe un disastro e io non sono brava a guidare sulla neve.
Sono una vera stupida. Una gallina demente. Cosa mi credevo di fare, cosa pensavo di ottenere lasciando Angelo senza una parola?
Mi sono comportata come una ragazzina.
Non bisogna mai mischiare psicofarmaci e alcol.
Prego solo di arrivare in tempo.
Guido concentrandomi sulla strada, stringo il volante tanto da sbiancarmi le nocche. Sono tesa come una corda di violino. La strada è una serie infinita di curve. Il paese è come se fosse semplicemente scomparso.
Scendendo verso la valle, la neve si fa meno fitta. Comincio a scorgere le prime case, i primi alberghi. Tiro un sospiro di sollievo. Ci sono quasi. Accelero quel poco che le condizioni della strada mi permettono. La vista del mio albergo è come un miraggio, sono talmente sollevata da aver voglia di urlare.
Parcheggio in tutta fretta, prendo valigia e pelliccia ed entro nella hall.
La ragazza alla reception mi sorride: «Bentornata, signora, scusi ancora».
«Non fa niente».
«La sua valigia è nella sua stanza».
«Mio marito?»
«Non è ancora tornato».
«Arrivederci».
Le volto le spalle e salgo le scale quasi di corsa.
Una volta entrata in camera, disfo il bagaglio alla velocità della luce e rimetto la Vuitton dov’era.
Mi stendo sul letto, finalmente calma, e mi lascio ipnotizzare dalla neve che cade.
Verrà il tempo, dico a me stessa, verrà il giorno. Un bel mattino di sole, magari. Una giornata tiepida di primavera. Io mi alzerò dal letto e sentirò di essere pronta. Farò con calma i miei bagagli, aspetterò il ritorno di Angelo e gli parlerò a cuore aperto, e tutto ciò che dirà per trattenermi non riuscirà a scalfirmi.
Uscirò di casa e sorriderò alla mia nuova vita.
Sì, sarà una bella giornata di sole.
Sento che sto scivolando nel sonno. Le immagini di questa mattinata folle si sovrappongono e si inseguono. Le lascio andare, penso alla possibilità di comprare un nuovo abito per la festa del 12.
Magari appena torna, chiedo un consiglio ad Angelo.

© 2009 Laura Bottazzi