Silvia Monteverdi, La terrazza sull'oceano



A mia discolpa potrei dire che non è partita da me l'idea di trasferirsi in Thailandia. Anzi, mentre Jolanda mi sventolava sotto il naso la copia di Dove in cui aveva scovato l'annuncio, non le ho dato quasi retta. Avevo già infilato il cappotto per uscire.
Silvia Monteverdi
«Sono nata a Padova nel 1979. Mi sono laureata in lingue e scienze della comunicazione nel 2005. Da otto anni vivo a Milano e lavoro per una web-agency. Di recente ho pubblicato due testi brevi per la rivista Toilet e ora che anche Fernandel ha voluto un mio racconto, comincio ufficialmente a montarmi la testa. Questo racconto nasce da un viaggio meraviglioso che ha portato me e la mia famiglia per quattro mesi a zonzo tra la Thailandia, l'Indonesia e Singapore».
«Sarebbe la soluzione ideale per i miei attacchi d'ansia» aveva detto fermandomi sulla porta. I suoi «attacchi d'ansia» non erano altro che fulminee crisi isteriche che scoppiavano di botto e di botto sparivano previo lancio di qualcosa contro il muro. «E poi» aveva aggiunto picchiettando l'unghia rossa sull'annuncio di vendita della villa «ho bisogno di trovare il mio equilibrio. Tu con la connessione internet potresti lavorare da lì senza problemi».
L'idea mi era subito parsa surreale, come molte delle pensate di mia moglie, ma l'ho liquidata con un «ci si può pensare», risposta che al momento mi era sembrata adatta alle circostanze e con un "coefficiente di rischio scenata" pari a zero. Inoltre non volevo acuire la distanza già abissale che c'era tra noi, liquidando con sufficienza ciò che per lei sembrava essere vitale. Jolanda ha ventisette anni meno di me, trovavo naturale che manifestasse queste puerili esigenze di fuga. Sono fisiologiche.
Ad ogni modo ha preso la mia vaga risposta come un sì e in pochi mesi è riuscita ad arrangiare tutto, biglietto aereo compreso. Siamo partiti alle sei di una mattina di maggio. C'era l'aria fresca e il cielo cominciava a schiarire mano a mano che ci avvicinavamo all'aeroporto. Mentre l'aereo decollava e roteava su se stesso per prendere la rotta, ancora mi chiedevo come fosse possibile che mi trovassi li, seduto accanto a mia moglie che guardava fuori dal finestrino letteralmente in preda all'eccitazione. Quando poi ho visto la terra dall'alto, i capannoni allineati come piccoli lego bianchi che si rimpicciolivano sotto di me, mi sono sentito vagamente in colpa, come chi sta scappando da qualcosa. Una sensazione non del tutto spiacevole.
Ad aspettarci in Thailandia abbiamo trovato Alba, mia cognata, partita un mese prima di noi per sistemare le questioni legate alla villa. Siamo arrivati a destinazione il giorno successivo. La villa era distante dall'aeroporto, raggiungibile solo attraverso una stradina che si spingeva erta verso il cuore della foresta.
Alba ha voluto presentarci al personale, lo stesso che aveva abitato la villa per anni, fin dall'arrivo del primo proprietario. Mantenerli al nostro servizio era stata la condizione sine qua non per l'acquisto della casa. C'erano due ragazze con un sorriso stampato sulla faccia, i cui nomi difficili da pronunciare ho dimenticato subito dopo averli sentiti. E Chai, il giardiniere-tecnico della piscina e tuttofare. Insolitamente alto, sulla cinquantina, con la faccia da vecchio e gli occhi da ragazzo. Anche lui ha sorriso, ma poco. Dopo averci salutati con piccoli gesti della testa, ha fatto un passo indietro ed è rimasto a guardare. Il cerimoniale delle presentazioni è durato poco, quel tanto che è bastato a farmi sentire a disagio. Le ragazze sono tornate alle loro faccende e Chai, senza che avesse ancora pronunciato una parola, se ne è andato a piedi su per la stradina che costeggia il parco della villa.
A quel punto eravamo rimasti solo io e Jolanda, in quella casa immensa, piantata sulla cima di una collina e circondata da migliaia di ettari di palme da cocco che la isolavano dal resto del mondo. Dentro era una casa ancora sconosciuta ma piano piano sarebbe diventata anche nostra. I primi mesi sono passati senza lasciare segni evidenti. Jolanda si occupava dell'arredamento della villa con una frenesia preoccupante: era entrata in un vortice fatto di set di bicchieri e conchiglie da collezione. Sollevava, spostava, dava ordini allo sparuto personale di servizio che, incredulo, studiava con occhi straniti e sorrisi a profusione quella strana donna con un'inspiegabile fissazione per tende e paralumi.
Con l'arrivo di giugno fecero la loro comparsa i primi ospiti. Colleghi di lavoro miei, ma soprattutto di mia moglie. E per "colleghi di mia moglie" intendo quella sterminata cerchia di inutili scrocconi che ancora riusciva a trascinarsi dal suo ambiente di lavoro. Gente con cui, volente o nolente, rimanevo invischiato, pur limitandomi a bere il mio Chivas in disparte e annuire generosamente. Cominciavo a sentirmi solo e in uno stato di insofferenza verso le persone che venivano da fuori, stato che si acuiva con il passare del tempo. Agli occhi di quei finocchietti alternativi traboccanti creatività e cultura pop apparivo forse come un vecchio trombone misantropo troppo pieno di sé per partecipare alla vita di gruppo. La realtà è che cominciavo a percepire il mio isolamento e più ne prendevo consapevolezza e più non desideravo altro che di stare solo. Per pensare. Seduto sul mio terrazzo, lo sguardo rivolto all'oceano. A cosa pensassi tutto quel tempo non so dire. Affogavo in un vortice di pensieri inconsistenti mentre il ghiaccio mi si scioglieva nel bicchiere. La sera mi ritiravo presto, sedevo sul balcone a respirare profondamente e pensavo alla mia vita, che da lì mi sembrava lontana, facile da spiegare come la vita di un altro, mentre dal patio al piano di sotto mi arrivavano scoppi di risate e brandelli di conversazione che mi riportavano alla realtà per poi disperdersi nel brusio indefinito. Forse l'avevo trovato io l'equilibrio che cercava Jolanda…
Una sera sono sceso per riempire il bicchiere, già maldisposto per le inutili frasi di circostanza che mi avrebbero aspettato di sotto. Ho intravisto alcuni amici di mia moglie seduti sul patio, mi sono avvicinato, ma stranamente gli sguardi erano rivolti altrove. Appena più in là Jolanda stava parlando in modo animato con Chai e facendo dondolare pericolosamente il suo margarita gli spiegava in tono rabbioso che «certe cose non dovrebbero MAI succedere». Chai aveva lo sguardo preoccupato, o così mi pareva. Ascoltava e annuiva in silenzio mentre mia moglie proseguiva nel suo monologo, quasi in dovere verso la piccola platea che aveva smesso all'improvviso il suo brusio e stava in un silenzio attento e falsamente disinvolto.
«Nello, meno male che sei qui, stavo giusto spiegando a Chai che Marina è rimasta insaponata sotto la doccia per mezz'ora, prima che tornasse l'acqua calda. Per piacere spiegagli tu come funziona nei paesi civilizzati». Ho pensato a Marina insaponata sotto la doccia e ho subito scacciato quel pensiero fuorviante. Sentitomi tirare in ballo in quel modo, non ho fatto altro che portare avanti il compito assegnatomi attaccando a parlare a bassa voce, desideroso di dimostrare ai presenti che ci può essere un modo pacato e deliziosamente nobile per affrontare le divergenze. Con voce composta e sorriso affabile ho spiegato a Chai come i problemi andassero affrontati prima del danno, che non si può semplicemente prendere atto delle conseguenze ma semmai farvi fronte per un'eventualità futura. Chai annuiva meccanicamente e mi guardava in un modo divertito che sapeva di presa in giro. Non capivo perché sorridesse mentre ripeteva in modo meccanico «it's ok, it's ok». Mi sono reso conto che la mia voce si alzava gradualmente, grazie anche alla tripletta di whisky che già avevo in corpo. All'ennesimo it's ok, completamente consapevole dell'inutilità dell'impresa in cui mi ero invischiato e di essere sotto attento esame da parte dei presenti, ho preso a rispondere IT'S NOT OK. L'ho urlato. Due, tre, quattro volte, non ricordo. IT'S NOT OK, IT'S NOT OK continuavo. Gli sbraitavo a venti centimetri dalla faccia gesticolando con il bicchiere vuoto in mano. Particelle di saliva in controluce. Ricordo che poi c'è stato silenzio. Persino Jolanda era travolta da quel sentimento a lei sconosciuto che è l'imbarazzo. Mi sono ritirato in camera, furioso. Furioso per aver perso il controllo, per averlo perso ai danni di Chai. E furioso per aver permesso a quei quattro cagoni di vedermi fuori di me, per avergli offerto un così ghiotto argomento sul conto di Nello Marangoni.
Il giorno dopo speravo di incontrare Chai, anche se non sapevo come mi sarei comportato. L'ho incrociato solo verso sera, mentre usciva furtivamente dalla mia stanza. Sulla scrivania ho trovato un piccolo sacchetto che di certo era stato lui a lasciarmi. L'ho aperto imbarazzato e ho visto che conteneva della marijuana e l'occorrente per fumarla. Un gesto incomprensibile. Mi sono seduto alla poltrona e ho acceso la canna, la prima dopo lunghissimo tempo.
Da quel giorno, ogni sera ho fumato grazie a lui e, inutile dirlo, all'insaputa di mia moglie. Mi sentivo stupido, in un certo senso. Il professionista di successo con i vizi di un ragazzino. Eppure tra un lampo di indecisione e un altro, mi chiedevo per quale motivo anni addietro avessi abbandonato questa pratica. E in questo gioco innocuo avevo un complice che settimanalmente mi faceva trovare cinque grammi di erba proveniente dalle piantagioni che si estendono a perdita d'occhio nel nord-est del paese. E senza guadagnarci un centesimo.
L'erba mi aiutava a pensare, a tollerare molto più serenamente la lunghezza delle giornate. La distanza tra me e Jolanda. L'invasione dei suoi ospiti. Iniziai a scambiare qualche frase con Chai. Parlava un inglese fatto di una trentina di parole e perciò ci aiutavamo con ogni tipo di gesto. Talvolta, mentre lavorava, scendevo per fare una pausa dal mio lavoro e mi mettevo a osservarlo. Altre volte lo invitavo io di sopra a fumare. Stavamo in silenzio a lungo, con lo sguardo verso il mare. Ogni tanto scambiavamo qualche parola e lui rideva alle mie battute con un sorriso luminoso.
Una sera mi ha invitato nella baracca degli attrezzi che era diventata la sua casa. Con un cenno furtivo mi ha chiesto di scendere ed è scomparso dietro le piante che costeggiano il sentiero. La porta della baracca era socchiusa. Chai mi aspettava seduto a un tavolo di ferro mezzo arrugginito su cui stavano una bottiglia di Mekhong e due bicchieri. Mi sono versato un bicchiere di questa specie di rhum distillato dalla canna e dal riso. E poi un altro, e un altro, e così via. La prossima volta porto una delle mie bottiglie di Cardhu dodici anni, gli ho detto. Ma chissà poi se ha capito. Salutandomi sulla porta mi ha guardato negli occhi lucidi mentre con le mani si reggeva sulle mie spalle: «Thai people smaaaail, smaaaaaail, big smaaaaail, but they don't like farang».
Credo di averlo sempre sospettato.
Dire che siamo diventati amici non è esatto, considerata la distanza incolmabile che ci divide. Ma non ho bisogno di amici alla mia età. Ho trovato invece un essere affine, unico sfogo in un momento di grande e provvidenziale solitudine.
Avremmo dovuto tornare a Milano per l'inverno, questi erano i piani, ma non l'abbiamo fatto. Senza che né io né Jolanda affrontassimo l'argomento, la partenza è stata rimandata a un giorno imprecisato.
Con settembre sono arrivate anche le piogge; abbondanti e purificatrici, le vedevo arrivare dall'alto di quella che era diventata la mia postazione preferita. Spesso, mentre lavoravo sul terrazzo, mi capitava di vedere la pioggia che arrivava da lontano in immensi scrosci incurvati dal vento. Sentivo il picchiettio delle gocce che a milioni battevano sulle foglie delle palme nella vallata sotto di noi, ne sentivo arrivare il rumore attutito, un suono strano che risvegliava dentro di me emozioni primitive. Prima arrivava il vento che faceva sbattere le imposte e spazzava tutto intorno i fogli su cui stavo lavorando. Mi mettevo a guardare la bufera che si avvicinava mentre ancora sopra di me non cadeva una goccia e – starò pure diventando vecchio sentimentale e rincoglionito – ma in quei momenti mi sentivo commuovere. Mi sentivo come Noè che ha appena messo i remi in barca e si mette lì ad aspettare che si scateni il putiferio, sperando in cuor suo che dio gliela mandi buona. E il putiferio arrivava puntuale mentre le donne di servizio si sparpagliavano di qua e di là per chiudere le imposte e i loro bambini correvano dappertutto contagiandomi con la loro eccitazione. Questi sono i momenti che ricordo con più nostalgia.
Le piogge non solo erano in sintonia con la mia voglia di solitudine, ma allontanavano anche gli ospiti, che si facevano via via più radi. È stato in quel periodo che ho iniziato a mangiare, e a dormire per sei ore di fila senza che il tokai mi svegliasse in piena notte. Di cercare altre donne non ne avevo l'esigenza, forse per via dell'età, forse perché a Milano era tutto molto più semplice. Ho perfino smesso con le lamentele e Jolanda ne pareva soddisfatta, gettandosi con più slancio che mai nell'arduo compito di civilizzare il personale. Spesso discuteva con Chai a causa del modo tutto singolare che aveva lui di rattoppare qualsiasi cosa senza la benché minima attenzione per il risultato estetico. Io ormai ero spudoratamente dalla parte di lui a mi godevo gli alterchi come un ragazzino guarda un bisticcio tra il fratello e la madre, soddisfatto di non essere lui l'oggetto della disputa.
Un giorno Chai si è offerto di accompagnarmi in un negozio dove avrei potuto trovare dei sigari. L'offerta mi è sembrata strana perché sapevo che Chai non ci teneva a farsi vedere con me dalla gente del posto al di fuori della villa. E ho preso questa offerta come un gesto di intesa, è già un risultato, pensavo mentre me ne stavo aggrappato dietro di lui che guidava il motorino e ogni tanto alzava la mano in segno di saluto verso le persone che incrociavamo lungo la strada. L'asfalto disastrato sotto di noi tagliava in due la foresta che ci scorreva ai lati. Solo thailandesi su motorini stracarichi di merce e di bambini, e fuoristrada con decine di persone che, in piedi sul cassone, tornavano dal lavoro. Ai lati della strada le donne riposavano sotto baracche di legno. Solo ogni tanto passava qualche turista, diretto di sicuro da tutt'altra parte. Recuperati i sigari, Chai mi ha indicato qualcosa sulla collina alla nostra destra. «You come, I show you something» mi ha detto battendosi una mano sul petto. Mi ha portato in una capanna fatiscente nel mezzo della foresta. Per arrivarci abbiamo dovuto farci strada fra sterpaglie e piante dai frutti strani. «Second house» ha detto in un sorrisetto mentre con una leggera pressione apriva la porta che sembrava stare su per miracolo. Dentro c'era un tizio seduto, che al nostro arrivo non ha fatto una piega. Come si chiamava non lo ricordo, avrà avuto sì e no la mia età, o forse era più rovinato del dovuto. Sfoderando un sorriso senza incisivi ha tirato fuori da una cassa di legno una bottiglia di Mekhong e tre bicchierini lerci. Accanto a lui c'era un bong che ha caricato in poco tempo. Mi sono seduto scompostamente per terra, indeciso se prendere e andarmene con una scusa. Ma come? Non sarei stato in grado di tornare da solo e a piedi. Allora ho preso il bong che mi porgeva Chai e ho cominciato ad aspirare. E mentre facevo ribollire l'acqua putrida pensavo a come avrebbe reagito Jolanda nel vedermi lì in quel momento. Pensavo a Rambaldi – il mio editore – e a tutti gli altri tromboni del circolo. Pensavo a loro, a cosa avrebbero detto. Nello Marangoni ha completamente sbroccato. Dicono che vada in giro per la foresta con due disperati del posto. E indovina cosa: si è dato all'uso della marjuana. Passi l'alcol, la cocaina la posso anche capire, ma perdio, questo si fuma le canne.
Erano passati più di sette mesi da quando ci eravamo trasferiti in Thailandia. Una mattina Jolanda ha bussato al mio studio, cosa che capitava molto di rado, soprattutto negli ultimi tempi. Mi si è parata davanti alla scrivania e ha aspettato che io alzassi lo sguardo dal testo che stavo leggendo. Ho atteso qualche secondo, per puro dispetto.
«Hai vinto tu» ha attaccato con quell'aria che non promette niente di buono.
«In che senso» le ho detto guardandola da sopra agli occhiali da lettura.
«Torniamo pure a Milano».
È rimasta a guardarmi come se si aspettasse da me un'espressione diversa. «Sì, torniamo pure a casa, io non ce la faccio più».
Non ce la faceva più a combattere con il personale, si sentiva «presa in giro», mi diceva trattenendo strenuamente le lacrime. «Che mi detestino è normale, ci sono abituata anche nel lavoro e ci posso passare sopra. Ma qui... c'è tutto un modo troppo diverso per fare le cose. E poi mi mancano le mie comodità. La gente... in questi mesi non è passato nessuno a trovarci, nessun contatto con il mondo, mi capisci, no?» Si è messa in attesa con un'espressione vagamente ridicola.
«D'accordo» le ho risposto. Non era il momento di discuterne. Volevo che andasse a letto convinta di avere avuto torto. Ne avremmo parlato il giorno dopo. Le avrei detto che io restavo lì, che a Milano non c'era niente che mi servisse. Non avrei lasciato il mio balcone, e le giornate che qui sembravano così facili. Sarei rimasto lì da solo, a invecchiare, se possibile. Forse solo per qualche mese. Forse di più. Però «d'accordo», le ho risposto, e sono tornato alle mie carte.

farang: termine thailandese usato per indicare gli stranieri di origine europea.


© 2011 Silvia Monteverdi