Michela Tilli, Sacro Cuore




D
Don Maurizio attraversò le navate con il passo svelto, lieve per abitudine, di quando era solo e non doveva rendere conto a nessuno. Passò rapido davanti all’altare, senza voltarsi, e l’istintivo irrigidirsi del collo gli rammentò un’epoca in cui si sarebbe fermato, anche se andava di fretta, e avrebbe piegato il ginocchio e chinato il capo, mentre i pizzi che orlavano il marmo, i grossi ceri spenti e la sagoma nera del crocifisso di bronzo che incombeva a mezz’aria scivolavano via.
Michela Tilli
Confinato in una grigia periferia cittadina, alle prese con una comunità di vecchi bigotti e un gruppo di adolescenti arrabbiati, don Maurizio riflette sulle sue scelte e si accorge di aver smarrito le risposte. Quando un giorno compaiono dei segnacci neri sul dipinto del Sacro Cuore, e già qualche vecchia bigotta chiama in causa il demonio, quando una ragazzina gli urla in faccia tutta l’assurdità della vita, finalmente Maurizio capisce che rinunciare alle risposte è un buon punto di partenza per capire gli altri e poter fare qualcosa per loro…
Michela Tilli è nata a Savona e vive a Monza, dove si divide fra il lavoro con le case editrici, i suoi due bambini e la scrittura. Per Fernandel ha pubblicato diversi racconti, e soprattutto i romanzi La vita sospesa e Tutti tranne Giulia.
La chiesa era vuota e fredda, anche più del solito: il debole raggio di sole che filtrava dalle vetrate non era che un’illusione.
Con impazienza raggiunse la cappella situata alla sinistra del portale, dove si trovava il dipinto del Sacro Cuore di Gesù che dava il nome alla chiesa di Treccascine e che da molti decenni – da quando il fuoco si era mangiato tutto lasciando intatta solo l’immagine sacra – raccoglieva attorno a sé le offerte e gli ex voto di chi aveva da chiedere una grazia o si era convinto di averla ricevuta. Venivano anche da fuori, per curiosare o per lasciare biglietti, fotografie incorniciate, cuori di stoffa, reperti di natura sospetta adagiati nell’ovatta. Maurizio era già passato da lì, quella mattina, quando all’alba era rientrato in canonica ed era andato ad aprire il portale, ma, forse per stanchezza, forse perché evitava sempre di guardare quell’orrenda accozzaglia di pegni, non aveva notato niente di strano.
E così la telefonata del vescovo l’aveva colto di sorpresa. Il suo superiore era terribilmente adirato, la voce gli tremava e gli mancavano le parole, e le poche frasi ellittiche cui dava fiato erano urlate e dirette a lui come un insulto in mezzo a una lite già avviata, al punto che sulle prime Maurizio non era riuscito a capire il vero motivo della chiamata.
Ci siamo, aveva pensato con un certo sollievo, qualcuno mi ha visto, le voci gli sono giunte all’orecchio, accada quel che deve accadere, non cederò alla tentazione di giustificarmi.
E invece, lasciando sedimentare i silenzi furiosi del vescovo tra una frase e l’altra, piano piano aveva capito che c’era dell’altro. Il monsignore gli stava dicendo, è vero, che non lo riconosceva più, che aveva superato il limite, che il suo comportamento era intollerabile, ma si riferiva a qualcosa che era accaduto in chiesa quella mattina, qualcosa di cui lui non era ancora al corrente, perché la donna che ne era stata testimone – ed era in questo particolare che l’alto prelato trovava la massima espressione della sua colpa – invece di rivolgersi a lui era scappata a cercare aiuto altrove. E rimbalzando di bocca in bocca, quasi a farlo apposta se si voleva essere maliziosi, la notizia in poche ore era giunta fino alle porte della città, dentro al vescovado, lasciando Maurizio del tutto ignaro, a crogiolarsi beato nei dolci ricordi della notte passata fuori.
Pareva che alle otto di quella mattina la vedova Tusi si fosse recata in chiesa come ogni martedì per accendere un cero al Sacro Cuore di Gesù, e che, giunta davanti al dipinto, nella penombra della cappella, si fosse accorta subito che qualcosa non andava, perché la montagnola di ex voto, biglietti e fiori, di solito così ordinata, era invece sparpagliata per terra e come calpestata; alzando lo sguardo all’immagine, poi, la vedova vi aveva visto sopra i segni del demonio che la insudiciavano e, superato il momento di mancamento, era fuggita fuori a cercare aiuto, guardandosi bene dal chiamare il parroco, che, per quanto ne sapeva lei, aveva ostacolato l’adorazione del sacro dipinto fin dal primo giorno del suo ministero.
Ora Maurizio avrebbe visto con i suoi occhi, avrebbe capito il perché di tanta agitazione.
Una candela bianca, con lo stoppino ancora nuovo, era rotolata in mezzo alla navata. Sul pavimento della cappella regnava una gran confusione, come se qualcuno avesse spazzato via tutti gli oggetti che incontrava per farsi strada verso il dipinto. In fondo, sopra l’altarino ricoperto di panno rosso, si ergeva, più lugubre del solito, la tela alta quasi due metri, con il Cristo che teneva tra le mani congiunte un cuore fumante e sanguinolento, sul quale spiccavano evidenti tracce nere.
Maurizio pensò che la rappresentazione era già così oscena nel suo realismo, che nessun segno estraneo comparso nella notte avrebbe potuto renderla più brutta. E poi, a guardare bene, i segni del demonio avevano qualcosa di leggero ed elegante, un tratto che non doveva essere facile ottenere impugnando una bomboletta spray. Sul cuore spiccavano, nere, le iniziali M. e C. e una freccia di cupido che lo attraversava da parte a parte.

Cazzo, pensò Ramona guardando la carta igienica bianca. Ancora niente.
Si alzò in piedi e gettò la carta nella tazza, poi si tirò su le mutande e uscì dal bagno.
Mary l'aspettava in camera, seduta sul letto, il cappotto ancora indosso, lo zaino sulle ginocchia e lo sguardo perso davanti a sé.
«Niente», le annunciò Ramona entrando. «Stavolta ero sicura che mi erano arrivate. Invece niente. Manco l'ombra».
Si sedette accanto a Mary, poi, visto che l’amica non diceva nulla, sbuffò e lasciò cadere la testa sul cuscino. Ramona non era sicura che avesse capito quello che le aveva detto, e forse non capiva nemmeno quello che stava succedendo. A scuola tutti la chiamavano la stordita, ma c’era qualcosa di innocente in lei che a Ramona piaceva. E le piaceva anche quel suo modo di seguirla come un cagnolino fedele, senza fare domande, come quella mattina che avevano saltato le lezioni insieme.
«E ora che cazzo faccio?»
Mary immobile si guardava la punta delle scarpe. «Magari non è niente», sussurrò.
Ramona si alzò di scatto. «Niente? È un ritardo di una settimana. Non mi è mai successo».
«Se ci sono rimasta è un gran casino», aggiunse, sedendosi di nuovo.
Afferrò i pantaloni che aveva gettato sul letto e li indossò. Poi si infilò le scarpe da ginnastica senza allacciare le stringhe e raccolse da terra giubbotto e zaino.
«Dai, andiamo. L'unica è fare il test» disse infilando il corridoio.
Mary, sempre seduta con lo zaino in grembo, la guardava con la bocca aperta.
«E dai, muoviti, stordita!»
Si pentì subito di averla apostrofata in quel modo, ma Mary non mostrava di essersela presa. Come se si fosse all’improvviso svegliata, si era alzata e l’aveva seguita lungo il piccolo corridoio che divideva le due stanze dal soggiorno, che era anche la camera da letto del fratello maggiore di Ramona. Attraversando la stanza da una parte all’altra, Ramona prese a frugare in ogni angolo. Poi, imprecando, ficcò le mani sotto i cuscini del divano letto. Finalmente esultò.
«Guarda guarda che bei bigliettoni nasconde quello stronzo», disse mostrando a Mary un rotolo di banconote legate con un elastico. «Sapevo che li teneva qui da qualche parte. Non posso prenderli tutti, se no se ne accorge. Dieci basteranno».
Uscirono veloci di casa. Sul pianerottolo era accesa una sola lampadina intermittente e dalla finestra del mezzanino filtrava una luce opaca. In ascensore trattennero il fiato per non sentire l'odore di piscio e fumo, poi volarono fuori a respirare l'aria pesante della pianura.
Ramona si diresse verso il parcheggio.
«Dai, prendiamo il motorino di mio fratello» disse facendo tintinnare in aria le chiavi. «Oggi sono passati a prenderlo con la macchina».
Mary la guardò allarmata.
«Non avrai paura, vero?»
«No, ma…»
Prima che potesse obiettare, Ramona montò sul motorino.
«Non possiamo mica andare in farmacia a Treccascine! Che gli racconto, che il test di gravidanza è per mia madre?»
A quelle parole Mary ebbe un sussulto.
Ramona si spazientì.
«Bisogna andare di là dalla tangenziale. Dai che voglio far presto, voglio farlo prima che rientrino mia madre e mia sorella».
«Ma non ho il casco», osservò timidamente Mary.
«Neanch'io, ma che ti frega? Qui non ci vengono, e se ci vengono, mica ce l’hanno il coraggio di fermarci».
Ramona aveva già acceso il motorino e lo stava spingendo giù dal cavalletto.
«Allora vieni con me o no?»
Mary si issò lo zaino su entrambe le spalle e, tenendo quello dell'amica scostato da una parte, si abbarbicò in fondo al sellino.
«Fa’ il giro largo, però. Non passare davanti a casa mia. Se la mamma mi vede…»
«Sì, lo so, se ti vede sono cazzi», concluse Ramona e partì.

La chiesa del Sacro Cuore si affacciava sull’unica piazza di Treccascine, di fronte a un bar tabacchi che portava sull’insegna la scritta "Bar del Centro", ma che per tutti era semplicemente "da Umberto". Vista da settentrione poteva anche sembrare una chiesetta di campagna, con il campanile e la canonica da una parte, e dall’altra un viottolo che la sfiorava e continuava verso il cimitero, sparendo sotto un arco di mattoni; e intorno l’ombra di un borgo, fatto di poche case basse dai muri umidi e i tetti rossi. Oltre le case vecchie, in lontananza, si vedevano solo campi di granoturco, cascine sparse, qualche auto sgangherata.
Ma bastava cambiare prospettiva per vedere gli scarti della città che avanzavano a inglobare tutto: a nord la piazza si restringeva in un accenno di strada, che ospitava un alimentari e una farmacia, per poi riaprirsi in un parcheggio senza limiti definiti, perché quello che sembrava un marciapiede non era mai stato ultimato, e l’asfalto degradava in un terrapieno e in un prato che prato non si poteva più chiamare. Era una specie di passaggio, i piedi della gente del posto vi avevano scavato una pista, dove nel progetto originale doveva dipanarsi un vialetto che dal parcheggio portasse agli otto immensi caseggiati del piano di edilizia popolare, collegati tra loro a formare una specie di quartiere, non ancora finiti o forse già rovinati, d’un arancione scrostato, i panni stesi insieme a qualche striscione di protesta dimenticato, le antenne paraboliche e i condizionatori che sbucavano ovunque come funghi sulle facciate. Erano le Torri di Treccascine, avamposto della città, promessa di casa, labirinto di scale ammuffite e finti cortili dove il sole non riusciva a penetrare. Alle loro spalle il traffico della tangenziale, che non aveva ingressi né uscite nel raggio di chilometri, scorreva protetto da alti pannelli grigi, interrotti all’altezza del cavalcavia che congiungeva Treccascine con la zona industriale della Ghisa, alla periferia sud della metropoli.
Maurizio era stato trasferito a Treccascine due anni prima, quasi per punizione, alla morte del vecchio parroco del paese, e vi aveva trovato una comunità ostile e sospettosa, che dopo la messa attraversava la piazza per bere l’aperitivo al bar di fronte e attendeva di estinguersi per cause naturali, arroccata intorno ai racconti sul Sacro Cuore e i suoi miracoli. L’ostilità era diventata guerra aperta, quando, aggirate le resistenze del vescovo, Maurizio aveva aperto nei locali della canonica un centro di aggregazione per i ragazzi delle Torri, e la piazza si era improvvisamente riempita di motorini che smarmittavano a tutte le ore, mentre da Umberto erano comparsi il biliardino e i videogiochi.
Maurizio andò a chiudere il portale, poi percorse la navata dal lato opposto per assicurarsi che non ci fossero in giro altri scherzi del diavolo. Il vescovo sarebbe arrivato di lì a poco, per accertarsi di persona dell’accaduto e per dargli disposizioni. Si sarebbe inginocchiato a pregare, si sarebbe fatto il segno della croce, e si sarebbe aspettato da lui lo stesso comportamento.
Aveva chiesto a Saverio chi potesse aver fatto una cosa tanto imbecille, ma il ragazzo aveva giurato di non saperlo, anche se al telefono Maurizio aveva percepito la sua agitazione. Gli aveva anche chiesto se sapeva chi erano M. e C., ma a parte un silenzio imbarazzato, non aveva ottenuto nulla.
Al telefono con il vescovo, naturalmente, aveva avanzato l’ipotesi che i vandali fossero venuti da fuori, ma entrambi sapevano benissimo che si trattava di qualcuno del centro di aggregazione. Approfittando della sua assenza, erano entrati in tutta tranquillità passando dalla canonica, della quale circolavano di mano in mano parecchie copie di chiavi. Le foto comparse subito sul loro blog rappresentavano la ciliegina sulla torta. Un vero colpo di genio. Quella bravata avrebbe rovinato il duro lavoro di anni: tutti di nuovo in mezzo alla strada, in quel cumulo di immondizia nel quale erano nati. E per lui era il capolinea, crollata anche l’ultima delle sue motivazioni. Il vescovo gli aveva ordinato di chiudere immediatamente il centro, non toccare niente e tenersi a sua disposizione per l’intera giornata. Quando Saverio lo aveva raggiunto per portarsi via il computer, aveva gli occhi rossi e le labbra strette di uno che ha troppe cose da dire.

«Ce l'ho solo doppio. Costa 19 euro e 50», disse la farmacista osservandola da sopra gli occhiali.
«Come 19 euro? Per un test?»
«Due».
«A me ne serve uno, cioè, non è per me. Ma insomma, alla mia amica ne serve solo uno».
«A volte per sicurezza bisogna rifarlo, il test. Comunque, mi dispiace, ho solo questo. Se vuoi puoi tornare oggi pomeriggio, posso ordinarlo. Oppure puoi provare in un'altra farmacia, a Treccascine, è vicina, devi solo…»
«Sì, sì, lo so dov’è. Aspetti un attimo che chiedo alla mia amica».
Ramona mise la testa fuori dalla porta. Mary stava sul marciapiede, incollata al muro, con lo zaino ancora ben fissato sulla schiena.
«Ehi, che fai ti nascondi? Senti, non è che hai dei soldi da prestarmi? Poi te li rendo»
«Ho dieci euro, ma sono…»
«Ok, sono perfetti».
«Ma non posso darteli tutti…»
«Dai, non fare lo scoglio, t'ho detto che te li rendo, quando arriviamo a casa».
Mary ci pensò su ancora un po’, passando il peso da un piede all’altro, poi estrasse dalla tasca un vecchio portamonete e da questo una banconota piegata molte volte, che Ramona le strappò di mano sparendo nuovamente nella farmacia.
Ne uscì qualche minuto dopo con un pacchetto incartato, lo infilò nello zaino e filarono via. In motorino, tagliarono per la zona industriale, aggirarono il campo da calcio e sbucarono sulla provinciale che portava al cavalcavia, in vista del complesso delle Torri.
Superato il cavalcavia, vedendo da lontano che c’era gente alla fermata dell'autobus, dove in mancanza di una panchina qualcuno aveva sistemato delle vecchie sedie di paglia sotto la tettoia, Mary batté una mano sulla spalla dell’amica. Ramona si fermò per farla scendere.
«Ti conviene tagliare a piedi per il campo. Ci vediamo da me fra dieci minuti?»
«Come vuoi», rispose docile Mary, ferma sul ciglio della strada, in attesa che l’amica partisse.
«E muoviti! Sei tu che sei a piedi!», le ingiunse Ramona.
Poi sfrecciò via verso il parcheggio.
Un quarto d'ora più tardi Mary era sul pianerottolo.
Le aprì la porta Ramona in felpa e mutande. Le gambe cicciottelle erano arrossate dal freddo e dalla stretta dei jeans.
«Ce ne hai messo, cazzo. Vuoi proprio farmi perdere tempo. Dai, entra».
«Non l'hai ancora fatto? Quanto ci vuole?», chiese Mary richiudendosi la porta alle spalle.
«Pochissimo. Ma non voglio mica farlo da sola. Ti ho aspettato. E togliti ’sto cazzo di cappotto per una volta, dai».
Ramona aveva in mano il foglietto delle istruzioni e a piedi nudi andava avanti e indietro dal bagno al soggiorno picchiandosi con una mano sul sedere. Quando vide che non usciva più dal bagno, Mary la seguì dentro. Ramona era seduta sul coperchio del water.
«Vedi, devo pisciare su questa barretta e poi qui si vede il risultato», le spiegò. «Una riga è ok, due righe sono fottuta. Non ci riuscirò mai».
«Ah», disse Mary.
«Solo ah sai dire?»
«Be’ non sembra difficile».
«Già, fallo tu, allora».
Il cellulare di Ramona mandò due note acute dalla camera. Poi altre due.
«È il bastardo. Sicuro come l'oro».
Ramona andò a leggere il messaggio.
«Che ti dicevo? Vuole sapere se ci vediamo stasera. E ora che gli dico?»
Mary si guardava la punta delle scarpe e tormentava nella tasca il portamonete vuoto.
«Dai, non ce n’è, devo fare ’sto cazzo di test. Devo farlo sparire prima che arrivano Giada e mia madre».
Mary la lasciò passare e si fece piccola in un angolino.
«Perché non lo fai anche tu? Ce ne sono due», le disse Ramona scoperchiando il water. «Dai, mettiti lì sul bidet. Ma prima posa in camera mia lo zaino e il cappotto. Così conciata mi fai impressione».
«Io?», protestò debolmente Mary.
«Certo! Sei o non sei la mia amica? Non vorrai lasciarmi sola proprio adesso, cazzo. E poi a te che differenza ti fa?»
Mary andò in camera a posare le sue cose e tornata in bagno guardò Ramona, con le mutande calate e la barretta del test in mano. Sotto la felpa si intravedeva una macchia scura di peli. Prese la barretta che Ramona le porgeva e timidamente si tirò giù i calzoni e le mutande mentre si accucciava sul bidet. Ramona si sedette sul water e la guardò.
«Se non apri un po’ le gambe non riuscirai mai a pisciarci sopra. Dai che se ti vergogni mi volto. Pronta? Prendi la mira».
Mary armeggiò con la barretta, tolse il cappuccio come le aveva spiegato l’amica e la tenne sotto di sé.
«Non mi viene».
«Come non ti viene?», sbottò Ramona trattenendo la pipì.
«Bevi, cazzo. Dai, bevi, che a me ormai mi scappa».
Mary si tirò su le mutande e con i pantaloni ancora calati si attaccò al rubinetto del lavabo.
«Che, hai paura che ti guardo il culo? Ma sarai mica lesbica? Sbrigati che mi scappa».
«Un momento, aspetta, dammi un minuto».
«Se Igor entra e ti trova così?», la prese in giro Ramona.
Mary corse a sedersi e chiuse gli occhi.
«Va bene. Non guardarmi però».
«Oh, che stress che sei».
Pisciarono sopra le barrette cercando di colpire la parte assorbente. Con un lieve disgusto, Mary cercò di finire in fretta, si asciugò e si rivestì. Ramona, che non si era rimessa le mutande, ora sembrava meno spavalda. Teneva in mano il test e lo guardava preoccupata.
«Devi posarlo. Così, dritto», le disse Mary appoggiando il suo sul bordo della vasca. «C'è scritto qui», aggiunse accennando alle istruzioni che aveva raccolto da terra.
Ramona obbedì. Poi si prese la testa fra le mani e respirò forte.
«Deve passare qualche minuto, potresti rivestirti, intanto», le disse Mary con dolcezza.
Il cellulare di Ramona, appoggiato in terra, emise altre due note. La ragazza sparì in camera senza nemmeno guardarlo. Di sicuro era di nuovo Cristian. Poi tornò veloce in bagno e lo afferrò. Questa volta il messaggio era pieno di punti esclamativi. Diceva che dovevano assolutamente vedersi quella sera, perché Giacomo aveva fatto una cazzata e bisognava aiutarlo. Solo al suo amico Giacomo sapeva pensare, quello stronzo, non si era nemmeno accorto che lei era preoccupata. E lei non gli aveva detto niente del ritardo, perché temeva che sarebbe sparito, e senza Cristian non poteva vivere. Che poi invece magari non era niente e tutto sarebbe finito in una risata.

Si stava allontanando quando un rumore lo indusse a voltarsi. Qualcuno aveva spinto il battente per entrare. Dopo un momento di esitazione, il prete raggiunse l’ingresso principale e lo riaprì. Lo colse una piacevole sensazione di tepore. Fuori il cielo era luminoso e l’aria meno fredda. Una ragazza minuta, con uno zaino sghembo in spalla e un cappotto grigio sul braccio si stava allontanando come un topolino di campagna lungo il muro.
«Sei tu che hai bussato? Volevi entrare?», la richiamò.
La ragazza sussultò e si appoggiò al muro, poi si girò e Maurizio riconobbe la figlia di un tizio che ogni tanto andava a messa con la famiglia e che un paio di volte gli aveva dato a intendere che non apprezzava affatto il suo modo di condurre la parrocchia. Era una ragazzina triste, di circa quattordici anni, con gli occhi sempre bassi.
«Posso esserti d’aiuto?» le chiese.
«Io cercavo…» esitò la ragazza, ferma a qualche metro di distanza.
«Sì?…»
«Cercavo lei».
Sarebbe dovuta essere a scuola a quell’ora, ma non glielo fece notare. Lo incuriosiva. Non l’aveva mai vista in compagnia degli altri ragazzi. Una volta, finita la messa, si era fatto avanti e l’aveva invitata a partecipare a un incontro al centro d’aggregazione, ma il padre, posatale una mano sulla nuca, l’aveva trascinata via senza una parola. Adesso era un po’ diversa rispetto a come la vedeva in chiesa. Indossava dei jeans e un maglioncino attillato troppo corto, come le sue coetanee. Le avrebbe dedicato volentieri del tempo, non fosse stato per i problemi che aveva in quel momento. Spalancò la porta aspettando che tornasse indietro.
«Io stavo cercando proprio lei», ripeté la ragazza avvicinandosi. E aggiunse, abbassando la testa: «Mi chiamo Mary. Cioè, sarebbe Maria, ma le mie amiche mi chiamano Mary».
«Allora ti chiamerò Mary anch’io, se non ti dispiace. Io mi chiamo Maurizio, ma molti mi chiamano don, e qualcuno mi chiama anche padre».
Mary lo guardò incerta.
«Ma padre mi fa un po’ ridere», aggiunse lui facendole segno di passare.
Mary sorrise.
«È strano. Ti vedo spesso a messa, eppure non ci siamo mai presentati. Entra. Cosa posso fare per te?»
«Ho bisogno di… parlarle».
Maurizio scrutò il visino ovale, e notò che aveva degli occhi molto belli, marroni, con ciglia lunghissime. Le fece strada all’interno della chiesa.
«Ti va bene se ci sediamo qui?», le indicò una panca.
Mary si guardò intorno e non si mosse.
«Veramente…»
«Sì?»
«Veramente, volevo confessarmi».
Maurizio sentì una piccola stretta allo stomaco. Erano pochi, ormai, quelli che andavano a confessarsi, ed erano tutti vecchi, volti conosciuti che venivano da lui a intervalli regolari, o che andava a trovare a casa perché erano malati, e che gli raccontavano i loro pensieri e la loro solitudine. Sarebbe stato inutile e crudele dire loro che ormai si era convinto di non poter assolvere nessuno dai suoi peccati, anche se si era ormai persuaso che alcuni se ne sarebbero compiaciuti e avrebbero goduto maggiormente della sua attenzione.
Pensando alle preoccupazioni che potevano spingere una ragazzina a saltare la scuola per andare da lui, scacciò la sensazione di essere un impostore, il pensiero che fosse tutto sbagliato, e le sorrise.
«E qui non ti va bene?» le chiese dolcemente sedendosi per primo.
Lei annuì e gli si sedette accanto.
Le diede tempo, poi visto che non si decideva ad aprir bocca, parlò per primo.
«Allora, non ti vedo mai con gli altri ragazzi. Abiti alle Torri?»
«Sì. Be’, ecco, esco poco. Mio padre non vuole. A parte la scuola, intendo».
Poi visto che il prete la guardava in silenzio, arrossì e aggiunse: «Oggi l’ho saltata per venire qui. Lei non lo dirà a nessuno, vero? Voglio dire, non dirà nemmeno che sono stata qui…»
«No. Stai tranquilla. È una cosa che resterà fra te e me. A scuola ci devi andare, è importante, ma se era il solo modo per venire qui, ora non preoccupartene più».
«Io non l’avevo mai fatto prima, di saltare la scuola, lo giuro. Cioè, a parte ieri».
«Ieri?»
«Sì. Ieri ho aiutato un’amica e poi è successa una cosa…», disse Mary agitandosi.
«Stai tranquilla. Raccontami con calma. Sono qui per ascoltarti», la rassicurò Maurizio.
«Di quello che le dico, lei non può parlare con nessuno, vero?» gli chiese ancora la ragazzina.
Mentre le ripeteva che non l’avrebbe fatto, Maurizio sperò che non fosse coinvolta nella faccenda del dipinto.
«Ecco, io…», riprese Mary e lo guardò.
Lui le sorrise per incoraggiarla a continuare.
«…io aspetto un bambino».
Il sorriso si spense. Maurizio cercò di recuperarlo, ma ormai era un sorriso forzato, e allora cercò di non spostare lo sguardo da lei. Prese tempo, per non dirle la cosa sbagliata.
«Sei incinta?»
«Sì».
Ora lei si guardava le punte delle scarpe.
«Posso chiederti quanti anni hai?»
«Tredici».
Mio Dio, pensò lui. Avrebbe preferito che gli confessasse d’aver imbrattato il dipinto con le sue mani. Poi pensò a Chiara, alle loro lunghe discussioni, allo scontro che avevano avuto quando si erano conosciuti al consultorio, dove lui aveva accompagnato Gianna e Saverio due anni prima. Rievocò la sua dolcezza e cercò di immaginare che cosa avrebbe detto lei a quella bambina.
«E sei proprio sicura di essere incinta, voglio dire, sei già andata da un medico?»
«Sì. Prima ho fatto un test, ma l’ho fatto così, per tenere compagnia a una mia amica che aveva paura di aspettare un bambino. Io non potevo sospettare niente, perché non ho mai… insomma, non ho nemmeno un ragazzo. Ma il mio test era positivo, quello della mia amica no, e visto che mi sembrava impossibile, ieri pomeriggio la mamma della mia amica mi ha accompagnato da una dottoressa», raccontò Mary d’un fiato.
Maurizio cercò di cogliere il senso di quello che la ragazza gli stava dicendo.
«Cioè, fammi capire, tu dici di non aver mai avuto rapporti sessuali? È questo che vuoi dire?», le chiese pesando bene le parole.
«Io no, mai», confermò Mary arrossendo e scuotendo la testa.
«Guarda che non devi aver paura, io non sono qui per giudicarti e non ne parlerò con nessuno…»
«Ma è vero, lo giuro! Io non ho mai fatto niente, davvero!», lo interruppe lei agitata.
«Va bene, va bene, calmati. Volevo solo chiarire il fatto che, se non fosse che sei così giovane, non ci troverei niente di strano, e nemmeno niente di male, se venissi a sapere che…»
«Ma non c’è niente da sapere», insisté lei.
«D’accordo. E la dottoressa, cosa ti ha detto?»
«Che sono incinta», rispose Mary arrossendo ancora.
«Ma tu le hai detto che non hai mai…»
«Be’, certo», lo interruppe lei. «Ma non mi ha creduto, naturalmente», aggiunse poi tranquilla.
Maurizio rifletté un momento.
«Naturalmente, dici? Trovi naturale che un medico non ti creda?»
«Be’, subito mi sono arrabbiata, e ho pianto, perché nessuno voleva credermi. Nemmeno Ramona e sua madre… Ramona è la mia amica».
«Ramona Russo?»
«Sì. Siamo compagne di classe. Ma io, veramente, non avrei voluto dirle il suo nome, insomma non è lei la ragazza che doveva…»
«Non preoccuparti, lascia stare. Non parliamo di Ramona, adesso, parliamo di te», la rassicurò Maurizio. «Comunque, sua madre è una brava persona. È un bene che ti abbia aiutato», aggiunse poi.
«Sì, è stata gentile, anche se pensa che sono una bugiarda. All’inizio questa cosa mi faceva impazzire, ma poi ho pensato che in fondo, insomma, non è che tutti sono tenuti a credere…» Dondolò la testa di qua e di là, piano, mentre cercava le parole giuste. Maurizio cercò di non metterle fretta. «…insomma, a credere a quello in cui crediamo io e lei», concluse.
Una strana sensazione di disagio si impossessò di lui. Scrutò, in quel viso ovale, i grandi occhi castani, occhi limpidi, che non guardavano più il pavimento, ma si erano allargati come per cercare in lui una risposta.
«Io non sono sicuro di quello che stai cercando di dirmi…», le disse cauto.
«Be’, non tutti credono che certe cose possano accadere. Insomma, è per questo che sono venuta da lei, perché solo lei può aiutarmi. Lei mi aiuterà vero?»
Maurizio si sentì smarrito. «Certo che voglio aiutarti. Ma per poterti aiutare, ho bisogno che tu mi racconti tutta la verità. Io non ne parlerò con nessuno, se tu non vuoi, ma tu…»
«Io le ho già detto la verità», disse Mary con la voce che le tremava. «Io non so come sia successo, ma è successo. Ieri ero spaventata, non capivo, ma poi stanotte ho pregato e pregato. Ho pregato il Signore di spiegarmi che cosa mi stava succedendo, e ho capito che mi è successa una cosa più grande di me, che è tutto vero, che…» Mary si interruppe.
«Hai sentito qualche voce, sei forse stata visitata…» azzardò lui incerto.
«…da un angelo?», concluse per lui Mary arrossendo di nuovo. «No, ma ieri sera, mentre pregavo, l’ho saputo con certezza. Ecco, non saprei dire come, non si è trattato proprio di una voce, ma l’ho sentito, improvvisamente ne ero certa e ho pianto…», spiegò infervorandosi. «Improvvisamente non avevo più paura e quando mio padre…»
«Sì…?»
Lei lo guardò dritto negli occhi.
«Mi crede, vero?»
Ora era Maurizio a guardare in terra. «Vai avanti, cosa dicevi di tuo padre?»
«No, niente, io… Niente. Mio padre non lo sa. Non deve sapere niente. Lui mi ammazza».
Maurizio si chiese come avrebbe reagito dieci anni prima, si chiese che cosa avrebbe detto a quel punto un prete diverso, si chiese che cosa poteva far perdere la ragione a una bambina e si chiese che cosa un giorno aveva fatto perdere la ragione a lui, e che cosa era in fondo più folle, se i discorsi di quella ragazzina o tutta la sua vita fino a quel giorno.
«A tua madre l’hai detto?»
«No!», gridò Mary. «Lei non potrebbe capire! E lo direbbe a lui. Non fa niente senza il suo permesso. Lui mi uccide…»
«Mary, ascoltami…», le disse Maurizio prendendole una mano.
Mary s'irrigidì. Maurizio la lasciò prima di continuare.
«Ascoltami».
Mary sembrò calmarsi. Le lacrime cominciarono a scenderle lungo le guance.
«Tu sei molto giovane e ora sei molto confusa».
«Lei non mi crede!»
«Quello che dici è…»
«Ora mi dirà che sono… blasfema!», disse e i singhiozzi cominciarono a squassarle il petto.
«No, Mary, non era questo che volevo dire. Ascoltami… Io ti aiuterò, ma tu devi parlare con qualcuno che possa aiutarti a capire…»
«Se non mi crede lei…», sussurrò Mary.
«Ci sono persone molto gentili e competenti che possono aiutarti a parlare con tua madre…»
«No!»
«Ma davanti a loro, non avresti nulla da temere, sono persone in gamba, che vogliono il tuo bene…»
«Ho detto di no! Questo no», implorò Mary scuotendo la testa.
Si alzò.
«Lei non può dire a nessuno quello che le ho confessato», gli disse indurita.
Maurizio scosse la testa. «No, certo, ma tu rifletti. Avere un figlio alla tua età è una cosa…»
«Ma cosa sta dicendo?» urlò Mary. «Ma non ha capito quello che le ho detto?», gridò, mentre si allontanava sbattendo contro le panche come una palla del biliardo.
Maurizio si alzò e allungò una mano, come per raggiungerla.
«Parlane con tua madre, ti prego».
La ragazza si voltò e sparì di corsa.

Quando la moto sobbalzò sull’asfalto sconnesso, Ramona strinse più forte il giaccone di pelle di Cristian. Dopo aver svoltato sulla statale, raggiunsero la prima rampa della tangenziale e tornarono indietro per una decina di chilometri, verso il distributore di benzina dove lavorava Giacomo.
L’uomo grasso alla pompa salutò Cristian con un cenno e gli indicò il negozio. Giacomo era dentro, che mangiava un panino di fronte a un minuscolo televisore senza audio.
«Ehi, ciao», li salutò allegro.
«Ma che hai combinato, sei tutto scemo?», partì all’attacco Cristian senza neppure rispondere al saluto.
«Calma, calma. Non qui», lo zittì Giacomo, mentre lanciava occhiate furtive alla ragazza bionda che leggeva un fumetto seduta dietro la cassa. «Andiamo fuori, venite. Vi va qualcosa da bere?»
«Ma che bere e bere. Ti rendi conto del casino che è successo?», gli disse tra i denti Cristian tirandolo per un braccio.
Ramona si teneva a qualche passo di distanza. La sera prima, quando Cristian l’aveva messa al corrente dei guai in cui s’era ficcato Giacomo, non gli aveva prestato molta attenzione, ancora sprofondata nelle emozioni di quella lunga giornata. Prima la paura di essere incinta, poi il sollievo quando aveva visto il test negativo – e, naturalmente, nel giro di un’ora le erano arrivate le mestruazioni –, e infine lo stupore davanti al test positivo di Mary. Aveva pensato che dovesse esserci un errore, e d’altra parte Mary continuava a ripetere che non era possibile. Ma sua madre, che era sopraggiunta all’improvviso e aveva preteso delle spiegazioni, aveva capito subito come stavano le cose, e con molta dolcezza l’aveva convinta a farsi accompagnare al consultorio. Ramona era certa che con lei non sarebbe stata altrettanto comprensiva. Fortuna che le circostanze in cui Mary aveva fatto il test erano passate in secondo piano.
Cristian e Giacomo stavano ancora discutendo. Giacomo non capiva nemmeno la gravità di quello che aveva combinato, aveva assunto un’aria spavalda e sfotteva l’amico perché si mostrava tanto preoccupato. Dopo la scuola erano passati da Umberto, e la bravata del Sacro Cuore era già sulle bocche di tutti, anche se la chiesa era stata subito chiusa e in pochi erano riusciti a vedere il capolavoro dal vivo. Qualcuno aveva scattato delle foto con il cellulare, forse proprio Giacomo, e le foto erano persino comparse sul sito del centro, ma erano molto scure e non si vedeva niente. Un’altra bella idiozia.
«Quello stronzo non doveva provocarmi, dire che sono un codardo, e davanti a tutti…», stava dicendo Giacomo.
«Sei un coglione. Almeno potevi evitarti le foto. Ma ci hai pensato che potrebbe andarci di mezzo Saverio?»
«No, il responsabile è il don, è lui che compare. E a lui non gli fanno niente…»
«È incazzato come una iena».
«Be’, chi se ne frega. È incazzato perché l’hanno beccato che se ne sta a casa della sua donna, invece di stare al suo posto. Secondo te quanto ci mettono a fare due più due, eh? Ci prende tutti per il culo quello».
«Piantala, non è vero» intervenne Ramona, che non riusciva più a trattenersi. «Lui è dalla nostra parte, e quello che fa della sua vita non sono affari nostri».
«Ah, sì? Invece quello che faccio io della mia di vita sono affari suoi? Mi dispiace solo che non l’abbiano visto tutti, il mio capolavoro. Avrei voluto farlo prima della messa, ma un’occasione come ieri sera…»
«Hai fatto un gran casino. Ora ci hanno tolto tutto, a questo ci hai pensato?», disse Cristian.
«E poi sospettano già di noi…», aggiunse Ramona.
«Ma voi non sapete niente, hai capito stronzetta?», la zittì Giacomo.
«Oh, stai parlando con la mia ragazza, sta’ attento a quello che dici», la difese Cristian spintonandolo. «E poi non lo sappiamo solo noi. Al bar ne parlano tutti. A quanto pare non ti è bastata la bravata, dovevi anche vantartene. Come se avessi solo degli amici, poi. Non hai pensato a Domenico? Quello ti odia, ora gli basterebbe denunciarti, per mettertelo nel culo… Per non parlare dei casini in cui metti Silvia, c’era anche lei, no?»
«Lasciala stare, lei non c’entra», gli intimò Giacomo.
Il grassone si era voltato a guardarli da lontano.
«Vieni Cri, andiamocene, non serve a niente», disse Ramona, prendendolo per un braccio.
Giacomo fece un passo indietro.
«Ora devo tornare a lavorare. Fatti i cazzi tuoi, Cristian, che è meglio».
«Dai, vieni» ripeté lei.
Non gli aveva raccontato niente del test di gravidanza, ma nel vederlo così pronto a difenderla e così arrabbiato con il suo migliore amico, tutti i dubbi che aveva nutrito su di lui erano svaniti. Mentre risalivano in moto per tornare a Treccascine, decise che gli avrebbe confidato ogni cosa.

Finalmente alle tre i carabinieri se ne andarono. Il vescovo non si era fatto vedere, ma aveva mandato il suo segretario a controllare che tutto filasse liscio e che Maurizio non intralciasse le indagini. Il giovane sacerdote si era trattenuto pochi secondi davanti al dipinto, senza battere ciglio, poi aveva seguito i carabinieri dappertutto e a Maurizio aveva appena rivolto la parola. Maurizio aveva avuto l’impressione che fosse in imbarazzo e aveva mantenuto un cipiglio grave, quasi fosse offeso per la sua presenza, ma in cuor suo era contento di non trovarsi a quattr’occhi con il suo superiore. Ai carabinieri poteva dire tranquillamente di non essersi accorto di niente, ma il vescovo avrebbe preteso ben altre giustificazioni per la sua distrazione, e in quel momento era sicuro che l’avrebbe mandato al diavolo. Si sarebbe tolto un bel peso, ma era meglio riflettere ancora un po’ sulla situazione prima di lanciarsi in esternazioni delle quali avrebbe potuto pentirsi. Dopo la visita di Mary, non era riuscito a pensare ad altro, e si sentiva in colpa per non averla saputa ascoltare e averla lasciata fuggire: forse cambiare vita non era il modo più saggio per aiutarla.
Prima di tutto bisognava risolvere il problema del dipinto, limitare i danni. Era necessario parlare con i ragazzi e farsi un’idea dell’accaduto. Aveva dovuto fornire una lista di coloro che avevano accesso al centro d’aggregazione, potenzialmente tutti i ragazzi che abitavano alle Torri, e così, dopo essersi assicurato che l’auto dei militari si dirigesse effettivamente da quella parte, si era precipitato al bar del centro, sicuro che avrebbe trovato coloro che gli interessavano.
Mentre si avvicinava con passo deciso, vide Leo, un ragazzino sveglio che gironzolava sempre per la piazza, scendere veloce dalla moto sulla quale era appollaiato e lanciarsi dentro al bar ad annunciare il suo arrivo.
Entrò e i campanellini attaccati alla porta tintinnarono nel silenzio. Tutti alzarono gli occhi a guardarlo, tranne il barista che asciugava i bicchieri a testa bassa.
«Bello scherzo, vi han combinato, eh, don Maurizio?», lo apostrofò un vecchio con la sigaretta penzolante dalle labbra, senza perdere d’occhio le carte sul tavolo.
Qualcuno rise, poi la sala ricominciò a rumoreggiare.
«Le servo qualcosa da bere?», disse allora il barista.
«No, grazie, Umberto. I ragazzi sono di là?»
«Sì nella saletta. Oggi c’è una gran confusione», precisò ammiccando.
«Non ne dubito».
Facendosi largo tra le sedie, Maurizio raggiunse la porta della saletta interna, dove una decina di ragazzi lo stavano aspettando. Di tre tizi che non aveva mai visto, uno andò ad appoggiarsi allo stipite, senza uscire. Gli altri due restarono incollati a un videogame.
«Ciao», disse Saverio, il più grande del gruppo, cedendogli la sua sedia.
«Lascia stare, non ho nessuna voglia di sedermi», rispose Maurizio osservandoli in faccia uno per uno. Sui due tavoli c’erano resti di panini, lattine, bicchieri mezzi pieni.
«Stavamo parlando del…» disse ancora Saverio.
Qualcuno si mosse nervosamente.
«Del restauro agli affreschi che qualche deficiente ha fatto stanotte in chiesa, giusto?» lo interruppe Maurizio. «Allora, non volete parlarne anche con me? Voi sapete chi è l’artista, immagino».
«Noi?» protestò Angelica, appoggiata al biliardino. «Non penserai che c’entriamo noi…»
«È un gran bel casino», se ne uscì Cristian ridendo.
Si dondolava sulla sedia con aria spavalda, il ciuffo biondo che gli ricadeva sugli occhi. Se non avesse saputo che da tre mesi stava insieme a Ramona, che lo marcava stretto perché mettesse la testa a posto, Maurizio avrebbe subito pensato a lui.
«Che cazzo hai da ridere?», gli disse Angelica tirandogli un calcio.
Ne nacque una baruffa, che velocemente si allargò a tutti e Maurizio fece un passo indietro, stanco.
Era chiaro che non avevano capito che cosa significasse quella bravata per loro, e comunque se l’avevano capito non gliene fregava niente. Il vescovo aveva fatto chiudere il centro e autorizzato il sequestro di tutto il materiale appartenente ai ragazzi. Tutte le attività erano state sospese.
A questa notizia, qualcuno si agitò.
«Ma noi che c’entriamo?», chiese Manuela.
«Pare che qualcuno abbia avuto la brillante idea di pubblicare le foto. Voi siete scuri di non saperne niente?»
«Certo che no», intervenne Saverio. «Cosa credi, che siamo così stupidi?»
«No, Save, non tutti perlomeno. Ma ne basta uno di stupido. Comunque credo che dal computer possano scoprire molte cose, per esempio se le foto sono state fatte con un cellulare, se la pubblicazione è stata fatta dalla canonica e quando».
«Ma in canonica non c’è più nessun computer, vero?», chiese Saverio.
«No. E per ora nessuno mi ha chiesto niente. Ma non tarderanno a farlo».
«E poi, se qualcuno avesse usato un computer in canonica, stanotte, tu te ne saresti accorto, o no? Abiti lì sopra», intervenne Massimo.
Un risolino percorse le facce.
«No, non mi sono accorto di niente, come non mi sono accorto che sono entrati in chiesa», tagliò corto Maurizio.
«Per quanto terranno chiuso il centro?» chiese Angelica.
«E chi lo sa. Magari per sempre. Prima facciamo luce su questa faccenda, meglio è».
Dopo una pausa, riprese con più dolcezza: «Ragazzi, se sapete qualcosa, venite a dirmelo. Sto pensando soprattutto a chi ha combinato questo casino: è meglio che si faccia avanti, prima che lo becchino. E vi assicuro che lo beccano, e allora corre dei grossi guai. Io forse posso ancora fare qualcosa».
I ragazzi si scambiarono rapide occhiate.
«Sentite…», aggiunse poi Maurizio sedendosi. «Sono venuto anche per chiedervi un’altra cosa». Si rivolse alle ragazze, che si erano raggruppate intorno ad Angelica.
«Conoscete una ragazza che si chiama Mary? Sta alle Torri e fa la terza media, credo».
Cristian si alzò dalla sedia e lanciò una specie di ululato. Ramona lo freddò con lo sguardo. «Sì, è una mia amica», disse poi a don Maurizio. «Perché?»
«Ma chi, la stordita?» intervenne Angelica. «Non penserà che sia lei la M. nel cuore», aggiunse guardandolo con aria maliziosa.
«È impossibile, quella non sta con nessuno e non conosco nessuno così imbecille da piantare tutto quel casino per dichiarare il suo amore a una del genere», disse una ragazza un po’ in disparte.
«Le apparenze ingannano, pare invece che la santarellina si dia da fare», si intromise Cristian eccitato.
«E sta’ zitto cretino!», sbraitò Ramona.
«Ma se me l’hai detto tu che è incinta…», si difese lui.
«Cosa, cosa?»
Risate e gridolini di stupore si alzarono in tutta la sala. Un ragazzo si mise a fare gesti osceni.
«T’ho detto di star zitto. Sono affari suoi, e comunque vi posso giurare che non sta con nessuno», disse Ramona.
Angelica seguiva il battibecco con aria divertita. «Vuol dire che è stato davvero lo Spirito Santo», disse.

«È possibile che una ragazza resti incinta senza aver avuto un rapporto sessuale?»
Chiara posò sul tavolo la tazza di tè che stava portando alla bocca. Cercò il suo sguardo, ma era perso fuori dalla finestra. Si avvicinò e gli cinse la vita.
«Hai ancora dei dubbi? Pensavo che questa fase l’avessi superata…»
Maurizio le restituì l’abbraccio e le sorrise.
«No, non sto parlando di quella ragazza». Poi riprese serio: «Voglio dire, secondo te è possibile che una ragazza incinta dica di non aver mai fatto sesso e sia sincera? Riesci a immaginare la possibilità che sia successo qualcosa… che ne so…»
«Ah, sì, ho capito, ho capito cosa vuoi dire», rispose lei tornando a sedersi sul divano, improvvisamente interessata. «Be’, tecnicamente… in qualche modo lo sperma deve aver raggiunto l’ovulo, ma è senz’altro possibile che la ragazza non sia cosciente di aver avuto un rapporto. Anzi, direi, di aver subito un rapporto. Se avesse bevuto, per esempio, o fosse stata drogata… esiste addirittura una droga che…»
«Non credo sia una faccenda di alcol o di droghe…», la interruppe Maurizio raggiungendola. «Vedi, è una ragazza che non frequenta discoteche, e non esce mai la sera. Potrebbe essere successo a scuola…»
«O in famiglia», aggiunse Chiara.
Maurizio, i gomiti sulle ginocchia, la testa fra le mani, le raccontò di Mary e della sua amarezza per non averla saputa ascoltare. Chiara posò una mano sulle sue spalle curve, poi gli accarezzò i capelli, piano. Erano folti, e morbidi, e molti erano già bianchi. Fuori la pioggia si era fatta fine come spilli e il cedro del Libano davanti alla finestra era una macchia nera d’inchiostro.
«Si tratta di una delle ragazzine del centro?»
«Non proprio. È una ragazzina della parrocchia, ma non l’ho mai vista con gli altri. La vedo a messa, viene con i suoi». E aggiunse: «Mi sento un fallito. Non ho saputo ascoltarla. E non so se potrò aiutarla».
«Ti ha raccontato della sua amica. Non può essere che abbia fatto sua la storia di un’altra ragazza, magari ha solo bisogno di attenzioni, di una vita turbolenta come quella delle altre».
«Sul fatto che sia incinta non ci sono dubbi, l’amica che l’ha accompagnata dal ginecologo conferma».
«E lei che spiegazione si dà? Accetta il fatto di essere incinta? Se fosse vergine, negherebbe la gravidanza, non credi?…»
«Credo volesse dirmi che l’ha visitata un angelo o qualcosa del genere. Insomma, sembrava avere una risposta e si aspettava che io potessi crederle. Sembrava molto tranquilla e…» Maurizio si mosse, a disagio, prima di terminare la frase. «…e mi sembrava sincera».
Chiara bevve un sorso di tè, poi strinse la tazza tra le mani per cercare un po’ di calore. Il liquido dorato danzava leggero nella porcellana.
«Povera bambina», sospirò. Lui la guardò alzarsi, andare alla finestra e tornare verso di lui. «Può darsi che sia sincera. Nel senso che non sta esattamente raccontando una bugia».
«Cosa vuoi dire?»
«Il nostro cervello può fare miracoli per risparmiarci la sofferenza e ci sono cose che il cervello di una bambina non può catalogare come atti sessuali».
Maurizio si alzò e la abbracciò. Restarono abbracciati in silenzio accanto alla finestra. Il buio aveva avvolto la stanza come una coltre, solo la fioca luce della lampada lo teneva a distanza, in un piccolo cerchio vuoto vicino al divano.
«Non so come aiutarla», mormorò.
«Già, non è una cosa facile», gli disse lei. «Se hai bisogno di me…»
Maurizio la allontanò per incontrare i suoi occhi e le confessò: «Sai, pensavo, forse non è il momento più adatto di cambiare, per me, adesso. Sconvolgerei la vita di troppe persone».
Chiara si accigliò. «La vita degli altri andrà avanti. Ma la nostra? La nostra vita deve ancora cominciare».
«Mary è venuta da me perché cercava un prete».
«È vero, cercava un prete. Invece ha avuto la fortuna di incontrare te».

Dopo la pioggia della notte il vialetto era costellato di pozzanghere fangose. Cercando di mettere i piedi sui sassi per non affondare Ramona raggiunse la fermata dell’autobus. Mary era seduta un po’ discosta sull’orlo del marciapiede, le spalle curve e lo zaino tra le gambe.
«Ehi, ciao. Ti ho cercato dappertutto», le disse Ramona sedendosi accanto a lei. «Ieri non sei venuta a scuola, che hai fatto? Ho pensato che forse eri andata ancora dal dottore…»
Mary alzò le spalle.
«Oh? Mi senti?».
«Ciao», disse Mary dopo averci pensato un po’.
«Insomma, come stai?», insisté Ramona.
«Bene» rispose Mary e continuò a guardare la strada.
Ramona restò un minuto in silenzio, interdetta. Era curiosa di sapere cosa avrebbe fatto Mary a quel punto, ed era pronta a sostenerla e ascoltarla, sicura che sarebbe crollata e che alla fine le avrebbe raccontato chi era il padre del bambino. A qualcuno avrebbe dovuto dirlo, quella storia che non aveva mai fatto sesso e che era successo così, come alla Madonna, era assurda. Anche se sembrava assurda anche la storia di Mary a letto con uno. Mary in macchina con uno, con i sedili ribaltati. Mary nei bagni con uno, con i pantaloni calati. Pazzesco. Ma alla fine a lei l’avrebbe raccontato, altrimenti a che cosa servivano le amiche?
«Allora, dove sei stata ieri?»
«Dovevo fare una cosa», rispose Mary senza guardarla.
Ramona sentì la rabbia montarle dentro. Era la prima volta che la trattava in quel modo, come se fosse superiore, come se non si degnasse di parlare con lei. Aveva forse un’altra amica, con la quale parlare di queste cose, che lei non poteva capire? Era come se facesse finta di non ricordare che aveva fatto il test per tenere compagnia a lei. A chi poteva raccontare tutto se non a lei? Forse era già andata ad abortire e aveva conosciuto un’altra ragazza nelle sue condizioni. Oppure aveva incontrato qualcuno dei loro amici e aveva capito che Ramona aveva già spifferato tutto in giro. A quel pensiero si sentì un po’ in colpa.
«Dovevi fare una cosa? Per quel… per quel problema? Dai, a me lo puoi dire», le chiese dolcemente.
«Per quale problema?» chiese Mary stupita.
«Come quale problema! Sei incinta o cosa?», sussurrò Ramona gettando occhiate ai ragazzi che stavano vociando poco più in là.
Mary la guardò stanca. «Sono andata a parlare con don Maurizio», le disse poi.
«Con Maurizio?» ripeté Ramona.
Si ricordò del giorno prima, quando Maurizio aveva chiesto se qualcuno sapesse dove abitava Mary. Se aveva parlato con lui, la faccenda era diversa, non poteva certo essere gelosa, perché parlare con il prete non era come sostituirla con un’altra amica.
«Be’, sì hai fatto bene. Lui è un tipo tosto. E che ti ha detto?»
«Niente».
«Come niente?»
Niente. Mary non l’ascoltava più e guardava dall’altra parte. Prete o non prete, era chiaro che non voleva più essere sua amica. Ramona moriva dalla voglia di raccontarle che quella mattina Cristian le aveva chiesto di saltare scuola e andare da lui, che lei gli aveva detto che non poteva mancare a un altro compito in classe, ma che poi ci aveva ripensato e ora voleva fargli una sorpresa. Ma Mary non la considerava, e quella che doveva essere un’avventura tanto esaltante perdeva tutta la sua attrattiva se non c’era Mary a cui raccontarla, Mary in trepida attesa per sapere come sarebbe andata, Mary con i suoi occhioni sgranati e le sue domande infantili.
«Cosa pensi di fare?» chiese Ramona.
«Sta arrivando l’autobus», disse Mary alzandosi e pulendosi i jeans con una mano.
Ramona la prese per un braccio. «Oggi non vengo a scuola».
Mary la guardò appena.
«Voglio fare una sorpresa a Cristian, stamattina non è andato a lavorare…»
Mary si avviò verso l’autobus che si era fermato a un metro da loro.
«Oh, ma mi ascolti?», le gridò Ramona.
L’amica salì e attraverso il vetro finalmente la guardò e accennò un gesto di saluto.
Ramona rispose al saluto, prima con un timido cenno, poi agitando forte la mano, infine alzando il pugno contro il cielo e quel maledetto autobus che se la stava portando via.

Dopo aver osservato il vescovo inginocchiarsi per pregare nella cappella, davanti al dipinto coperto da un pesante telo color rubino, Maurizio si allontanò. Mezz’ora più tardi il vescovo lo raggiunse in canonica.
«Sciacalli!» disse entrando nella stanza. «Profanare la casa del Signore, che li ha accolti a braccia aperte!»
Maurizio restò in silenzio.
«Caro Maurizio, hai allevato delle serpi, qui dentro, almeno ora te ne rendi conto?» Il prete non rispose, rimase fermo, gli occhi bassi, e il suo superiore riprese a parlare soddisfatto. «E pensare che io te l’avevo detto. Ma tu dovevi per forza occuparti di quei delinquenti! Almeno li avessi avvicinati all’eucaristia… ma no! I sacramenti non vanno di moda tra questi ragazzi, vero? Bisognava dar loro un posto dove incontrarsi, dove…» Scosse la testa affranto. «Se non offri loro Dio, non hai nient'altro da offrire, caro Maurizio».
Maurizio alzò la testa. Il segretario del vescovo li aveva raggiunti e se ne stava in piedi vicino alla porta, come per ricordare al monsignore che era ora di andare.
«Non sono delinquenti», iniziò con un groppo in gola. «Io ho sbagliato tante cose…»
«Sì, sì» lo zittì il vescovo spazzando l'aria con una mano. «Certo, hai fatto molti errori, è un bene che tu lo riconosca, ma ora è successa una cosa gravissima e i responsabili devono venire fuori…»
«Sono io l'unico responsabile!»
«Non interrompermi. Ogni cosa a suo tempo. Delle tue responsabilità dovremo parlare a lungo. Ma ora è importante che chiunque abbia commesso un tale sacrilegio venga punito, prima che ci vada di mezzo tutta la comunità. Già si parla di segni del demonio, Dio abbia pietà di noi…»
«E il perdono? Chiunque sia stato, noi dobbiamo…» lo interruppe di nuovo Maurizio.
«Non mi dire quello che noi dobbiamo o non dobbiamo fare» si adirò il vescovo. «Il perdono! Ti riempi la bocca di parole che ora nemmeno comprendi. Chiunque sia stato, dici? Sappiamo benissimo chi è stato, qualcuno che può entrare indisturbato in canonica e da lì in chiesa, senza far rumore e senza svegliarti, qualcuno che magari ha una copia delle chiavi… Ciò che è più grave è che hanno approfittato della fiducia di un ministro di Dio, ingenuo e idealista, certo, ma pur sempre un ministro di Dio…»
«Io non sono né ingenuo né idealista. Sono colpevole di quello che è successo».
«Certo, anche questo è vero, ma ogni cosa a suo tempo. Di questo parleremo dopo, ti ho già detto…»
«No, dobbiamo parlarne adesso!»
«Maurizio, taci!»
Il silenzio calò improvviso come dopo il boato che annuncia il temporale. Gli occhi del vescovo mandavano lampi e la bocca serrata gli tremava. Maurizio, invece, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentì leggero. Scoccò un’occhiata al giovane prete che saltellava da un piede all’altro imbarazzato.
«L’altra notte, quando sono entrati, io non c’ero», cominciò piano.
Il vescovo aggrottò la fronte. Guardò il suo segretario e gli fece un cenno.
«Aspettami in macchina, per favore».
Dopo aver guardato a lungo Maurizio, il giovane uscì.
«Quando dico che è colpa mia» continuò Maurizio pesando le parole una a una, «non mi riferisco alle mie scelte educative. Se non mi sono accorto di niente, è perché ho passato la notte fuori».
Il vescovo sospirò. Poi congiunse le mani in grembo e gli chiese con un tono più comprensivo: «Aspetta. Vuoi confessarti?»
«No, non ho niente da confessare» rispose Maurizio con un sorriso. «Se ho sbagliato qualcosa è di non aver parlato ai ragazzi a viso aperto. Di non essermi confidato con loro».
«Tu non sai quello che dici».
«Sì che lo so. Dico che quella notte io non c’ero, perché ho passato la notte da una donna, e non da una donna qualunque, ma dalla donna che è la mia compagna».
«Maurizio, tu hai fatto un voto!»
«Lo so, ma da quel giorno sono cambiate molte cose. E quello che adesso voglio è che sia chiaro che, se è stato uno dei ragazzi, lo ha fatto solo per mettere in difficoltà me, o per punirmi, e quelle iniziali…»
«Cosa devo sentire dalla tua bocca…», il vescovo appoggiò la fronte alle mani congiunte.
«Sente esattamente quello che racconterò ai carabinieri, e al giornalista che mi ha chiamato ieri sera, perché se qualcuno dei ragazzi ha fatto questo scempio, è stato per punire me».
Il vescovo, impallidito, si era appoggiato al tavolo.
«Maurizio, queste non sono cose che riguardano i carabinieri, e tanto meno i giornali locali. Tu adesso sei confuso, sei…»
«No, no, non sono affatto confuso». Lo interruppe Maurizio. «Lo sono stato, è vero, ma ora mi è tutto molto chiaro. Nemmeno io vorrei parlare della mia vita privata…»
«Tu non hai una vita privata! Tu hai consacrato la tua vita al Signore!» gridò il vescovo alzandosi.
«Non vorrei parlarne, ma se devo difendere qualcuno…»
Il vescovo gli voltò le spalle e mosse un passo verso la porta.
«Sono cose che dovremo discutere con calma, e questo non è il posto né il momento più adatto».
Come se non l’avesse sentito, Maurizio continuò con un fil di voce: «Sempre che sia stato uno dei miei ragazzi».
Il vescovo si bloccò e si appoggiò allo stipite. «Pensi ancora che potrebbe essere stato qualcuno di fuori?»
«Ne sono convinto. E poi l’altra sera potrei aver lasciato il portale aperto, ora che ci penso», disse Maurizio.
«Bene, se è così, non è il caso di tirare fuori faccende sgradevoli…»
«Non c’è niente di sgradevole».
«Tu dovrai prenderti del tempo per pensare a quello che stai facendo, altrimenti mi obbligherai a…»
«Me ne sono preso già troppo, di tempo».
Il vescovo lo guardò affranto prima di uscire. «Rifletti, Maurizio. Tu appartieni ancora a Dio. Sarai convocato molto presto, nel frattempo ti proibisco di parlare di questa faccenda con chicchessia».
Fermo sulla soglia, Maurizio pensò che era proprio così, dopo tanto tempo sentiva di nuovo di appartenere a Dio, lui, e Chiara, e Mary, e anche l’idiota che aveva imbrattato la chiesa per fargliela pagare, e il vescovo, quell’uomo anziano che cercava di far quadrare l’infinito con questa vita, in modo ammirevole, ma vano, e provò simpatia per lui. Lo vide avanzare verso l’automobile parcheggiata di fronte alla chiesa, con il giovane prete che con sollecitudine gli apriva la portiera, poi lo lasciò alla sua impotenza e presa la giacca si diresse rapido alle Torri.

Era ancora offesa per come Mary l’aveva trattata, soprattutto se pensava che per colpa sua aveva rischiato che sua madre si accorgesse che anche lei aveva fatto un test di gravidanza. Bisognava essere davvero stordite per ritrovarsi incinte senza nemmeno sospettare di esserlo, anche se si fosse trattato di un angelo qualche segno gliel’avrebbe pur mandato. Ramona sorrise appena al pensiero, perché in questa faccenda c’era qualcosa che l’agitava troppo. In quel momento, il lato peggiore della questione era che la mattina era rovinata. L’idea della sorpresa a Cristian non era più eccitante senza qualcuno a cui raccontarla; lui ne sarebbe stato contento, ma il sesso a quell’ora sarebbe stato deprimente e in effetti era abbastanza deprimente a tutte le ore.
Ritornò verso casa attraverso il prato, fregandosene se qualcuno la poteva vedere. Sua madre e i suoi fratelli erano usciti prima di lei e se le vicine più impiccione avessero riferito che non era andata a scuola avrebbe trovato una scusa qualsiasi. Bighellonò un po’ tra i cortili fatiscenti, infine, quando si accorse che cominciava a piovere, si diresse con decisione verso la Torre Ovest, dove abitava Cristian. Valeva comunque la pena di fargli questa benedetta sorpresa, e se avesse tergiversato ancora c’era il rischio di non trovarlo più.
Stringendo nella tasca la chiave che lui le aveva dato qualche settimana prima, infilò la rampa di scale e salì al secondo piano. Sul pianerottolo non c’era nessuno, girò piano la chiave nella toppa ed entrò. La stanza si trovava nel consueto disordine. Le tapparelle erano ancora abbassate e nel lavello del cucinino troneggiava una pila maleodorante di piatti sporchi, che aveva l’aria di trovarsi lì da parecchi giorni. C’era silenzio. Dalla porta della camera, semiaperta, si intravedeva appena un angolo di letto in penombra. Forse Cristian si era riaddormentato. Ramona avanzò senza far rumore, ma si immobilizzò quando sentì una risatina e poi la voce di Cristian che faceva «Shhhh, c’è qualcuno» e dallo spiraglio vide un movimento di corpi nudi e agitati.
Senza pensare si precipitò fuori, vergognandosi di essere stata così ingenua e quando Cristian, con i jeans in mano, la raggiunse sul pianerottolo pregandola di aspettare, perché le cose non stavano come pensava lei, lui e Angelica stavano solo parlando, lo strattonò senza riuscire a guardarlo in faccia e si buttò in volo giù dalle scale. Scontrò qualcuno e scappò via.
Bastardo, bastardo, bastardo, pensava correndo. Avrebbe preferito non sapere di chi si trattava, non sapere niente, perché ormai era una storia finita. Quando non ebbe più fiato si fermò. Era arrivata dall’altra parte delle Torri, verso Traccascine, dove abitava Mary. Al pensiero che forse non avrebbe potuto nemmeno raccontarle cosa era accaduto si mise a piangere. Poi si accorse di stringere ancora in mano la chiave e con tutta la rabbia che aveva in corpo la gettò lontano.

Maurizio lasciò il riparo del porticato scrostato, dove molte piastrelle erano state divelte e le colonne di cemento erano chiazzate di nero dall’umidità, e imboccò il vialetto cercando di evitare le pozzanghere fangose. La pioggia aveva concesso poche ore di tregua quella mattina e aveva ricominciato a cadere più forte di prima. Attraversò di corsa un cortile pieno di cianfrusaglie, che parevano essere state lanciate dalle finestre e poi ammucchiate ai lati, si portò al limitare dell’ultimo porticato e si riparò sotto la sporgenza di un balcone. Da lì poteva vedere la fermata deserta dell’autobus, il parcheggio e la strada che portava a Treccascine. Ormai non gli importava di bagnarsi: in canonica si sarebbe asciugato, avrebbe raccolto le sue cose e recuperato le chiavi della macchina. Si sarebbe trasferito da Chiara e poi avrebbe affrontato la situazione con calma.
Quando si mosse vide una figura ingobbita, seduta in terra con la schiena contro il muro a pochi metri da lui, e tornò indietro.
«Ramona!»
La ragazza lo guardò con gli occhi lucidi.
«Niente scuola stamattina?» le chiese sedendosi accanto a lei.
«Non mi andava», rispose lei.
Restarono vicini in silenzio, con la pioggia che gocciolava sulle punte delle loro scarpe.
«Che cosa fai qui?», le chiese qualche minuto dopo.
«Cristian è uno stronzo», fu la sola risposta che ottenne.
«Avete litigato?»
«No, non ne vale la pena».
Di tanto in tanto qualcuno passava per il vialetto diretto al parcheggio, chi con l’ombrello, chi di corsa, ma nessuno badava a loro due.
«Hai parlato con Mary? Come sta?» gli chiese Ramona all’improvviso. E poi aggiunse in un sussurro:
«Con me non parla più».
«Sta attraversando un momento difficile» disse Maurizio. «So che tu e tua madre l’avete aiutata. E tu, a proposito, stai bene?»
«Sì, sì, io sto bene», rispose Ramona arrossendo. «Ma Mary, cosa farà adesso?»
«Non lo so», confessò Maurizio.
«L’aiuterai tu?»
«Se posso, sì. Ma c’è sua madre ora, sua madre l’aiuterà».
«Sua madre lo sa?» Ramona lo guardò incredula.
«Sì, lo sa. Non è stato facile per lei, ma… vuole molto bene a Mary, sono sicuro che faranno la cosa giusta».
«Cioè?» chiese Ramona.
«Ah, non lo so».
«E sai chi è il… insomma… di chi è il…?»
«Il bambino?»
«Sì, con chi… insomma… è davvero incredibile, conoscendo Mary».
«Già, è incredibile. E comunque, no, non lo so».
«Ma non sai niente!»
Finalmente Ramona rideva. Anche Maurizio rise.
«No, non so niente. Hai proprio ragione. Non so assolutamente niente».
«Ma tu ci credi a quella cosa? Voglio dire, a quello che dice Mary, perché sai, conoscendola, e io la conosco bene, non è davvero il tipo di ragazza che…»
Maurizio tornò improvvisamente serio.
«No, Ramona, non ci credo».
Questa volta fu la ragazza a farsi seria d’un tratto.
«Sai, mi dispiace per quello che è successo in chiesa. Dicono che ti manderanno via. È vero?»
«Sì, è vero, ma le cose sono un po’ più complicate. Io voglio restare qui, e così penso che… sì, che cambierò lavoro».
Ramona fece tanto d’occhi: «Ti sei licenziato? Un prete può licenziarsi?»
«Più o meno», rise Maurizio.
«E che cosa farai?»
«Ho un amico in un’associazione che da tempo insiste perché lavori con lui… qualcosa farò. E poi, chissà, magari mi sposo».
«Grande!» esultò Ramona. «L’ho sempre detto che eri un grande! Sai, ti sposerei io, se non fossi così vecchio. Cioè, voglio dire che…»
«Va bene così, non peggiorare la situazione», disse Maurizio fingendosi risentito. «Cercherò di prenderlo come un complimento».
Restarono seduti guardando la pioggia, che continuava a cadere.

© 2010 Michela Tilli