Michela Tilli, Diario di un impostore




S
ono morto a Milano un giorno di settembre, nell’ora del pomeriggio in cui, persino qui, i colori si fanno più intensi, e improvvisi triangoli azzurri sbucano tra i profili sconnessi delle case. Mese meraviglioso, settembre, il più prodigioso dell’anno, tempo di trasformazione, con un piede nel passato e uno nel futuro, zona di confine tra ciò che già sappiamo ma non riusciamo a spiegare, e ciò che proviamo a dire senza averlo ancora vissuto.
Michela Tilli
Chi è davvero Agostino Prat? Chi si crede di essere, questo scrittore un tempo baciato dal successo, poi abbandonato da tutti e infine caduto in disgrazia? Un mistero avvolge la sua vita e la sua morte, enigma che solo lui ci può svelare. E così Agostino ci racconta la sua vita, e lo fa a partire dalla fine, perché uno dei privilegi del narratore è di poter giocare con il tempo e fermare per sempre l’istante che dà senso a tutta un’esistenza e ne fa una storia.
Michela Tilli è nata a Savona e vive a Monza, dove si divide fra il lavoro con le case editrici, i suoi due bambini e la scrittura. Per Fernandel ha pubblicato diversi racconti, e soprattutto i romanzi La vita sospesa e Tutti tranne Giulia.
Ammetto che avevo pensato spesso di farla finita, negli ultimi tempi, ma quel giorno in particolare l’idea non mi aveva sfiorato nemmeno per un momento, date le cose straordinarie che mi erano accadute; anzi, proprio quel giorno avevo intravisto uno spiraglio e avevo provato l’incredibile sensazione di essere a un passo dal comprendere qualcosa di essenziale sul senso della mia vita, come se di punto in bianco avessi potuto guardarmi con gli occhi di Dio.
Ma quel giorno, per me, è stato troppo breve per capirci davvero qualcosa, della mia vita, perché la situazione è – come si suol dire – precipitata. Precisamente, precipitata dal quarto piano del palazzo di via Pilo in cui abitavo e, sebbene le circostanze della mia morte mi siano apparse subito inverosimili, e io abbia avuto tutto il tempo di pensare no, non è possibile, non sta capitando a me, tuttavia un marciapiede che si avvicina come un treno in corsa può essere alquanto persuasivo.
Ora, mettiamolo in chiaro una volta per tutte, che non vi venga in mente di immaginarmi mentre vi parlo da qualche dimensione ultraterrena, da un ipotetico aldilà. Lasciatemi sfatare qualche mito. Tanto per essere espliciti, dopo la morte non c’è niente. Niente di niente. Intendiamoci, non che io abbia visto e possa testimoniare che dopo non c’è niente. Il niente è niente, e scontrandosi con questo limite anche le parole rimbalzano per così dire all’indietro. Sul fatto che io sia morto non ci sono dubbi. Mi sono schiantato sull’asfalto dopo un volo di dodici metri, le ultime sensazioni corporee deformate dall’attrazione irresistibile della terra, un urlo di donna e il botto metallico di un tamponamento, e nell’aria un olezzo di aglio fritto, una vampata fragrante che mi ha investito con prepotenza le narici. Poi ho toccato l’asfalto e mi sono disgregato. Sono andato in frantumi. E tutto è finito. Proprio così: finito. Dopo l’impatto, niente. Niente di niente.
In un certo senso posso dire che la morte non mi riguarda. Tutto quello che è accaduto dopo, per quanto possa sembrare collegato alla mia vicenda, un tutt’uno con il mio precipitare – gente che urla, che accorre, telefona, il traffico in tilt, e quella donna, Sofia, precipita anche lei o mi guarda affacciata alla finestra? – in realtà non mi riguarda. Nulla di ciò che è accaduto dopo ha più qualcosa a che fare con me. La vita è tutta al di qua dell’ultimo istante che le appartiene, e passato quello, vi si ammassa contro come i passeggeri appesi alle sbarre di un autobus in corsa che freni all’improvviso. L’ultimo istante della vita è davvero l’ultimo, è il limite oltre il quale il tempo si inabissa, implode e muore.
Inutile perdersi in strane congetture, chiedersi se esista un presente eterno dal quale quella storia possa essere raccontata. Certo, quando si legge un racconto è naturale, e anche divertente, immaginarsi il narratore seduto alla propria scrivania mentre riepiloga gli eventi, fa combaciare i tempi della narrazione e li moltiplica e ci gioca; e se volete farlo, chi ve lo impedisce, tanto più che, essendo io uno scrittore, non c’è niente di più facile che immaginarmi curvo sui miei fogli o ipnotizzato davanti al cursore che lampeggia sullo schermo. Fate pure, fate pure, cosa volete che me ne importi ora che non ci sono più.
Ecco, arriva un istante che è l'ultimo e che, pertanto, ha solo un prima e non un dopo; l’istante che finisce e definisce la vita, e la trasforma in una storia. Quando si prova a raccontarla, col senno di poi, certi accadimenti prendono rilievo, le scelte acquistano un valore, si fanno giuste o sbagliate, prendono forma il tempismo e l’errore; gli ostacoli più ardui diventano prove e piccoli dettagli insignificanti emergono come macigni. E le coincidenze! Le coincidenze sbocciano come fiori unici e rari. Ma a me, proprio a me che di storie ne ho scritte tante, a me ora manca, il senno di poi. Perché tutto ciò che riguarda il dopo non mi appartiene e prima, invece, prima c'è tutta la mia vita, tutta quanta, dall'inizio alla fine. E se io, come protagonista e voce narrante della mia storia posso finalmente raccontarvela, anche iniziando dalla fine se mi va, tuttavia non posso dire di aver capito esattamente quello che mi è accaduto, e a parte il fatto banale che non volevo morire, e che la mia vita schiantata su un marciapiede è stata più breve di quanto ciascuno di noi ragionevolmente si potrebbe augurare, ammetto che c’è qualcosa che ancora mi sfugge.

L’idea del suicidio mi era sembrata allettante, a un certo punto. Passavo ore sdraiato sul divano, con gli occhi fissi sui brandelli di ragnatele pendenti dal soffitto, o seduto davanti al computer, immobile, catturato da quel pulsare continuo e irritante. Solo la sete mi salvava dalle fantasie peggiori, solo bere mi rendeva sopportabile la vita, ma per bere mi servivano soldi, e non sapevo più dove sbattere la testa.
Non scrivevo una maledetta riga da otto anni. Avevo pubblicato un unico romanzo, Diario di un impostore, che aveva riscosso un notevole successo, e non avevo mai fatto altro. Diversamente, non avrei saputo come guadagnarmi da vivere. A quarantatré anni potevo dire di essere uno scrittore, uno scrittore e nient’altro, ma ero diventato uno scrittore che non scriveva niente, quindi una nullità. E d’altra parte quanti libri deve scrivere uno scrittore per essere considerato tale? L’assassino deve uccidere continuamente o gli basta uccidere una volta per essere un assassino?
Io non saprei dire che cosa fosse accaduto, a un certo punto avevo pensato di non essere affatto capace, e con il tempo ero arrivato a dubitare di averlo scritto davvero io quel libro.
C’era stato un momento magico nella mia esistenza, in cui avevo creduto di possedere un solido passato alle spalle e un futuro pieno di buone recensioni, interviste e anticipi da capogiro. Poi, svanito quel momento, il passato si era rivelato un malinteso e il futuro una serie di giorni vuoti e privi di significato.
Mia moglie Laura mi aveva lasciato per un suo collega giornalista, più vecchio e decisamente più noioso di me, ma, a quanto pareva, capace di darle la stabilità di cui lei aveva bisogno. Il mio amico e agente Giano Malerba, dopo anni di sodalizio e dopo avermi spremuto come un limone, non si degnava nemmeno più di rispondere alle mie chiamate. Delle vecchie conoscenze non mi cercava nessuno. Solo i creditori si facevano vivi di tanto in tanto, peraltro inutilmente, e qualcuno mi aveva persino messo un segugio alle calcagna per controllare che non spendessi i suoi soldi. Ma io non avevo proprio nulla da spendere, e l’unico locale che frequentavo era ormai il solo posto dove ancora riuscissi a rimediare una birra e un pasto gratis, il ristorante del mio amico cinese Lin, sotto casa, che tra un turno e l’altro mi offriva gli avanzi fingendo di segnare tutto su un conto immaginario che non avrei mai saldato.
È delle mie ossessioni che devo scrivere, pensavo, della rabbia che mi corrode, ma le sequenze che mi rimbalzavano nella testa (io che accoltello il giornalista e gli strappo il cuore mentre lui mi supplica di riprendermi Laura, Giano che striscia da me per pregarmi di fargli leggere il mio ultimo manoscritto) giravano su se tesse e non riuscivano a trasformarsi in parole.
Finché Giano mi era stato accanto, le cose non erano andate poi così male. Ero in crisi, certo, ma Giano mi spronava, mi diceva di non arrendermi, e soprattutto mi finanziava, rilasciandomi anticipi sui progetti che gli illustravo con foga. Ed era questa la cosa che mi teneva in vita, nonostante le idee abortissero una dopo l’altra: Giano mi ascoltava. Poi, negli ultimi tempi, si era mostrato sempre più insofferente. A volte sembrava sulle spine, come se avesse mille cose da fare e volesse liberarsi in fretta di me; altre volte mi guardava addirittura sconcertato, come se fossi un alieno piombato nel suo ufficio all’improvviso.
Per esempio, quella faccenda che un giorno avevo provato a raccontargli, che da tempo pensavo di essere spiato e pedinato, ebbene, io non mi ero aperto subito con lui per non farlo preoccupare troppo, ma poi mi ero convinto che solo lui avrebbe saputo darmi i consigli giusti e mi ero deciso a parlargliene; mai mi sarei aspettato che saltasse su in quel modo, gridandomi che ero diventato insopportabile e che mi stava dando di volta il cervello. Da quel giorno non avevo più osato toccare l’argomento, anche se le prove che qualcuno mi stesse con il fiato sul collo si facevano sempre più evidenti, e i rapporti tra noi erano rimasti piuttosto freddi, fino al giorno in cui si erano interrotti in modo definitivo.

Pettinai all’indietro i capelli ancora bagnati. Per molti mesi li avevo lasciati crescere incolti e sporchi, approfittando della loro naturale inclinazione a disporsi sulla testa in modo ordinato e piuttosto decorativo. Non che fossero propriamente ricci, ma erano mossi al punto da intricarsi e crescere più in volume che in lunghezza. Lisciandoli con il pettine mi accorsi con disappunto che arrivavano a coprirmi tutto il collo, come un serpente viscido uscito dalla mia testa. Tenendoli raccolti con una mano alla base del cranio, presi le forbici dallo scrittoio e tagliai di netto, gettando poi il malloppo fradicio nella tazza del gabinetto. Se si considerava che l’intento era quello di avere un aspetto pulito e rinnovato, che suggerisse l’idea che qualcosa era cambiato nella mia vita, che forse avevo tra le mani una nuova idea per un romanzo e che, questa volta, ero davvero degno di ricevere un congruo anticipo sui diritti d’autore, il risultato, visto di fronte, non era male. Con una certa soddisfazione riconobbi nello specchio la fronte spaziosa che una volta mi piaceva tanto, con il sopracciglio sporgente e un po' diabolico, ma purtroppo, senza il contrappeso dei capelli, la barba risaltava in modo orrendo e fui costretto a rasarmi. Lo feci con lentezza cercando di non ferirmi. Vedevo tremare la mia mano e sotto la schiuma emergere striscia dopo striscia un volto emaciato e scolorito. Ci misi un po’ per abituarmi a quella faccia, che era la faccia di un altro, ma in fondo era davvero così, dovevo riavvicinare Giano e convincerlo che stava per cominciare una nuova fase della mia vita.
L’accesso alla sua casa e al suo ufficio mi era ormai precluso. Dovevo quindi intercettarlo da Domenico, la trattoria di fronte all’agenzia dove pranzava ogni lunedì, e ciò che contava di più sarebbe stato l’effetto sorpresa. Avevo un disperato bisogno di lui. O meglio, per dire tutta la verità, avevo un disperato bisogno di soldi, e Giano era la mia unica speranza.
Rifiutava persino di parlarmi al telefono dalla sera in cui mi ero presentato ubriaco e senza invito a un ricevimento che aveva organizzato per la pubblicazione del romanzo del suo nuovo pupillo, e avevo vomitato l’anima nella coppa di sangria che rosseggiava invitante tra una piramide di prosciutto e una distesa di salatini. Un paio di ospiti erano fuggiti, e qualche giorno dopo il suo nome era finito sulle pagine della cronaca locale, mentre io venivo citato in modo piuttosto vago e con molta delicatezza come uno «scrittore in crisi creativa, un tempo suo protetto». Avevo dato un pessimo spettacolo, era vero, ma Giano, che aveva la sua parte di responsabilità, non mi aveva nemmeno dato la possibilità di difendermi. Se solo mi avesse lasciato spiegare come erano andate le cose, gli avrei chiesto un paio di cosette di cui ero venuto a conoscenza giusto quel pomeriggio, grazie alla telefonata di un’amica giornalista: primo, avevo saputo che da tempo mi escludeva dalle sue feste perché mi riteneva impresentabile e, secondo, che alle mie spalle continuava a frequentare la mia ex moglie. Come al solito si era negato al telefono, ma ormai la notizia del ricevimento al quale non ero stato invitato mi era arrivata e mi rodeva come un tarlo. Già mezzo ubriaco, mi ero intrufolato in casa sua grazie a una tipa in tailleur che era uscita sul pianerottolo a rispondere al cellulare, e Giano, invece di ascoltarmi, era arrivato al punto di offrirmi dei soldi perché sparissi e mi aveva dirottato in un salottino con due casse di birra. Il denaro e la birra mi avevano calmato per un po’, ma era forse colpa mia se a un certo punto avevo udito la voce di Laura e l’avevo seguita fino al salone grande? E se poi mi ero sentito male? E, ancora, era colpa mia se quella stessa giornalista che mi aveva messo la pulce nell’orecchio, quella sera si trovava alla festa pronta a fornire al suo settimanale un resoconto dettagliato dell’accaduto?
A nulla erano serviti, in seguito, i miei maldestri tentativi di sorprendere Giano usando telefoni non identificabili, compreso quello del ristorante di Lin: il risultato era sempre lo stesso, mi spegneva il cellulare in faccia. Almeno Katia, la sua segretaria, metteva in atto pratiche più elaborate per respingermi. Me la immaginavo seduta ritta su quel bel culo rotondo, con la crocchia castana tenuta su da una matita, mentre mi diceva «Il dottore è molto occupato, signor Prat»; oppure «Il dottore non può riceverla. No, neanche rispondere al telefono, mi dispiace». Giano era diventato improvvisamente “il dottore” e io il “signor Prat”. E pensare che parecchi anni addietro, quando mi aveva chiesto di firmarle una copia del mio romanzo, la voce le tremava mentre pronunciava il mio nome, Agostino, perché a quei tempi per lei ero ancora Agostino. Ma la piccola Katia non aveva colpe, faceva soltanto quello che il capo le ordinava di fare. Era Giano che aveva deciso di tagliare i ponti, dopo un’amicizia iniziata sui banchi di scuola e dopo essersi fatto un nome anche grazie a me, il suo autore più importante, quando lui non era ancora nessuno.
Indossai una camicia che avevo stirato sotto il peso dei dizionari e ne arrotolai con cura le maniche fino ai gomiti. Il risultato non era terribile, molto meglio delle magliette sdrucite che mi avevano accompagnato per tutta quella calda estate. In cucina mi sforzai di ingoiare un altro caffè amaro. Se tutto fosse filato liscio, entro qualche ora mi sarei concesso un bel goccetto, magari un bianco, leggero, ne sentivo già il sapore in bocca, la smania nelle vene.

Prima di uscire chiusi accuratamente tutte le persiane e le finestre e controllai ogni angolo della casa, memorizzando alcuni dettagli, come una matita in bilico sul bordo dello scrittoio o un foglietto incastrato tra lo stipite e il battente della porta della camera da letto, dettagli che al rientro mi avrebbero subito avvertito di eventuali visite sgradite. Era già successo, purtroppo, che qualcuno si introducesse in casa mia, anche se non avevo mai rilevato la mancanza di alcunché e, vista la reazione di Giano quando avevo provato a raccontarglielo, non avevo mai sporto denuncia.
Non sapevo chi volesse tenermi sotto controllo, qualche creditore, probabilmente. Più volte avevo avuto la netta sensazione che si trattasse di una donna. Non potevo avere dubbi sul rumore di tacchi che avevo percepito distintamente alle mie spalle prima che un’ombra si dileguasse dietro l’angolo di un palazzo, o sul profumo che aleggiava ancora in casa dopo aver notato che alcuni fogli di appunti erano stati spostati, per non parlare del sospiro decisamente femminile che avevo riconosciuto durante una delle tante telefonate silenziose che ricevevo negli ultimi tempi.
All’inizio avevo pensato che potesse trattarsi di Laura, la mia ex moglie, ma ben presto mi ero dovuto arrendere all’evidenza che lei non ne voleva più sapere di me, e poi conoscevo troppo bene il suo passo, il suo profumo e anche i suoi sospiri per confonderli con quelli di una sconosciuta. Come al solito, chiamai l’ascensore e poi scesi le scale, fermandomi a metà per riprendere fiato e restare in ascolto. Arrivato nell’androne gettai uno sguardo fuori. In strada pareva tutto tranquillo. Lin era in piedi sul marciapiede accanto alla porta del ristorante, le braccia conserte, l’aria assente. A quell’ora non c'erano clienti, sarebbero arrivati di lì a poco, e Lin, preparati i tavoli, si prendeva una pausa a modo suo, guardando lontano e formulando pensieri profondi. Sembrava perso in un’altra dimensione, ma io sapevo che, senza battere ciglio, avrebbe notato tutto, ogni movimento sospetto nella via. Quando mi vide uscire impiegò qualche secondo a riconoscermi, poi mi sorrise con più calore del solito, piacevolmente stupito dalla novità del mio look, e con un cenno mi invitò a entrare e bere qualcosa. Con rammarico gli feci capire che avevo fretta e che dopo gli avrei raccontato tutto. Per incoraggiarmi, mi mostrò due pollici rivolti verso l’alto e mi fece un altro sorriso, se possibile ancora più largo.
In realtà non avevo fretta, erano quasi le undici e trenta, e con il tram avrei raggiunto viale Beatrice d’Este in venti minuti. Giano non sarebbe uscito dall’ufficio prima dell’una, l'una meno un quarto, e mi restava tutto il tempo per appostarmi fuori dal locale a tenere d’occhio la situazione, controllare i movimenti intorno all’agenzia ed evitare eventuali imprevisti. Dopo aver percorso con uno sguardo tutta la via, ed essermi accertato che nessuno mi stesse aspettando per seguirmi, svoltai l’angolo e mi diressi alla fermata.
Secondo Lin, che oltre a essere un ristoratore era un fine conoscitore della natura umana, la mia convinzione di essere seguito e controllato sarebbe derivata dall’aver vissuto la fama e averla perduta, in altre parole avrebbe nascosto un desiderio segreto di essere ancora riconosciuto e fermato per la strada, cosa che invece non accadeva più da parecchio tempo. In particolare, secondo lui la sua tesi era avvalorata dalla mia certezza che a seguirmi fosse una donna, sebbene non l’avessi mai distinta chiaramente, perché ciò che mi mancava più di tutto della mia vita precedente era proprio il successo con le donne. E quando diceva questo, immancabilmente sospirava e mi appioppava una leggera pacca sulla spalla, come se invidiasse, se non il mio stato attuale, che davvero non aveva niente di invidiabile, almeno i dolci ricordi che dovevo conservare. Per non deluderlo non gli dissi mai delle mie insicurezze, del fatto che da tempo mi sentivo un impostore alle prese con la vita di un altro e che, sebbene tutti dessero per scontato che io ero un gran donnaiolo, e Laura mi avesse addirittura lasciato per un presunto tradimento, da parte mia non riuscivo a farmene una ragione. Non che fossi sicuro di esserle stato sempre fedele, ma proprio non mi capacitavo di averla mai tradita. A dire il vero, quando ero sobrio ricordavo proprio poco di me, come se fossi uscito da un coma molto lungo o avessi appreso la mia biografia dalla lettura di un bigino. E per il resto del tempo ero troppo ubriaco per distinguere la memoria dall’immaginazione. In ogni caso, come ripetevo a Lin, le sue teorie erano campate in aria. Non soffrivo di manie di persecuzione né ero afflitto dalle mie fantasie. Ero certo che qualcuno mi controllasse, e la convinzione che si trattasse di una donna si basava su dati di fatto.

Alla fermata fui l’unico passeggero a scendere. Mi diressi con circospezione verso la trattoria, con gli occhi puntati sul portone del palazzo dove aveva sede l’agenzia letteraria Malerba. Mi appostai una decina di metri più avanti, all’angolo, in modo da essere nascosto dai tavolinetti all’aperto di un bar, che ospitavano già qualche cliente per l’aperitivo. Con una sigaretta spenta in mano – ormai dovevo centellinarle – e controllando spesso l’orologio, mi davo la posa di chi aspetta l’arrivo di qualcuno prima di sedersi. Dovevo cogliere Giano di sorpresa, evitare di offrirgli vie di fuga, avvicinarlo quando fosse già seduto al tavolo – e possibilmente avesse già ordinato – e soprattutto controllare che fosse solo. In caso contrario sarei tornato il giorno successivo.
L’una era passata da dieci minuti. Un cameriere del bar aveva cominciato a tenermi d’occhio, e mi ero dovuto allontanare due o tre volte fingendo di parlare al telefono, senza mai perdere di vista i miei obiettivi. Fuori dalla trattoria un piccolo capannello aspettava che la cameriera preparasse un tavolo. E all’improvviso lo vidi: uscì dal portone con il cellulare appoggiato all’orecchio, poi lo ripose nella valigetta di pelle senza smettere di camminare e attraversò la strada. Nonostante facesse ancora caldo, indossava la giacca sulla camicia, solo la cravatta era leggermente allentata. Il cranio pelato sul davanti era lucido di sudore e i riccetti sfilacciati sulla nuca e sulle tempie sembravano madidi. Quando vidi il suo grosso deretano ondeggiare verso la trattoria mi avviai lentamente, cercando di lasciargli parecchio vantaggio.
Il capannello rumoroso si era accomodato. Sbirciai attraverso il vetro. Giano era seduto a un tavolo d’angolo, da solo, e sfogliava con aria annoiata del materiale raccolto in una cartellina rossa, forse la posta o qualche contratto. I pochi peli della barba, che, come avevo scoperto con gran divertimento molto tempo addietro, di tanto in tanto eliminava con le pinzette per non irritare troppo le guance delicate, risaltavano in tutta la loro assurdità sulla carne rosea e soda. Mi avvicinai svelto e mi sedetti di fronte a lui, che sussultò e d’istinto chiuse la cartellina e la strinse al petto, guardandosi intorno come per valutare la possibilità di fuggire via di corsa. Invece rimase fermo e spiazzato, mentre le chiazze rosse che si andavano formando sulla sua faccia gli conferivano l’aspetto buffo di una bambola di cera.
«Non volevo spaventarti», gli dissi. «Ti chiedo solo di ascoltarmi. Dieci minuti. Poi me ne vado».
Giano distolse lo sguardo da me senza dire una parola e sembrò rilassarsi. Posò di nuovo l’incartamento sul tavolo, con tanta foga che alcuni fogli ne uscirono di lato.
«Avrei voluto scusarmi per l’ultima volta…», ma lui non diede nessun segno di avermi sentito. «…non me ne hai dato l’occasione. Potevi almeno rispondermi al telefono…»
A questo punto mi guardò. Per un attimo mi sembrò che valutasse il mio nuovo aspetto, poi il suo sguardo mi passò attraverso, come fossi un fantasma, e dalla bocca gli uscì una specie di grugnito. Una cameriera gli posò davanti una caraffa di vino rosso e mezzo litro d’acqua, poi, prima che potesse chiedermi se doveva apparecchiare anche per me, Giano la zittì con un gesto perentorio, ordinò un piatto del giorno e la congedò con la mano. La ragazza sparì velocemente.
«Comunque scusa» ripetei. «Certo che, almeno, avresti potuto rispondermi al telefono».
Si versò da bere e una goccia di vino scivolò sinuosa lungo la caraffa per poi allargarsi sulla tovaglia bianca. Mi leccai le labbra secche.
«Giano, senti, io ho delle difficoltà…»
Gli scappò un risolino.
«No, no, ascoltami ti prego. Ci sono delle novità, proprio così. È proprio per questo che… Insomma in nome della nostra amicizia, tu non puoi…» sentii un groppo alla gola e dovetti interrompermi.
Afferrò il tovagliolo con la mano grassa e le nocche gli diventarono bianche.
«Ti ho già chiesto scusa… Ma tu…», la rabbia cominciava a farmi alzare la voce.
Questa volta la cameriera gli portò un piatto fumante, pieno di bocconcini di carne e patate stufati. Il profumo mi colpì dritto allo stomaco, ma più del profumo, fu il rumore della sua bocca quando cominciò a masticare che mi impressionò. Quando posò la forchetta e si pulì, una traccia di sugo oleoso gli restò sul mento. Avrei potuto ucciderlo. Deglutii e cercai di controllarmi, anche se trovavo molto difficile non ricordargli che una volta eravamo stati inseparabili e che il successo della sua agenzia era dipeso in gran parte dal mio.
«Questa volta devi solo darmi fiducia. Questa volta ho una buona idea, davvero buona. Ma ho bisogno di tempo per svilupparla, ho bisogno di…»
Continuava a mangiare come se io non esistessi, aspirando rumorosamente i tocchi di patate brodosi e macinando la carne con voluttà. Ogni tanto ingollava una sorsata di vino. Gli altri avventori si giravano a guardarci, dovevo essere veramente penoso, implorante di fronte a un cinghiale che consumava il suo pasto senza degnarmi di una risposta né di uno sguardo, un povero animale affamato, con la bava alla bocca. Mi toccai le labbra.
Cercai di ignorare la gente che ci osservava. Se non avessi avuto un disperato bisogno di soldi, gli avrei detto tutto quello che pensavo di lui, ma ormai avevo toccato il fondo e la sua indifferenza non poteva farmi alcun male. Sarebbe stato indubbiamente più facile se mi avesse offerto un po’ di quel vino rosso che cullava con dolcezza nel bicchiere, magari con un assaggio di stufato. Mi sorpresi a pensare che se avessi resistito fino alla fine, quando si fosse alzato per pagare forse avrei potuto bere ciò che restava nella caraffa. Ma non l’avevo raggiunto in quel posto per mendicare mezzo bicchiere di vino, dovevo ottenere un assegno per tirare avanti qualche settimana. Non sarebbe stato facile convincerlo che avevo ripreso a scrivere, però avrei potuto bluffare, fornirgli una scusa per finanziarmi ancora senza perdere del tutto la faccia, anche se non mi avesse creduto.

Dopo la pubblicazione del Diario di un impostore, era parso naturale che mi prendessi una pausa, in considerazione dell’enorme impegno che mi aveva richiesto la promozione, in giro per le librerie, i festival, i locali, con le interviste a giornali e tv. La celebrazione era durata tantissimo, mesi e mesi in cima alle classifiche di vendita, e rimettersi a scrivere sembrava fisicamente impossibile. Giano era al settimo cielo. Gli appuntamenti mondani e l’entusiasmo suo e di Laura, mia moglie, mi avevano aiutato ad andare avanti senza preoccuparmi delle mie sensazioni e così avevo cominciato a vivere con il pilota automatico.
Lentamente, con il passare del tempo, mi ero reso conto che qualcosa si era spezzato. Dopo due anni, davanti alla pagina bianca mi prendeva ancora l’ansia. Quel cursore che lampeggiava mi faceva saltare i nervi, per non parlare dello schermo che si anneriva proprio nel momento in cui mi sembrava di aver avuto una fioca illuminazione. Al secondo portatile che avevo sbattuto in terra, avevo deciso di cambiare metodo, per ritrovare la perduta concentrazione. Avevo tentato di tutto: fogli immacolati e matite dalla punta perfetta, musica di sottofondo, aria di mare, nebbia di lago, fumi dell’alcol. Soprattutto alcol. Non era cambiato niente, a parte che ero spesso ubriaco e davanti alla pagina bianca mi sentivo sempre più impotente.
All’inizio Giano non sembrava preoccupato, anzi, mi trattava con una certa indulgenza. Come mio agente letterario, mi spronava di tanto in tanto a darmi una regolata, ma in realtà avevo l’impressione che ci godesse a vedermi in difficoltà, soprattutto perché nel frattempo aveva riconquistato un ruolo tra me e Laura, offrendole una spalla su cui piangere e facendosi carico dei suoi sfoghi.
In fondo ci eravamo conosciuti a una delle sue feste. Lei lavorava in un’agenzia pubblicitaria e quando Giano me l’aveva presentata – quella sera ero stato invitato esplicitamente – mi era sembrato che me la servisse su un piatto d’argento. Giano aveva un certo modo ambiguo e morboso di partecipare alle mie conquiste, e sembrava prediligere quelle di breve durata. Ma Laura era bellissima, e quando ci eravamo sposati, tre mesi più tardi, mi ero accorto che la situazione era sfuggita di mano non solo a me, ma anche a lui. E così, quando dopo gli anni del successo erano arrivati i periodi bui, e alla mia crisi professionale era seguita quella finanziaria e Laura mi aveva lasciato, Giano si era dilettato nel consolarci entrambi, e aveva ripreso il suo posto nelle nostre vite.

«Ti prego, Giano. Questa volta è una storia buona per davvero. Dammi ancora una possibilità…»
Mi liquidò con un gesto della mano, prese la cartellina e si alzò. Lo afferrai per la manica supplicandolo ancora, ma Giano si liberò con uno strattone, provocando la fuoriuscita di qualche foglio.
«Basta, basta così. Devo andare» sibilò mentre raccoglieva i fogli da terra.
Poi si volse e andò velocemente alla cassa. Non osai seguirlo e restai seduto, immobile, fino a quando non lo vidi scomparire nella strada e la cameriera venne a dirmi che dovevo ordinare qualcosa oppure lasciare libero il tavolo alle persone che aspettavano in piedi il loro turno.
Mentre uscivo, la cameriera mi raggiunse e mi porse un biglietto.
«Le è caduto questo».
Non era mio, ma lo presi comunque. Era stato piegato in due, forse per essere infilato in una busta, e ondeggiava come un gabbiano disegnato da un bambino; su un’ala spiegata, il mio nome scritto in blu in una grafia nervosa, molto diversa da quella ordinata e rotondeggiante di Giano, attirò la mia attenzione.
«Sì grazie», le dissi.
Uscito dal locale lessi il messaggio. Diceva: «Caro Giuliano, quella di Agostino Prat è una storia finita. Ti prego di non insistere… So tutto di lui e non ne so niente. Ho bisogno di liberarmene, è diventato un incubo, un’ossessione. Sono passata oggi in agenzia, ma non ti trovo. Ripasserò domani verso le due e mezzo. Sofia».
Caro Giuliano, Sofia. Chi era questa Sofia che sapeva tutto di me e mi considerava una storia finita? Un’informatrice che lui aveva pagato per controllarmi? Una giornalista che voleva scrivere cose su di me? Mi era capitato che qualcuno si interessasse a me, al mio successo e alla mia crisi, anche in modo morboso, ma non era mai accaduto a mia insaputa. Di solito erano persone molto indiscrete e pressanti, e comunque ormai mi avevano abbandonato anche quelli. Cercai di sforzarmi ma non mi venne in mente nessuna Sofia conosciuta in passato. Riprovai la maledetta sensazione di non avere accesso alla mia vita, alla mia testa.
Il biglietto portava la data del giorno prima, quindi Giuliano avrebbe incontrato questa misteriosa Sofia entro una mezz’ora. Chi poteva essere mai? Sentii una stretta alle viscere. Che fosse lei la donna che mi seguiva di nascosto? La misteriosa pedinatrice che si intrufolava in casa mia lasciando la fragranza del suo profumo dietro di sé?
Una giornalista che si interessava a me avrebbe potuto essere l’occasione per rilanciarmi, per uscire dall’incubo nel quale stavo vivendo. Se avessi saputo che qualcuno era ancora interessato a me, e se Giano mi avesse anticipato qualche soldo per fare un pasto decente, per appianare qualche debito e sciogliere l’ansia che mi attanagliava, forse avrei trovato la forza di scrivere, anche solo un racconto. Ma forse Giano non voleva affatto che io tornassi a scrivere, forse era d’accordo con Laura per farmi fuori in modo definitivo, figlio di puttana! Ormai dovevo saperlo che era invidioso di me, e che godeva nel vedermi affondare. Se mi teneva a distanza, non era solo perché avevo rovinato il suo bel ricevimento, era probabile che si sentisse in colpa per qualcosa, o che non volesse avermi tra i piedi. Ma cosa aveva in mente? Che progettassero di usare il mio nome, il mio romanzo per… per cosa? Tanto mistero poteva significare una cosa soltanto: di qualunque natura fossero i rapporti tra Giano e questa Sofia, non era previsto che io ne fossi informato e traessi vantaggi dalle loro macchinazioni. Forse l’usurpatrice voleva scrivere un libro su di me, paradigma dello scrittore fallito. No, quella roba era solo mia, tutta una vita riversata nel mio libro, al punto che l’avevo persa e non la riconoscevo più. Non si poteva toccare! Parassiti! Ma l’idea doveva essere di Giano, perché lei lo pregava di non insistere, mi considerava una storia finita… Io, una storia finita!

Dovevo aspettarla. Giano era appena entrato nel portone, quasi di corsa, e la donna non poteva essere già arrivata, perché a quell’ora nessuno le avrebbe aperto: Katia, la segretaria, lavorava solo al mattino. Restai immobile, incerto sulla posizione da prendere. Entrare nel bar di prima era escluso, perché non avevo soldi con me e avevo attirato fin troppo l’attenzione. Considerai le varie possibilità e alla fine decisi di appostarmi accanto a un grosso albero qualche metro più in là, posizione dalla quale potevo godere di una buona visuale restando nascosto. Alle due e mezza in punto vidi l’autobus spuntare sulla via e andare a depositare i passeggeri sul marciapiede opposto. Li osservai scendere uno a uno, ma nessuna donna si diresse verso l’ufficio di Giano. Mentre giravo intorno all’albero per tornare a ripararmi sotto la sua ombra breve, udii alle mie spalle un frettoloso trapestio di tacchi e appoggiai il dorso alla corteccia, resistendo alla tentazione di voltarmi. Mi azzardai a guardare la schiena della donna solo quando mi superò, tacchi medi che spuntavano sotto pantaloni grigi, giacchetta nera che ammazzava tutte le forme, capelli corti castani. Si fermò un istante mentre le mani frugavano le tasche e la borsetta, come per controllare nervosamente che tutto fosse a posto, poi riprese a camminare rapida e tagliò obliquamente per attraversare la strada. Il ticchettare nervoso la tradì, per non parlare del suo profumo, che mi investì come un vento caldo e gelido insieme. Approdata sul marciapiede davanti al portone, invece di citofonare estrasse il cellulare da una tasca e armeggiò con i tasti, poi restò in attesa guardando verso le finestre. Non solo ebbi la certezza che quella era la Sofia che Giano aspettava (Giano, al pomeriggio, non rispondeva mai al citofono, bisognava telefonargli per farsi aprire), ma seppi anche che era la donna che mi pedinava e penetrava in casa mia, quasi un fantasma con il quale convivere. La serratura scattò e lei si infilò nell’androne.
Nascosto alla vista delle finestre di fronte, sentii la tensione sciogliersi e lasciarmi un buco doloroso nello stomaco, di frustrazione e fame. Erano già le tre meno venti e non avevo ancora mangiato niente, se almeno avessi avuto da bere sarei riuscito a tirare avanti fino a sera e avrei potuto aspettarla di sotto, magari anche trovare il coraggio di affrontarla. Ma la testa mi girava e le gambe molli cedevano. Sarei potuto entrare nel bar a chiedere aiuto, ma al massimo mi avrebbero rifilato una bustina di zucchero, non certo una bella birra gelata, e dopo i miei movimenti sospetti con ogni probabilità avrebbero chiamato la polizia. Mi diressi stancamente verso la fermata del tram, con un pensiero come un miraggio: se fossi arrivato prima dell’ora di chiusura, Lin mi avrebbe di certo fornito di che placare la fame e la sete, facendo finta di aggiungere il mio debito quotidiano al solito conto che, entrambi sapevamo, era destinato a rimanere aperto.

Arrivai giusto in tempo per trovare la saracinesca abbassata a metà e vi battei sopra due volte prima di guardare dentro. Attraverso le vetrofanie sulla porta vidi il bellissimo volto di Mei, la sorella di Lin, che non mi concesse alcun segno di avermi notato, ma andò a chiamare suo fratello. Lin stava mangiando seduto in fondo alla sala, con l’altro cameriere e i due cuochi. Mi fece segno si sedermi a un tavolino presso la finestra e mi raggiunse con il suo piatto di riso. Poi disse qualcosa in cinese a Mei, che senza aprir bocca né cambiare l’espressione severa si allontanò per tornare con un piatto di ravioli riscaldati e una bottiglia di birra. Nonostante la sua aria ostile, alla vista della bottiglia verdastra mi si allargò il cuore e provai una certa invidia per il cuoco più giovane, che, a quanto avevo capito, era il suo fidanzato.
Lin indovinò i miei pensieri e con un sorriso malizioso allontanò la sorella e la sua disapprovazione. Mi lasciò qualche minuto per rifocillarmi, anche se era curioso di sapere dove me ne fossi andato così di fretta e in ghingheri, e allora, dopo essermi versato nuovamente da bere, gli raccontai del mio tentativo di riaccostare Giano e della mia incredibile scoperta. Rimase piuttosto interdetto quando gli comunicai la mia certezza che la donna misteriosa fosse la stessa che da qualche tempo mi spiava. Ribadì scuotendo la testa che non lo credeva possibile, e che non gli sembravano sufficienti le prove portate a suo carico, sebbene la vista del biglietto sembrò lasciarlo senza parole, e alla fine mi concesse il beneficio del dubbio con il suo sorriso cortese.
«Un bel mistero, amico mio, proprio un bel mistero», mi disse in un italiano rapidissimo.
Finita la birra, che lui non aveva nemmeno toccato, mi chiese se volevo qualcos’altro, mi pregò di non fare complimenti e, scambiata qualche battuta con l’altro tavolo, mi annunciò che ci avrebbero portato subito i caffè.
Attraverso le sottili tendine bianche alla finestra vedevo passare le macchine nella via, e osservavo i movimenti dei clienti fuori dalla tabaccheria all’angolo, che era sempre aperta. Mentre Lin mi porgeva il caffè, notai una figura che usciva rapida dal negozio e quando mosse i primi passi sul marciapiede ebbi un tuffo al cuore. Che Lin avesse ragione a proposito della mia mania di persecuzione? Scostai la tendina e gli indicai la donna.
«Guarda quella donna! Lin, guarda quella donna, ti dico!»
Lin guardò, abbassando leggermente la testa. «Sì?»
Tirandolo per un braccio lo obbligai a seguirmi verso l’ultima finestra, dalla quale si vedeva bene il portone di casa mia.
«È lei, Lin! È la donna di stamattina, quella Sofia, quella che… E sta andando verso il mio portone!»
«Ma ti sbagli, Ago, ti sbagli di sicuro» provò a calmarmi lui.
«Te lo dicevo io! Guarda dove si è fermata! Hai visto che avevo ragione? E ora che faccio?»
«Calmati, Ago», disse Lin prendendomi per le spalle mentre sorrideva divertito. «Quella donna è una tua vicina di casa. Abita lì da parecchi anni, la vedo spesso».
Ora rideva apertamente. «Tu sei stanco, amico mio. Devi riposare».
«Ma cosa stai dicendo?» lo aggredii.
«Dico che vive lì, sono sicuro, anche se non so come si chiama. Viene anche a prendere da mangiare qui, qualche volta, sempre per una persona sola, se ti interessa».
«E come spieghi che io non l’abbia mai incontrata?»
«Tu vivi nel tuo mondo, sai… Forse assomiglia a qualcuno e tu…»
«No, no, è proprio lei, ne sono sicuro. E non abita lì, se la vedi spesso è perché…»
Oddio. Era impossibile. Non erano molti gli appartamenti di quel palazzo. Certo, non conoscevo tutti i vicini personalmente, ma era impossibile che non avessi notato una donna sola.
Intanto Sofia aveva aperto il portone ed era entrata.
Senza ascoltare più le chiacchiere di Lin balzai fuori dal ristorante e mi precipitai nell’androne. L’ascensore era appena partito dal piano terra, e mi buttai sulle scale ansimando. Dopo una sola rampa il cuore mi batteva già a mille ed ero senza fiato, ma continuai a salire senza temere di incontrare Sofia all’improvviso: sapevo con sicurezza a quale piano si sarebbe fermata. Arrivato al terzo dovetti rallentare e sentii le porte dell’ascensore aprirsi sopra la mia testa, seguite dall’ormai familiare ticchettio e dallo scatto di una serratura. Affrontai l’ultima rampa e mentre sbucavo vidi la porta di casa mia che si richiudeva dolcemente, accompagnata dall’interno. Nonostante l’avessi previsto, sentii un brivido gelato percorrermi la schiena.
Dunque aveva la chiave di casa mia. Solo Laura aveva una copia di quella chiave, benché fossero passati tanti anni e non l’avesse più usata da quando mi aveva lasciato. Il fatto che anche lei fosse coinvolta in questa torbida storia mi feriva, ma era facile supporre che Giano avesse ottenuto la chiave con il raggiro, senza spiegarle esattamente quale uso intendesse farne. La mano mi tremava, tanto che ebbi qualche difficoltà a inserire la mia chiave nella toppa. Senza richiudermi la porta alle spalle, per non fare rumore, scivolai lungo il corridoio fino allo studio.

Lei era là, in piedi davanti alla scrivania e mi mostrava la schiena. In una mano stringeva il Diario di un impostore, il braccio abbandonato lungo il corpo, con l’altra sembrava giocherellare con il portapenne sul tavolo, mentre dondolava leggermente il capo.
Indeciso se rivelare la mia presenza, ristetti sulla soglia, poi mi nascosi goffamente dietro lo stipite, affacciandomi sulla stanza. Non solo non si era accorta di me, ma si comportava come se non si aspettasse l’arrivo di alcuno, come una appena rientrata a casa, che si lascia andare, sola, ai propri pensieri. Mentre si portava la mano alla bocca, mi parve di udire un singulto e di vederlo scorrere tra le sue spalle. Strinse il libro più forte, poi lo portò al petto e lo lanciò con sgarbo sulla scrivania. Quando si voltò un poco per guardare fuori dalla finestra vidi che stava piangendo.
Mi feci avanti con un leggero colpo di tosse. Avrei dovuto aggredirla, chiamare la polizia, sbatterla fuori, ma ero paralizzato dalla strana sensazione di essere io quello fuori posto. Ero maledettamente a disagio, come se mi fossi appena intrufolato in casa di una sconosciuta e dovessi mostrarmi senza farle venire un infarto. Se si fosse messa a urlare sarei scappato come un ladro.
Non mi sentì subito. Poi si girò e mi guardò con la bocca aperta, incredula. Non gridò, non cercò di giustificare la sua presenza, né si scompose. Infine accennò un sorriso, tra il sarcastico e l’ebete, scuotendo la testa.
Il mio disagio divenne inquietudine, poi angoscia, mentre pensavo “Chi sei e cosa diavolo fai in casa mia?” ma dalla bocca non mi usciva un suono. Più la guardavo negli occhi e più mi rendevo conto che io sapevo chi era, e sapevo anche cosa stava accadendo, ma l’avevo dimenticato, come piano piano stavo dimenticando tutto della mia vita. L’avevo dimenticato e avrei voluto chiederlo a lei, “Chi sei e cosa diavolo fai in casa mia?”, ma non così, non in modo così diretto, perché in fondo mi sentivo in difetto, avrei dovuto sapere tutte le risposte, padroneggiare la situazione e invece mi veniva solo da piangere.
«Tu chi sei?» riuscii a chiederle.
Una risata rabbiosa le salì dalla gola, mentre chiudeva gli occhi e appoggiava la fronte sui palmi aperti. Poi la risata si tramutò in uno strano singhiozzo. Non sapevo che fare, mi avvicinai. Una cosa di lei la sapevo, si chiamava Sofia.
«Sofia» le dissi più dolcemente.
Respirò a fondo si girò dall’altra parte e riprese in mano il Diario di un impostore, poi finalmente mi parlò, con una voce arrochita, carica di sofferenza.
«Devi smetterla di perseguitarmi. Io voglio liberarmi di te… Eri magnifico ai tempi di questo», disse brandendo il libro. «E adesso che cosa sei, sei un fantasma, uno straccione…»
«Non sono io che perseguito te, è il contrario, non so nemmeno chi sei…», dissi con inutile disperazione.
Cercai di ritrovare la lucidità, di non affondare in quella situazione assurda. Dovevano essere la birra che avevo bevuto e l’ansia a farmi questo brutto scherzo. Eravamo in casa mia, maledizione, e quella donna mi stava dando dello straccione. Non solo tramava alle mie spalle con il mio ex agente ed ex amico, mi spiava, entrava nel mio studio, cercava di rubarmi ¬– che cosa? Appunti? Fotografie? – ma si permetteva anche di insultarmi, di rinfacciarmi il mio fallimento. Feci ancora due passi verso di lei, che si mosse verso la finestra.
«Adesso mi spieghi che cosa sta succedendo, altrimenti io… altrimenti…», dissi alzando il pugno che stringeva il biglietto caduto a Giano.
Prese il biglietto dalla mia mano tremante e, dopo avergli dato una rapida occhiata, lo accartocciò e lo buttò nel cestino della carta straccia a lato della scrivania, con la sicurezza di una che si muove a suo agio nel proprio ambiente.
«Non se ne fa più niente», mi disse voltandosi verso la finestra. «È tutto finito», e posò il libro sul tavolo.
«Di cosa stai parlando?» le chiesi.
«Di te sto parlando. È finita. Non interessi più a nessuno. E ora devi lasciarmi in pace. Io ho bisogno di ricominciare a vivere. Vattene! Vattene!», urlò senza guardarmi.
«Ma cosa stai dicendo? Dovrei andarmene io?» provai a protestare.
Si voltò verso di me e agitando le braccia davanti al viso gridò: «Sparisci! Sparisci! Ti ho detto che devi lasciarmi in pace!»
«Ma tu sei completamente matta!»
«Sei tu che mi fai impazzire! Che mi perseguiti! Con quel tuo sorriso triste, piccolo uomo pieno di debolezze, pronto a usare il tuo fascino per approfittarsi dell’amore di ogni donna. Ma sei solo un fallito». Poi tra i singhiozzi prese il Diario e disse: «Maledetto il giorno che ho scritto questo libro…»
Non riuscivo a credere a quello che mi stava capitando. Una matta stava cercando di introdursi nella mia vita e pretendeva di cacciarmi da casa mia. Le tolsi il libro dalle mani e cercai di spiegarle l’ovvio, come si fa con i bambini: «Questo l’ho scritto io, guarda. C’è il mio nome in copertina. Guarda “Agostino Prat”, sono io. E questa è casa mia. Pretenderei delle spiegazioni da te, se tu fossi in grado di darmele, ma mi sembra chiaro che tu hai bisogno di aiuto…»
Ma come di fronte allo sguardo esigente dei bambini le cose ovvie diventano difficili da dire e suonano quasi assurde, al punto che vorresti urlare “È così e basta! Fidati!” e improvvisamente capisci a cosa servono le fole che si raccontano di solito, così mentre pronunciavo il mio nome e lo leggevo e glielo mostravo mi sentivo ridicolo e impacciato.
Si mise di nuovo a ridere. Passava dal ghigno al singhiozzo e di nuovo al riso come se fosse posseduta da due spiriti in lotta fra loro. «Certo, certo. È stata davvero un’idea brillante usare il nome del protagonista, davvero un’idea brillante. Agostino Prat. Chi sarà mai costui, dovevano chiedersi tutti. E questo diario sarà vero? Come no! Talmente vero che non mi hai più mollato, e da quando ti ho creato non hai fatto altro che trascinarmi verso il fondo… Adesso non interessi più a nessuno, Agostino Prat… A nessuno…», e singhiozzava, «ma io non so fare altro che pensare a te, e sono ancora qui a parlare con te…», e rideva.
Mi sembrava di avere i piedi incollati al pavimento e ogni tanto alzavo una mano come per toccarla. Avrei voluto farla smettere, in qualche modo, in qualunque modo. Doveva smettere di dire quelle idiozie, perché la strana inquietudine che avevo provato fino a quel momento stava diventando rabbia e paura. Era tutto falso, era la mia vita, era così e basta. Strinsi i pugni, cercai di controllarmi e poi mi avvicinai a lei, che era scivolata sulle ginocchia e dal basso mi rivolgeva gli occhi umidi tra i capelli scompigliati.
«Adesso basta», le dissi e la afferrai per le spalle.
Cominciò a urlare come un ossesso e a divincolarsi, mi prese i polsi e si alzò scalciando.
«Devi lasciarmi stare», gridò.
Cercò di mordermi, poi mi spinse via e si lanciò verso la finestra. Mentre la spalancava, io ritrovai l’equilibrio e mi buttai di nuovo su di lei per fermarla.
«No!», sentii la mia voce come appartenesse a un altro, mentre le mie mani scivolavano sui suoi fianchi e lei si spingeva fuori, nel vuoto, con le ultime terribili energie. Riuscii ad abbracciarle le cosce, e già vedevo le macchine sotto di noi e gli alberi, ancora carichi di foglie, e le mani di lei che annaspavano nel vuoto e volevo mollarla, ma già sapevo che non l’avrei fatto.
«No!!!» gridai ancora, ma la mia voce non era più davvero la mia, era una voce senza suono, e io mi sporgevo con tutto il busto dalla finestra e vedevo il cielo grigio, o forse era l’asfalto, sempre più vicino e intorno c’era un silenzio fatto di tutti i rumori del mondo, e poi tutte le cose del mondo si raccolsero in un punto solo, denso come doveva esserlo il grumo dal quale ero stato concepito, denso come i pensieri di Dio quando immaginò l'universo, e dopo non ci fu altro, solo che prima era settembre e Milano si preparava a un nuovo inizio, nuovi progetti, nuova vita. Tutta la vita che si possa immaginare.

© 2010 Michela Tilli