Francesca Esposito, Subway blu



Prendo la metro, i piedi vanno dove sanno loro. A metà banchina sono loro a fermarsi, io dietro. Mi siedo, arriva qualcuno, stiracchio le gambe, le punte, io me le controllo sempre le punte delle scarpe, sono in ordine. Seguo via via i tondini di gomma nera che lastricano le strade senza giorno né notte quaggiù e ritrovo il distributore di merendine. Sul fianco, sul metallo, una scritta nera, ma bella, scritta piano, le “o” fatte tonde, le righe regolari.
Francesca Esposito
Francesca Esposito vive e lavora a Milano. Ha pubblicato diversi racconti, poi nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi).

Eri seduto di fronte a me in un vagone della verde. Ti ho seguito fino alla mobile, ho pensato, solo se si gira, e ti ho lasciato diventare un puntino buio lassù. Hai delle Adidas a strisce verdi. Sono la ragazza con le ballerine nere, ho visto che mi guardavi le caviglie. Alla stessa ora, domani, ci sarai?

Arriva una folata di vento e poi il treno. Entro inghiottita da uno shanghai di gente, le guance sono a chiazzette rosse, me le sento. Mi spingono, faccio il conto, sono passati sette mesi. Cerco un buco dove appoggiare lo sguardo, trovo una spalla blu con forfora, una cintura borchiata su dei pantaloni a vita bassa, cerco a terra, scarpe, quelle degli uomini, ne trovo certe con delle punte appuntite, certe color biscotto e le fibbie di metallo, troppo lucide le fibbie di metallo, e le stringhe, le stringhe sono troppo corte nelle scarpe degli uomini, perché? perché le stringhe sono così corte, nelle scarpe degli uomini?
Capolinea, faccio le scale a piedi, la mobile è rotta. Noi gente della subway siamo palline di gomma, palline di gomma grigia a fare sempre lo stesso giro. Ho sete. Magari poi mi chiudo in bagno, mi faccio una doccia calda, così lui mangia prima, magari. Sbuco su, a destra c’è un bar, mentre lo aspetto potrei comprarmi la mezza minerale. Ciao, scusa il ritardo…, schifosamente in orario, come al solito. Mi schiocca un bacio sulla guancia. Niente più bottiglietta d’acqua. Mi prende la borsa, infila la mano nella tasca del mio cappotto. Odio quando fa così, mi sforma tutte le giacche e poi devo sempre stare attenta a non lasciarci dentro niente. Sai cosa ho visto prima in metro? Cosa…? guarda che se non ci muoviamo…, affonda la mano, fa per trascinarmi. La scritta, è ancora lì. Si ferma al rosso, gli rimbalzo di fianco. Una tizia attraversa lo stesso, le cuffiette nelle orecchie, la testa ficcata nella sciarpa. Pazzesco se ci ripenso, no? Fisso lui che fissa il rosso. Riprovo. Pazzesco se ci ripenso, no? Sfila la mano dalla mia tasca, fa per darmi un buffetto sulla guancia e sorride al semaforo. Gli occhi mi cadono sulle Adidas, precise, pulite, ben allacciate. Scatta il verde, mi riaggancia la mano in tasca e mi tira, praticamente una cieca.
Camminiamo in silenzio, io gli tengo dietro, guardo a terra, cerco sassolini, lui schiaccia un pulsantino, due fari rispondono e scattano le sicure. Sul sedile posteriore lancia la mia borsa e la sua valigetta. Mette in moto, un tremolio sotto il sedere, Non avrei mai immaginato che poi l’avresti letta. Fa per toccarmi sotto al polpaccio, Tutta colpa delle tue caviglie…, poi infila la retro. C’è un poster gigante fuori dal mio finestrino, una ragazza bellissima, delle mutande piccolissime, i capelli biondissimi. Se ci muoviamo riusciamo anche ad andare al Super, dice. Sì, dico. Delle gambe lunghissime, mai un pelo, una ruga, un brufolo, solo il rosso lucido della bocca, sui manifesti delle ragazze bellissime. Poi la ragazza bellissima rimane lì stesa su un fianco, sospesa nel buio in fondo alla strada. Poi le luci delle finestre, poi buio, poi il viale, poi la luna, come un cerchio di latte molle, la luna. Frena, rinculo dentro la cintura. Mi volto a guardare le macchine fuori dal mio finestrino e penso che anche gli altri fanno come facciamo noi, la sete, le tasche, chi con le caramelle chi senza, tutti in macchina, tutti a fare le palline di gomma grigia dentro le macchine. Ha alzato il volume, alla radio parla un tizio, poi una musica, poi ritorna il tizio e uno che gli chiede una cosa al telefono. Non riesco a vedere le scarpe di quelli nelle macchine, però. Bisognerebbe cancellarla, non credi? Abbassa un filo, Ah, senti, quando siamo al Super mi ricordi i cereali con il muesli e i succhi?, mi dice. Sì…, dico. Prende l’onda verde, va veloce, mi viene come uno svuotamento nello stomaco,allento la sciarpa, le braccia sul petto. Frena di colpo, schiaccia forte il clacson. Non dormo da te stasera, dico. Perché? ma non vuole una risposta, Allora salta la palestra, Ok dài, mangiamo fuori, dài. Lo sapevo, si è seccato, lo sapevo.
Sotto casa il Super è ancora aperto, mi ripete quello che gli devo comprare e mi dice di aspettarlo lì, il tempo di una doccia. Parcheggia, la macchina fa tic-tic-tic-tic mentre parcheggia, come se dovesse esplodere invece di parcheggiare, cerco un euro in tasca, lo trovo nella borsa e lo infilo nel carrello. Mi piace fare la spesa, le confezioni, mi piacciono le confezioni rigide. Faccio presto, alla cassa c’è poca gente, riempio due sacchetti, lascio fuori la mezza naturale, bevo a canna mentre mi avvicino al portone, poi citofono, il portone scatta. Ricitofono, Sali non sono ancora pronto. Invece faccio che lascio le buste lì e attraverso.
Mi guardo nelle vetrine, sembro strana nelle vetrine, sembro un’altra nelle vetrine. C’è un colorificio. Stiamo per chiudere, mi dice il tipo appena metto un piede dentro. Solo una cosa velocissima…, faccio gli occhi a goccia, lui allarga le braccia e le lascia ciondolare di colpo, Prendo la scaletta…, mi dice arreso, e si arrampica in un attimo. Si ferma sull’ultimo gradino, la parete come una libreria di barattoli smaltati. Blu, vorrei un blu.
Timbro, un deserto al neon, non c’è nessuno, come se fossero tutti già o arrivati o partiti. Dice tre minuti, uffa, tre minuti sono un sacco, penso. Tre minuti di attesa sono un sacco di tempo per aspettare la metro, a Milano. Poi arriva, di solito mi siedo a destra vicino alle porte, ma adesso di fronte ci sta questo, i sacchetti di roba arrotolata, una puzza di pipì che mi si infilza tra gli occhi. Solo lui, un vagone intero e solo lui. Dorme, le gambe scomposte, la pelle una cotenna rossa e viola, mi siedo in fondo, chissà che sta sognando.
Eri seduto di fronte a me in un vagone della verde. Ti ho seguito fino alla mobile…, patetica. Tiro fuori dalla borsa la bomboletta, la agito, fa un rumore come di palline di ferro frullate nel fluido, controllo che non passi nessuno, due minuti e ora c’è solo un cielo blu cobalto senza stelle.
Ritorno su, la luna lì, inchiodata nel vuoto e in tasca il telefono che vibra, leggo Ma dove sei? Ho voglia di pizza, pizza margherita, io sempre margherita e birra. Milano di pizzerie ne trovi quante ne vuoi. Difatti alla prima entro, chiedo un tavolo vicino alla finestra, il cameriere toglie un coperto. Non ho mai mangiato da sola in pubblico, arriva la mia birra e un altro messaggio. Ma dove diavolo sei? La schiuma mi fa solletico al labbro superiore, taglio uno spicchio fumante, il filo di mozzarella fa una curva lunga. Nell’angolo una coppietta di quelle con gli occhi addosso uno sull’altro, penso che è questione di tempo, è solo questione di tempo, e poi penso che dovrei comprarmi un paio di orecchini tipo quelli che ha lei. Mi squilla il telefono una, due, tre, poi più, per via della batteria, il mio telefono ha sempre la batteria scarica. Provo anche a riaccenderlo, ma niente, è scarica. Pago poco alla fine, una pizza e una birra non è tanto, undici euro, di solito almeno il doppio, ovvio, penso. Fuori l’aria punge di umido, infilo le mani nelle tasche, sento con le nocche la fodera liscia, fredda, faccio per cercare alla cieca qualcosa, una caramella, un foglietto, un biglietto, niente, solo fodera liscia, e fredda.

© 2010 Francesca Esposito