Caterina Falconi, Notte bianca



UUna svista e Letizia è uscita di casa senza che ce ne accorgessimo. La signora delle pulizie ha lasciato il portone socchiuso e lei è sgusciata fuori. Di solito, quando succede, torna spontaneamente dopo qualche ora con un oggetto sottratto dal giardino dei vicini: una pigna, un rametto, una palla del bambino. Ma oggi c’è un gran casino sul viale. Allestiscono gli stand per la notte bianca. Scaricano panche dai furgoni. Rimuovono auto parcheggiate. È tutto un turbinio di ragazzi del comune in uniforme, ambulanti e passanti. Un clangore di oggetti metallici sbatacchiati che percepisco, ovattato, grazie agli apparecchi acustici. Mi chiedo quanto forte e atterrente sia questa cacofonia per Letizia, che salta tremante sulla credenza anche se cade un mestolo. Temo che il rumore la induca ad allontanarsi dal quartiere, a rifugiarsi in qualche vicolo interno, che le accada qualcosa, di non rivederla più. In preda a quest’angoscia di perdita invio un sms a Giuseppe, che oggi si trattiene allo zoo fino alle venti, per un’attività di osservazione di un branco di cinque gibboni che vede turnare quattro operatori, direttore compreso, per l’intero pomeriggio.
Caterina Falconi
Caterina Falconi per Fernandel ha pubblicato molti racconti e il romanzo Sulla breccia. Per l'editore Galaad nel 2014 ha pubblicato il romanzo Sotto falsa identità.

Letizia è scappata. Sono uscita a cercarla in giro, ma non la trovo. Ho paura che spinta dal terrore dei rumori si allontani e si perda. Che non torni più.

Aspetto, e dopo qualche minuto Giuseppe risponde:

Non ti preoccupare Mela. Tu sottovaluti i Cercocebi. Letizia sa badare a se stessa. Si sarà arrampicata su un albero, e riscenderà quando la notte bianca sarà finita. Vedrai che domani torna a casa.

Come sempre riesce a tranquillizzarmi. Torno nello studio e fisso le illustrazioni che sto ultimando per le favole di Piumini. In cinque tavole su sette, a guardar bene, tra gli stivali di un cavaliere, sottobraccio a un nano di corte, da una piega nell’abito di una regina, o mimetizzata tra velluti e vasellame… fa capolino una scimmietta lanuginosa e fragile. È sempre lei, Letizia, ritratta dalle foto di quando era cucciola, un anno fa, e io ero appena scampata alla morte. Per fortuna da un po’ c’era anche Giuseppe nella mia vita, il direttore dello zoo cittadino, conosciuto l’estate prima a una sua conferenza sui primati. Vi ero andata per raccogliere materiale per delle illustrazioni, con scimmie e oranghi, che mi erano state commissionate da una piccola e agguerrita casa editrice per ragazzi. E Giuseppe aveva accettato che lo intervistassi, a conferenza finita, davanti a una tazza di tè freddo. La sua accogliente modestia mi aveva talmente sorpresa che credo mi innamorai all’istante di lui. Mi ero appena separata da un marito sbiadito che si era finalmente messo con un’altra. Giuseppe aveva ancora la gamba ingessata, dopo l’ennesimo intervento per ricostruire il ginocchio sfasciato nell’incidente d’auto in cui sua moglie era rimasta uccisa. Liberi tutti e due dunque, e tormentati da un senso di fallimento (io), e di colpa (lui), sulla china della mezza età (in cima io e Giuseppe in fondo), ansiosi di mischiarci in un sodalizio in cui fossero predominanti la voluttà e la componente intellettuale. Mi piaceva che fosse un etologo di fama mondiale, e a lui piaceva che io fossi un’illustratrice relativamente nota. E così era iniziato un amore cheto e pieno che ci aveva portati nel giro di un mese a convivere nella grande casa di Giuseppe, affacciata sul viale principale della nostra cittadina.
Ricordo il giorno che vi entrai, zaino in spalla, e una cartella con le tavole delle illustrazioni da completare. Il resto delle cose l’avrebbe portato il mio ex l’indomani, col furgone. Giuseppe venne ad aprirmi in tuta celeste, mi abbracciò forte e mi condusse in una cucina piena di pensili, e posapentole, e presine elaborate, e quadrucci, e un almanacco appiccati alle piastrelle. E tutto un brulichio di oggetti colorati che si materializzavano quasi sotto i miei occhi dovunque guardassi. C’erano libri e quaderni e portapenne sui ripiani. Cesti con frutta e odori. Caffè fumante e biscotti per me, sul tavolo… E ogni cosa, in quel lindo contesto, dava un senso di opulenza e allegria. Le altre stanze presentavano le stesse caratteristiche: mobili vecchi mischiati ad arredi moderni. Lampade, tappeti, e vari oggetti etnici complicavano quella disarmonica eterogeneità, che non mi infastidì, nonostante parlasse della vita del mio compagno con una donna anziana che non c’era più. Sono sempre stata una che si è ricavata nicchie negli spazi degli altri, perciò nei giorni successivi mi limitai a fare la richiesta di sostituire la vecchia camera da letto con una giapponese che avevo ammirato da un importatore di mobili esotici, e a invadere la lavanderia con il mio tavolo da disegno, le librerie, e tutto l’occorrente per il mio lavoro. Il resto dell’appartamento rimase com’era. Ero in pace con il fantasma della prima moglie, e felice di passare lunghe ore da sola in una sovrabbondanza di oggetti, e le notti abbracciata a un uomo zoppo che restava bello e sapeva amare come piaceva a me.
Spesso lo andavo a trovare al lavoro. Era ormai autunno, i viali dello zoo rosseggiavano. Cumuli di foglie secche si accatastavano contro le siepi. Gli animali erano irrequieti nei recinti. Si muovevano perplessi sui sassi e le scaglie di torba come in attesa di qualcosa: il freddo probabilmente. Il leone sembrava in preda a una moderata psicosi, girava in tondo per accucciarsi, e subito dopo riprendere la sua estenuante marcia circolare.
I dipendenti, quasi tutti etologi o veterinari, ricercatori entusiasti e competenti, mi consideravano parte dello zoo, in quanto fidanzata del capo, alla stregua della compagna di Mimmo, il maschio dominante del branco degli scimpanzè, campione di grooming, ed avevano simpatia per la mia noncurante persona. Erano giovani infaticabili che, a furia di mischiarsi con gli esemplari di specie in estinzione, erano deliberatamente regrediti ad un’essenzialità intermedia, tra l’istintivo e l’umano, nelle movenze, nel look trasandato, ed erano capaci di approcci autentici e di grande generosità.
Giuseppe coordinava le attività da una baracca di legno rossiccio. Libri su scaffali di pino, un computer malandato su un vecchio tavolo sverniciato, sedie di bambù, cataste di stampati su una cassapanca. Alle pareti foto sbiadite degli anni in cui aveva ancora tutti i capelli in testa, ed era a capo di una spedizione scientifica in Madagascar. Quando mi vedeva entrare si illuminava e mi zoppicava incontro per abbracciarmi, e raccontarmi tutto quello che gli era passato per la testa nelle ore trascorse senza di me: della sua colazione al bar, delle recensioni dei libri sbirciate su una rivista del locale, delle novità allo zoo. Fu così che seppi che Fiorella, una femmina di cercocebo che viveva nel recinto col proprio compagno e l’anziana mamma di lui, era incinta di quattro settimane.
Andiamo a vederli, mi propose Giuseppe, e io lo seguii riluttante. Quella mattina lo scirocco non dava tregua. La faccia mi scottava e avevo un principio di nausea. Probabilmente avevo già la febbre e un presagio di sventura mi otturava il petto. Ero insofferente all’aria rovente e contaminata. Tutto mi sembrava eccessivo, e ostile. Il tanfo delle gabbie. I versi degli uccelli che stridevano nelle voliere. Mi sentivo impazzire. Sostai davanti al recinto dei Cercocebi ubriaca di disgusto. L’odore era insopportabile. Il maschio faceva smorfie grottesche andando avanti e indietro. Si percuoteva il petto. Emetteva richiami vocali. Marcava il territorio e si masturbava ripetutamente. Una vecchia scimmia se ne stava in disparte su una mensola all’interno, e ogni tanto sporgeva fuori il muso sdentato. Fiorella, distesa su un tronco, il ventre teso e quasi glabro, si carezzava lo stomaco enfia di soddisfazione animale. Da ragazza avevo avuto due aborti spontanei, e l’umiliazione di non poter avere figli mi riassalì inaspettatamente davanti a quel trionfo di fecondità bestiale. Sentii un dolore acuto trapassarmi il collo e pregai Giuseppe di riaccompagnarmi a casa. Mossi due passi in direzione del viale e mi vomitai sulle scarpe.

Non so quanto tempo sono rimasta in piedi davanti al tavolo da disegno, a ricordare come la vita a un certo punto si sia impennata, prima di precipitare in un’ineluttabile e terribile buio. Né ricordo quante settimane sia rimasta in coma. Né le cose che ho sognato, ammesso che si sogni, in quelle condizioni.
Attraverso la sala e mi affaccio alla finestra sull’altro lato della casa. Il cielo è iniettato di rosa, un’infiltrazione fluo che rapidamente dilaga, lo impregna, e insanguina il trepestio sul viale. Rossi i gazebo che traballano mentre vengono montati, rosse le facce, le mani dei passanti, le cosce dei ciclisti, i tronchi dei platani. Odore di liquirizia dal furgone dei dolci. L’estate è al culmine. Sono giorni che il caldo strattona tutti in una spossatezza lacera. Mi chiedo quanta gente prenda decisioni avventate e rabbiose, impazzisca, soccomba al panico. Si ammazzi, persino. È un’ubriacatura di torrida irrealtà, che fa ricordare come perduta la routine dei mesi invernali, e sperare che non torni mai più. I rumori salgono ovattati fino a me, punteggiati da sussulti. Gente che impreca. Bambini che piangono.
È stato terribile, all’inizio, abituarmi a sentire pochissimo. Mi avevano detto che i ciechi hanno un carattere migliore dei sordi, ma ho capito cosa intendessero solo quando è toccato a me. Non so cosa percepisca un cieco nell’uniformità che lo avviluppa, ma certamente in quel vuoto cromatico sente muoversi presenze. Le individua, si mette dolcemente in rapporto con esse. Le sfiora. Le ode. Le annusa. Per un sordo il mondo è traumatico: niente mitiga il convulso flusso della vita attorno, e il silenzio non protegge dall’urto con gli altri corpi. Le voci e i rumori annunziano. Privo della capacità di accogliere i suoni, chi abbia la mia infermità vive in costante stato d’allarme. Niente, se non le labili vibrazioni del suolo, ci avverte che qualcosa sta per piombarci addosso. Anche una carezza inaspettata ci spaventa. Per distrarmi, passeggiavo molto aggrappata al braccio di Giuseppe, i primi tempi, ma appena vedevo i passanti muovere le labbra in un brusio soffocato ero assalita dal rifiuto. Non poteva essere successo a me! Che altro dovevo aspettarmi?
Al più presto provvidero ad applicarmi due apparecchi acustici che amplificarono il mio udito. Adesso sentivo come attraverso il soffio di un vento impetuoso, e amaramente mi dicevo che lo scirocco del giorno in cui mi ammalai non mi era mai uscito dalla testa. Era comunque meglio che non sentire quasi nulla…
Ora è come se da una ferita nel cielo defluiscano il calore e la luce. Nuvole verdastre si stagliano su un fondo esangue. Il loro strano colore mi ripugna. Sembrano grumi di pus, cenci necrotici.
Guardo giù. Tutti i gazebo sono a posto. Una penombra cheta sfuma le facce. La sera muore senza troppi sussulti, mentre il flusso dei passanti ingrossa. Tra un po' sarà buio, e la notte bianca avrà inizio. Decido di cucinarmi qualcosa e poi uscire di nuovo a cercare Letizia. Verso un filo d’olio in una padella, lavo dei pomodorini. Cucinarmi mi dà l’impressione di prendermi cura di me. Per tutta la vita la distrazione degli altri nei miei riguardi mi ha persuasa di valere poco. E probabilmente la disgrazia della sordità mi avrebbe annientata, se al mio fianco, in un modo assolutamente fortuito, non fosse planato quel grande e taciturno uomo sentimentale che prende il mio corpo tutte le notti.
La meningite conclamò con volgare brutalità. Passai la sera a vomitare squassata da un dolore al capo e al collo indescrivibile, e poi crollai sul letto e nel buio. Giuseppe racconta di avermi trovata rannicchiata in posizione fetale, gli occhi rovesciati, la febbre altissima, che emettevo un fischio grottesco tra bolle di bava. Fui ricoverata d’urgenza nel reparto malattie infettive, e rimasi in coma un numero di settimane che continuo a rimuovere.
Forse sognai. Se ripenso a quel tratto di vita trascorso in immersione ho la sensazione di aver marciato spossata in una tenebra densa. Ma a un certo punto, precipitosamente, come precipitoso era stato ammalarmi, nella mia testa si schiuse qualcosa. Figure umane emersero. Una scena di folla. Forse un’allucinazione indotta dalla febbre, oppure… Le teste si delinearono, coperte di papaline rosse. Anche le spalle erano ammantare di porpora. C’era un grande fermento, una commossa aspettativa. Le voci dicevano che sarebbe arrivato il papa, e io sapevo che si trattava di papa Wojtyla.
Aprii gli occhi e dovetti subito richiuderli. Riprovai a schiudere le palpebre battendo le ciglia per resistere alla luce, e misi faticosamente a fuoco la figura che emergeva: Giuseppe! che seduto accanto al letto abbassava la mascherina per farsi riconoscere.

Finisco di cenare e lavo frettolosamente i piatti. Metto in borsetta le chiavi di casa, una lattina di macedonia e un cucchiaio, una banana, il sonaglino di Letizia, il cellulare per inviare eventualmente sms allo zoo. Scendo in strada e chiudo il portone alle mie spalle. Il fresco mi ingloba. È buio, ma l’alone di una luna quasi piena chiazza la notte. Dagli apparecchi acustici un borboglio strascicato, musica distorta e attutita. E chissà che casino c’è invece sul viale. L’aggressività delle lampade alogene montate sui gazebo, alimentate dai gruppi elettrogeni di cui non avverto il ronzio, ne è una trasposizione visiva. Decido di immettermi nel fiume dei passanti come una turista qualsiasi. Tanto sono già quasi tutti ubriachi, e molti sono forestieri: difficile che mi riconoscano in questa bolgia. Che notino gli apparecchi acustici sotto i capelli. È vero che sono strattonata e urtata, ma accade anche agli altri, assordati dal casino. Cammino e osservo i passanti. E per un po’ la curiosità dell’illustratrice, che mi porta a rubare scene e volti da ritrarre nelle tavole che disegno, prende il sopravvento. A prediligere i grugni grotteschi che sfilano nella calca sudata. C’è questa donna lombrosiana, ad esempio, dal volto sbigottito e la fronte sfuggente, che si rivolge ad un uomo affranto con uno scatto bellicoso del busto e della testa, e quasi lo divora mentre lo rimprovera. E questi altri tipi che sembrano usciti dai miei ricordi di bambina, quando papà ci portava in montagna a visitare la famiglia di un maestro elementare dal culo a pera, con moglie e figlie dai deretani immensi e il naso rincagnato, che mi facevano pensare a dei pupazzi animati. In effetti tutto l’entroterra si riversa nelle strade della nostra cittadina, gente talvolta arcaica e diffidente, impermeabile alle mode, che per una sera si mescola a tipologie diversissime di umanità di varia provenienza, anche esotica. Stormi di adolescenti sbronzi e nerovestiti sbandano tra i passanti. Le bancarelle etniche diffondono il caratteristico odore acre. Famigliole assonnate, madri con i passeggini, coppie attempate a braccetto, seduttive single di ritorno dagli occhi bistrati, comari affacciate ai balconi, e musicisti a ogni angolo di strada…
No, Letizia non può essere sul viale. Questa è una bolgia terrificante per lei. Sta rintanata in qualche vicolo, abbarbicata a un ramo, a una grondaia, e si illude che il frastuono cessi presto, per rianimarsi un po’ e correre a casa. Forse basterebbe che mi infilassi in tutte le traverse, battendo col cucchiaio sulla lattina della macedonia, scuotendo il sonaglino, per vederla a un certo punto accorrere a balzelloni, come quando era una signorinella di Cercocebo dal collare, con la coda lunga vezzosa sollevata, il musino grinzoso e gli occhi impressionantemente umani. Ma qualcosa mi trattiene obbligandomi a costeggiare le band di metallari borchiati che scalpellano e ruggiscono in sordina con voce sporca: è l’incredulità, e il dolore, di non riuscire più ad ascoltare la musica nitidamente.

Ero ancora convalescente quando Giuseppe fu chiamato d’urgenza allo zoo. Fiorella aveva partorito, e abbandonato il cucciolo impiastricciato di sangue e muco sul cortile di scaglie di torba. La vecchia nonna si aggirava con fare protettivo attorno a quel grumo patetico, mentre il padre mostrava le zanne. È una cosa che pare capiti spesso, tra i primati in cattività: rifiutano i neonati, talvolta li uccidono. Il guardiano era entrato nel recinto e tra le strida isteriche degli esemplari adulti, aveva raccolto Letizia, e l’aveva avvolta nella felpa di un’uniforme. Il veterinario era accorso, aveva diagnosticato uno stato di lieve disidratazione della bestiolina, peraltro sanissima, e consigliato che fosse allevata dal personale dello zoo, e solo successivamente reintrodotta nel recinto. Ma questo lo sapevano già tutti: è la prassi, con i cuccioli reietti.
Giuseppe rincasò col fagottino di Letizia tra le braccia, e me lo posò in grembo. Era banale e scontato che avesse pensato a me. Poteva solo far bene a entrambe, che mi prendessi cura della scimmietta.
Iniziò così l’avventura alla Rudyard Kipling, che ha visto fronteggiarsi una donna menomata e un animaletto snaturato. Paradossalmente, Letizia aveva un udito sensibilissimo, e reagiva con parossistico spavento a ogni suono brusco. Ripenso a quei giorni e la rivedo fissarmi con gli occhi nocciola che le invadevano le orbite, e un’aria indifesa. Era una bestiola mite, ossessionata dal bisogno di succhiare. Sempre col pollice in bocca, tastava aggraziata gli oggetti nel suo lettino con l’altra mano. Le braccia esili, esile la schiena, le scapole sporgenti, la testina lanuginosa, argentea e arruffata. Poppava in piedi dal biberon, battendo con i polpastrelli sul mio avambraccio per rassicurarsi. Giuseppe mi aveva raccomandato di non toccarla troppo, per non compromettere il suo istinto di aggregazione ai propri simili. Ma io contravvenivo abbondantemente a quel divieto, e vivevamo praticamente avviluppate. Nel silenzio che mi congiungeva a lei, la osservavo giocare col leone di peluche, con una bottiglia di plastica vuota, rivolgermi uno sguardo grato, sorridere (così sembrava), muoversi agilmente con la coda sollevata, maneggiare gli oggetti con un’abilità impressionante. Accettare fiduciosa una fettina di banana e portarla con entrambe le mani alla bocca. Correre da me affamata di contatto fisico, come vorrei che facesse adesso, che già mi sento stanca di tutto questo bagliore, e di questa notte sguaiata, della sua pacchianeria. Sfilo gli apparecchi acustici provocando la repulsione dei passanti, e finalmente mi immergo in un silenzio lutulento e sentimentale. Avvolta dal buio vellutato, mi infilo nel vicolo adiacente a casa mia e mi dirigo sicura verso il grande mandorlo della vicina. Sento che la birbona è qui, l’ho saputo dal primo momento, quando ho temuto, e forse sperato, di averla perduta.
Ricordo nitidamente l’emozione di vedere la mia mano che si tendeva verso il corpicino inarcato di Letizia, e il suo piccolo pugno che rispondeva all’invito serrandosi attorno al mio indice. Fendevamo il silenzio, per toccarci. Allora, come adesso, che forse chiamo, o forse sussurro: Letizia, ai piedi dell’albero. Alzo gli occhi e colgo un fremito tra le foglie. Tutto accade con una naturalezza che non mi sorprende. Il muso grinzoso fa capolino, e con una specie di sorriso lei sguscia dal fogliame, scende precipitosamente dal tronco e si arrampica su di me.
Mi si acciambella attorno al collo, e finalmente mi sento al sicuro.

© 2012 Caterina Falconi