Valeria Caravella, La casa di mia madre



Il cappotto gli si è aperto come un mantello alla raffica di vento. Salivo i gradini della basilica quando ho visto il gruppetto a sinistra. Sconosciuti, forestieri, tutti maschi. Avevano di che dirsi sul campanile, sulla scalinata. Li ho immaginati architetti, oppure investitori come tanti se ne vedono ormai in questo paese. Si comprano le case vecchie che si sgretolano sul mare e che le abitano i gabbiani e i gatti. Qui è pieno di gatti, anche di cani.
Le comprano, le sistemano, le arredano moderne con i mobili ikea e poi le affittano ai turisti stranieri, ma anche italiani, famiglie con bambini che scelgono le case tipiche del centro storico per le vacanze e stendono i teli da mare sul balcone. Solo che poi, che succede, i balconi sono bassi e i teli gocciolano in testa alle persone. D’estate qui è pieno di gente, i vicoletti sono gonfi di gente, i tavolini dei ristoranti all’aperto non ne parliamo. Io glielo dico sempre a Elia, il tipo che vende il Limolivo: «Ma scusa, Elia, non glielo puoi dire alla signora che i panni se li deve stendere in casa?» Elia mi dice che i turisti apprezzano certe cose.
Valeria Caravella
Una donna possiede la casa di sua madre, con un bellissimo terrazzo sul mare. Un uomo, un investitore veneto, la compra. La donna è sedotta dall'uomo, l'uomo è sedotto dalla sua casa. L'ingenuità e la bontà di lei, l'astuzia e il fascino di lui.
Ho 33 anni e vivo a Vieste. Il centro storico di questa cittadina garganica è stato interamente venduto dai locali a gente venuta da fuori. Forse la ragione sta nel grado culturale differente, o in un autentico fiuto per gli affari, fatto sta che questi forestieri sono riusciti a vedere e poi a comprare quella bellezza che la gente del posto non riconosce più e si lascia sfuggire.
«Apprezzano cosa, le mutande sopra la testa?»
«Sì, pure».
Quando gli si era aperto il cappotto avevo notato un abbigliamento per niente casuale. Un uomo curato. Un uomo, un ragazzo. Avrà avuto trent’anni, non di più. Un sacco di capelli lisci che gli svolazzavano attorno al collo, un collo lungo, sottile, le mani dentro le tasche.
Sono rimasta a guardare la facciata della basilica, ogni tanto di notte me la vado a guardare perché è troppo bella, dietro non tiene niente, ci sta il mare, le stelle se non è nuvolo. Il vento era forte e faceva freddo, allora mi sono abbracciata dentro la giacca, l’ho fatta aderire bene al corpo, ho chiuso le maniche con le dita.
Il tipo si è avvicinato. «Lei è di qui?»
«Sì, tu no».
«No, io no. Veniamo dal Veneto, stiamo facendo un giro per la Puglia».
«A novembre vi fate il giro per la Puglia? D’estate è più bello».
«Siamo qui per lavoro».
«Ho capito. Vi piacciono queste casa sfasciate».
Mentre rideva ha cacciato i denti bianchi. «Sì, ci piacciono molto. Questo borgo è incantevole».
«È bello, però scusa non ho capito: la casa serve a te? Ci devi venire in vacanza con la famiglia?»
«Non ho famiglia e comunque no, non serve a me, non direttamente. Li vedi quei signori lì? Noi acquistiamo immobili antichi che poi trasformiamo in case vacanze per i turisti».
«Ho capito. Fate bene e non siete nemmeno gli unici. La gente qua viene, compra le nostre case, e poi guadagna, si fa i soldi senza lavorare. Invece noi che nasciamo qui, per sei mesi l’anno non esistiamo più. Lavoriamo tredici ore al giorno, tutti i giorni senza un giorno di riposo, ma va bene così, siamo abituati».
Io non glielo volevo chiedere se ci veniva con la famiglia in vacanza, nel senso che non ero curiosa dei fatti suoi, m’è scappato. Io la famiglia ce l’ho, marito e due figli.
«Tu che sei del posto», mi ha fatto, «forse conosci qualcuno che ha una casa da vendere nel borgo, magari non sa che farsene, la tiene lì abbandonata a prendere polvere».
«Ce l’ho io una casa. Era di mia madre, adesso però è mia. Se me la sono tenuta finora è perché pure a me piacerebbe fare il vostro affare, anche se non c’ho le competenze, e nemmeno i soldi per ristrutturare, ma mi piacerebbe assai».
«È un buon investimento, davvero. E dimmi, com’è questa casa, ha il terrazzo?»
«Domani te la faccio vedere. Con il terrazzo».
«Che succede se poi mi innamoro della tua casa?»
«Se t’innamori poi si pensa».

Ci siamo dati appuntamento al giorno dopo e io non so con che coraggio gli ho dato l’orario, l’indirizzo, il nome del bar. Quella sera alla basilica, il ragazzo con il mantello, il vento che ti entrava nei vestiti, l’odore del mare che era forte, ma proprio forte come piace a me certe notti che fanno uscire le lampare, m’è venuto quel coraggio che tenevo da ragazzina quando facevo le cose senza pensare.
Il mattino dopo è arrivato puntuale davanti al bar. Io l’appuntamento non gliel’avevo dato al bar perché volevo fare colazione insieme a lui, visto che sono dieci anni, da quando sono sposata, che la colazione la faccio da sola, alle sei e mezza con latte e caffè, ma lui così ha pensato e ha voluto comprarmi il cornetto. Giuro che non lo volevo, non tenevo un briciolo di fame, lo stomaco si era chiuso, ma quello ha insistito e ho dovuto dire di sì e sforzarmi a ingoiare il cornetto che non scendeva, rimaneva duro sopra lo stomaco.
Era bello. Mi piaceva proprio assai. M’è piaciuto subito appena l’ho visto, non so perché. Gli occhi belli, il naso, la bocca, bello da ogni parte lo guardavi. Un uomo, un ragazzo, anche se quella mattina alla luce del sole teneva forse qualche anno di più, ma sempre più giovane di me era. Io i miei anni me li portavo bene, a me l’età che c’ho non me la dà nessuno nemmeno adesso. Eppure ho sempre fatto lavori di fatica. Da ragazza lavavo i piatti nella cucina di un ristorante, poi quando sono diventata una signorina con le gambe lunghe e il petto vistoso mi hanno messa a servire ai tavoli. L’italiano non lo parlo benissimo perché alle scuole andavo così così, poi ho smesso di andarci del tutto alle superiori, quando è nata mia figlia, ma comunque i lavori dove devi parlare con la gente, capace che sono pure stranieri e che non ti capiscono, no, non sono per me. Preferisco rompermi la schiena e fare su e giù con le mie gambe che sono la parte migliore di me e ci tengo a tenerle in forma con la ginnastica. Io le mie gambe le amo. Se uno mi chiede quale parte ami di te stessa, io non dico né l’ottimismo, né la forza di volontà, nemmeno la pazienza. Le gambe dico, che sono belle, lunghe, sottili e che scattano. Non faccio nemmeno in tempo a pensare a dove devo andare e a cosa devo fare che quelle scattano. Io con queste gambe mi sento di poter camminare a testa alta dappertutto come se c’avessi una dote, una proprietà grossa e importante, un talento. Mi capitano pure i giorni che su queste gambe non ci so stare, ma pure quelli che mi sento agile e forte come un animale della foresta.
Il giovanotto, l’investitore, si chiamava Luca. Luca le gambe me le ha guardate subito. Me lo ha detto e io non ci potevo credere, che i complimenti diretti queste persone ben vestite ed educate non li fanno, invece lui mi ha detto, forse perché era giovane e gli è scappato: «Come ti stanno bene questi jeans».
Glielo volevo dire che mi stavano bene perché erano Benetton e mi erano costati sessanta euro con i saldi, ma mi sono stata zitta.
Il suo volto con il mare dietro sembrava un quadro dipinto. I capelli facevano come quelli delle femmine che si muovono nel vento, vanno dappertutto, e a me m’è venuta voglia di girarglieli dietro le orecchie. Non una voglia così, io sentivo le mani che mi prudevano.
Manco lo conoscevo e già provavo tenerezza per quel ragazzo, tant’è che quando siamo passati sotto casa di mia sorella, e lui ha sentito l’odore buono dei taralli, mi sono sforzata di non dire aspetta te li vado a prendere. Mi sono sforzata ma poi mi è dispiaciuto troppo, che ’sto ragazzo chi sa quando ci capitava un’altra volta dalle mie parti, e allora le gambe sono scattate e mi sono fatta tutte le scale di corsa e senza nemmeno dire ciao a mia nipote ho preso la carta assorbente e ci ho messo dentro un bel po’ di taralli appena fritti e belli caldi, e sono scappata giù da Luca.
«Dove vai?»
«Niente, poi ti spiego».
Li ha voluti mangiare subito, dopo il cornetto, dopo il cappuccino, si è mangiato pure i taralli e non la smetteva di dire che erano buoni, né di ringraziarmi.
Abbiamo camminato lungo la stradina che gira attorno al centro storico. Una stradina che sale fino alla cattedrale e tiene sempre il mare affianco. Ci siamo fermati in una piazzetta che a novembre è vuota, mentre d’estate ci sono tanti di quei tavolini che non la puoi attraversare. Devi far alzare le persone dalle sedie.
Si è voluto affacciare al belvedere.
Guardava il mare come fanno i poeti o gli attori, con gli occhi vuoti dove ci entra di tutto di più, però come entra poi esce.
Lo guardavo, mannaggia. Poi per fortuna me ne accorgevo che lo stavo guardando e mi giravo da un’altra parte. I suoi capelli erano un problema, dovevo stare attenta, controllarmi. Altrimenti mi partivano le mani. Non mi è mai successa una cosa del genere in vita mia. Mai. Mio marito di bene gliene ho voluto, ma questa cosa delle mani che vanno da sole, che non riescono a stare ferme perché lo vogliono toccare, non mi è mai capitata. E mica solo i taralli, gli volevo far assaggiare le orecchiette che fa la mia amica. Pure che gliene facevo fare un chilo e se le portava a casa. Sono buone e io lo so, io che parlo con la gente che viene qua d’estate, tutti che mi chiedono i posti migliori dove andare a comprare le orecchiette. La gente va pazza per la pasta fresca e io volevo darne a Luca un paio di chili così se li portava a casa.
«Sono felice di essere qui con te oggi. Ne ho visti di bei posti nelle ultime settimane, solo che questo li supera tutti».
«Sì, è bello, tranne quando piove, quando piove non mi piace».
«Secondo me è bello pure quando piove».
«Quando parti?»
«Domani sera».
«Già?»
«Sì, anche se ci rimarrei. Mi credi se ti dico che ci rimarrei? Ma non posso. Solo che da qui non me ne vado se prima non compro una casa».
«E dài, andiamo, ti faccio vedere la mia, che tanto già lo so che ti piace. T’ho capito a te».
Quando ha messo i piedi dentro casa di mia madre ha cominciato a guardarsi attorno. Capiva lui, capivo pure io: la luce, i soffitti alti e larghi a cupola, i muri spessi di una volta. Ha preso le misure, toccato gli stipiti, s’è arrampicato sulla scala che porta al terrazzo e quando è uscito fuori ha fischiato. L’ho raggiunto di sopra e l’ho trovato che rideva.
La vista da casa di mia madre ti rapisce. Io lo sento, lo posso comprendere, anche se per noi che ci siamo nati e cresciuti la vista non è pulita, tiene addosso la sporcizia degli anni passati, della forza dell’abitudine, dei brutti ricordi. Lui non aveva niente di tutto questo e s’è fatto rapire subito. Da una parte un braccio di roccia che cammina nel mare, dall’altra una linea di sabbia che ti porta lontano, di fronte a te l’isola con il faro.
«È uno spettacolo! Ti rendi conto o no che questa casa è uno spettacolo? Toccherà farci dei lavori, spenderci soldi e tempo, ma caspita, che potere ha questa casa».
«Se la vuoi te la vendo, però solo a te. A un altro no».
«Perché a me sì e a un altro no?»
«Mo vuoi sapere troppo. Quanto me la vuoi pagare?»
«Il prezzo lo devi stabilire tu. E devi essere certa di volerla vendere. Non puoi cambiare idea all’ultimo momento».
«Ma tu la vuoi?»
«Sì, la voglio».
«E io te la vendo».
Che vi devo dire, che gliel’avrei regalata la casa? Io, lui, il mare che sbatteva sulla ripa. L’intelligenza ce l’avevo e lo capivo che la casa di mia madre era proprio bella e mi sarebbe piaciuto pure a me avere la camera da letto con il terrazzino sul mare. D’inverno me ne stavo lì quando non avevo voglia di stare con la mia famiglia e d’estate l’affittavo ai turisti io stessa. Volevo fare pure io come certe signore, che i turisti se li allisciano come vogliono, con i taralli, le orecchiette, i fichi d’india, e quelli l’anno dopo tornano tutti contenti e ti scrivono belle parole su internet.
«Pensaci. Stasera se ti va ci vediamo così ne parliamo meglio, posso offrirti una pizza?»
«Io non ci devo pensare. Ti ho detto che la casa la vendo a te, a un altro no, ma se la vuoi comprare tu la risposta è sì. Però la pizza no, mi dispiace, sono sposata, devo cucinare a mio marito».
Ha fatto una cosa a quel punto che mi ha spiazzata. Ha fatto quello che avrei voluto fare io ma mi controllavo. Mi ha preso i capelli e me li ha messi dietro l’orecchio.
«Sei una donna bellissima».
«Grazie. Pure tu sei bello».
Pure tu sei bello non si può sentire. Ci sono volte che ripenso a quel momento, a quando mi ha detto sei bellissima, a come gli ho risposto, a come le gambe me le sono sentite deboli.
Le scale, ha voluto andare avanti lui e si è girato per darmi la mano.
«Reggiti a me».
Le scale nelle case vecchie del borgo non tengono il passamano, e sono ripide, le pareti le schiacciano, dritto non ci puoi stare, ti devi piegare con la schiena.
Il suo corpo mi attraeva e mi dovevo sforzare per non appiccicarmi a lui. Le mie gambe però erano troppo deboli e scendendo ho messo male un piede, lui per non farmi cadere mi ha presa e in quell’istante ci siamo stretti l’uno all’altro, solo che io l’ho respinto con violenza e lui mi ha chiesto scusa. L’ho respinto perché se lo stringevo non lo lasciavo più. Gli volevo dare i baci.

Il pomeriggio sono tornata alla basilica. Sono entrata dentro e sono andata dritta da padre Javier. Gli ho fatto un paio di domande sulla raccolta delle olive e lui che mi conosce da tanti anni e sa tante cose di me, l’ha capito che stavo male e mi ha portata nella stanzetta.
«Avanti, di', che c’hai».
«Padre… volere bene a qualcuno, ma bene veramente che ti toglieresti qualcosa di tuo pur di fare contento a lui, è una cosa che può succedere subito? Non deve passare nemmeno qualche giorno? nemmeno un mese?»
«Dipende. Certe volte ti affezioni subito, per esempio quando ti innamori».
«Allora padre mi sono innamorata. Mannaggia. Mo però non mi dire che è peccato, che lo sai che non ci credo ai peccati e se vengo da te sai pure perché vengo da te e da un altro no».
«Però che ti sei innamorata lo potevi dire a qualcun altro. Ora mi sento in difficoltà a dirti quello che devo dirti».
«E a chi padre? Non mi posso fidare di nessuno. Il paese si sa com’è. Lei viene da fuori, dal Brasile, se nasceva qua io mica ci venivo da lei, mica mi fidavo».
«E che significa, che nemmeno io posso fidarmi allora? Che se ti dico una cosa la vai a spifferare subito? Io sono un padre, un confessore. Fossi nato qua sarebbe stato uguale».
«No, ti dico di no. E comunque sì, nemmeno di me si può fidare. La spiffero padre, eccome se la spiffero, però senza cattiveria, padre, eh».
«Ascoltami, se vuoi bene vuoi bene. Non ci puoi fare nulla. Solo non farti fregare. I bambini, la famiglia. Stai attenta, proteggi loro per primi. Ora vattene. Che mi sento in difficoltà».

Mi sono fatta una passeggiata in spiaggia che erano secoli che non me la facevo e per tutto il tempo ho pensato a Luca. Mi dispiaceva vendere casa di mia madre, ma ormai gli avevo detto sì e indietro non mi tiravo. Mi dispiaceva ancora di più aver detto di no alla pizza.
La notte non ho chiuso occhio. Mi giravo nel letto, stringevo il cuscino, a un certo punto ho guardato mio marito, gli ho dato un bacio sulla fronte e sono uscita di casa. Mi sono coperta per bene, il vento s’era girato a tramontana. Ho raggiunto il centro storico, ho camminato per le sue vie illuminate e deserte, sono arrivata a casa mia e sono salita su in terrazzo. Notte fonda, il cielo illuminato, le stelle si vedevano una a una, le costellazioni che non so riconoscere, tranne una che mi ha insegnato mio figlio: Cassiopea. L’ho vista, l’ho riconosciuta subito e me la sono guardata fino all’alba. Seduta a terra con le ginocchia al petto ho aspettato che il cielo schiarisse. Sono tornata a casa e mi sono preparata la colazione. In bagno l’acqua fredda sulla faccia mi ha fatto bene. Ho messo un po’ di trucco, poco, un filo di mascara e il lucidalabbra.
«Dove vai?» Mi ha chiesto mio marito.
«A vendermi la casa».
«E a chi la vendi?»
«A chi se la vuole comprare».
«E quand’è che l’hai deciso?»
«Ce la dobbiamo tenere là a fare la muffa? A che serve».
«Non dicevi che un giorno, i figli grandi, il terrazzo…»
«Noi con questi soldi ci paghiamo l’istruzione ai figli, così se vogliono se ne vanno da qua, o tu li vuoi costringere a restare?»
«Se la casa non la vuoi vendere non la vendere. Un modo lo troviamo».
Quando sono uscita fuori dal portone ho respirato l’aria e mi sono sentita in un mondo che non era più il mio. Le gambe allora hanno fatto uno scatto e ho cominciato a correre.
Sotto il portone c’era già Luca che mi aspettava. Io m’ero fatta tutti gli scalini del borgo di corsa e la strada principale, e i vicoli della ripa, e poco ci mancava che sbattevo a terra. Allora sono entrata in un portone là vicino, mi sono respirata tutta l’umidità dell’androne e ho ripreso fiato. Non del tutto ché non ce la facevo più ad aspettare, volevo vederlo.
«Ciao» ha detto, «come stai?»
Io ero stanca e tenevo le occhiaie. «Sto bene, grazie, e tu?»
«Divinamente, questo posto mi ha messo una carica addosso... Sai, stanotte ti ho pensato. La tua casa, se non la vendi a un prezzo troppo alto, vorrei comprarla io. Nel senso che si tratterà di una trattativa privata, una cosa tra me e te. L’azienda per cui lavoro non deve sapere niente».
Non riuscivo a essere triste, non riuscivo a essere niente. Sentivo solo la debolezza nelle gambe. Allora gli ho fatto: «Saliamo in terrazzo, oggi l’aria è pulitissima e si vedono le isole di fronte. Tu ci vedi bene da tutti e due gli occhi?»
«Sì, da tutti e due».
Ha sorriso e il suo sorriso mi ha aperta in due.
Ci siamo messi a guardare l’orizzonte come due scemi. Io mi dovevo sforzare per non guardargli il collo, l’orecchio, il naso, la bocca, i capelli, quei capelli erano così belli, ma belli: glieli volevo accarezzare ma tenevo paura. Volevo pure fare l’amore con lui per sentire il suo desiderio sopra il mio. Quella notte in mezzo a Cassiopea ci avevo visto la sua schiena, mi ci aggrappavo e gli toccavo i capelli e gli dicevo la verità nell’orecchio: ti voglio bene.
Mi rispondeva che me ne voleva pure lui, che della casa non gliene importava nulla, gli importava di me.
«Stai bene?» Mi ha chiesto.
«Sì, perché, sembra che sto male?»
«A cosa stai pensando?»
«Non posso dirtelo, ma stai tranquillo sulla casa. Non cambio idea».
«Io invece pensavo che te ne potresti occupare tu, quando non ci sono io per esempio, gestisci l’arrivo dei turisti e ti prendi una percentuale sui guadagni».
«Io se questa casa la vendo poi me la voglio dimenticare».
Mi ha abbracciata da dietro. Con le mani spingeva un poco sulla mia pancia. Ho sentito un vuoto, un venire meno che mi piegava le gambe.
«Ora devo andare, i miei colleghi mi stanno aspettando per partire».
Ci siamo guardati un attimo prima di salutarci. Anche se io non riuscivo a dire ciao né niente. Poi non ce l’ho fatta più e l’ho abbracciato. Tirandomi indietro gli ho preso il volto tra le mani e per non vivere fino in fondo quel momento gli ho dato un bacio a stampo.
In borsa tenevo un chilo di orecchiette. Me ne sono ricordata quando lui già usciva dal vicolo.
Tempo tre giorni è arrivata la proposta. La cosa è andata in mano al suo avvocato e a un agente immobiliare. Nel giro di qualche settimana la casa non ce l’avevo più.
Ogni tanto i parenti e gli amici mi dicono che sono stata una scema, dicono pure che l’ho venduta a un prezzo troppo basso, che Teresina la dirimpettaia con una casa uguale alla mia, senza terrazzo, ci ha guadagnato il doppio dei soldi. Mi dicono che sul terrazzo ci stanno gli ombrelloni e le poltrone, e l’estate si affaccia la gente con i bicchieri in mano. Me lo dicono gli altri perché io lì non ci passo neanche morta. D’estate capita che vado a pulire qualche casa, ma faccio il giro largo proprio per evitare il portone di Luca. Solo una volta, qualche anno fa, era novembre, notte di lampare, ho camminato fino alla basilica, poi ho costeggiato il centro storico fino alla piazza, mi sono allungata sotto il portone e ho guardato in alto. Secondo me era lui, non credo alle apparizioni della madonna, figurati a quelle di Luca. Ho visto la figura di un uomo che guardava il mare, i capelli che svolazzavano sul collo, il cappotto che si apriva come due ali.
Mi sono nascosta un attimo sotto il portone. Ho dovuto aspettare che mi tornasse la forza nelle gambe prima di tornare a casa.

© 2016 Valeria Caravella