Matteo Nucci, L'attico


Mi sono svegliato di soprassalto e per un attimo mi chiedevo dove fossi finito. Ho allungato la mano verso la bottiglietta d’acqua e fortuna che era lì, poi mi sono tirato su e ho cercato di ricordare il sogno. Dio che sogno assurdo. C’era Sara. Eravamo giovanissimi, lei anzi era davvero molto piccola. Probabilmente mi tradiva, mi stava tradendo, o forse non mi voleva più e basta. Era come se ci fossimo incontrati di nuovo dopo un periodo in cui si era allontanata. Ci vedevamo in questa grande scuola, o un museo, o forse un’università, ma non era Italia, era tutto straniero e lei era di casa forse, tant’è che mi accompagnava in questa specie di esposizione dove c’erano tutte vacche malate. Era carino da parte sua perché – lo capivo subito – mi portava lì non per un suo diretto interesse ma per la mia passione dei tori. «Hai la febbre dei tori, tu» diceva. «Queste sono tutte vaquillas».
Matteo Nucci
Matteo Nucci è uno scrittore romano che a partire dal 2009 ha pubblicato diversi libri con Ponte alle Grazie e Einaudi. Wikipedia gli dedica una pagina.

Ma non era Spagna, sembrava piuttosto di essere in un paese tipo Oxford. Lei aveva una minigonna marrone e sotto non portava nulla, lo vedevo bene mentre scavalcava un muretto. Era tutta depilata, tranne in un piccolo spazio sul pube, le labbrette nude da neonata e io impazzivo e impazzivo che la vedessero altri, poi quando la tiravo a me mi scansava e mi rifiutava.
Mi sono svegliato così, con questa sensazione. Ho sentito il clang dell’ascensore e ho pensato agli anni con Sara. Era tanto che non pensavo a quegli anni. Chissà dov’è lei ora – mi sono domandato. L’ultima volta era in Messico, adesso chissà. Eravamo bellissimi e tutti ci invidiavano. Eravamo una gran coppia e quando arrivavamo alle feste tutti ci accoglievano trionfalmente e aspettavano che ballassimo. I nostri balli erano folgoranti, lei con i suoi vestitini neri e i capelli biondi lunghi sciolti, io con i miei stivaletti. Eravamo anche un po’ ridicoli forse, ma ci piaceva così. Ho pensato per un po’ a lei e il suo pensiero e il suo sogno mi hanno distratto dal resto. Inevitabilmente, però, ho ricominciato a pensare al resto. Non sentivo alcun rumore ed erano le sette passate. Mi ha preso subito la malinconia insieme a strane idee che ho immediatamente cercato di respingere. Allora ho tirato fuori il computer dallo zainetto, l’ho acceso e ho ripreso a guardare il film ma anche stamattina ero troppo poco incline, dunque ho spento tutto e ho tirato fuori il libro e ci sono cascato dentro, completamente assorto, per una buona mezz’ora, finché le urla di Lulù non mi hanno scosso.
Adesso sono al bar. È il bar dove veniva mio padre quando viveva in questa casa, quando vivevamo in questa casa. Si alzava all’alba lui. Si metteva qualcosa addosso, qualcosa di rimediato, scendeva in strada, comprava "Repubblica" e "Messaggero" e veniva qui al bar. Si faceva cappuccino e cornetto mentre sfogliava "Il Messaggero", poi tornava su a casa e s’infilava in bagno con "la Repubblica". Infine si vestiva e cominciava a lavorare, di solito a casa. Quando cominciava a lavorare erano le otto e mezza massimo e aveva già letto le notizie più importanti di "Repubblica" e "Messaggero", così quando mi alzavo magari mi dava qualche dritta su cosa cercare nel giornale se non aveva voglia di rimproverarmi perché mi ero alzato troppo tardi. Ma come è possibile alzarsi presto quando tuo padre si alza alle sei? Me la prendevo, io, e gli dicevo che "Il Messaggero" era un giornalaccio, se lo leggesse lui, tutta cronaca nera e leccate di culo ai potenti. Lui rideva e scuoteva la testa. Leggiti la cronaca di Roma, è eccezionale – diceva. Leggiti delle feste che hanno fatto a Roma ieri sera, dei nobili, dei vip, delle veline, è divertentissimo. Io me ne andavo sbattendo la porta e ora leggo "Il Messaggero" qui al suo bar, leggo la cronaca e le feste e rido e se avessi il coraggio di essere definitivamente me stesso mi comprerei pure "Novella 2000".
Penso a mio padre che scendeva qui con i suoi vestiti presi a casaccio, magari sopra al pigiama, e immagino che la vocazione al barbonaggio sia propria della nostra famiglia. In bagno, nel bagno di questo baretto che sto imparando ad amare, mi lavo la faccia, proprio come se avessi dimenticato di farlo e ne avessi la necessità per continuare a leggere. Leggo ancora il giornale, le parti più serie adesso. Poi pago e torno verso casa. Tocco il campanello della porta d’ingresso, prima d’infilare le chiavi nella toppa. Faccio uno squilletto per non entrare di sorpresa perché so benissimo che a Giovanna non farebbe piacere. La cosa divertente è che la sorpresa è sempre mia. Non sono ancora entrato e già sento l’odore caldo della casa al mattino, poi faccio due passi e in fondo all’ingresso c’è Giovanna immobile che mi guarda. Ha un’espressione strana ma cerco di non guardarla troppo. Dico qualcosa sulla cronaca del "Messaggero" che ho appena letto. Lei tace. Mentre poggio la giacca sulla poltrona, le chiedo come abbia dormito, ma risponde a mezza bocca, poi mi volta le spalle e se ne torna in camera. Metto su un caffè e intanto entro nel bagno di servizio e velocemente mi lavo.
Il profumo del caffè che ho comprato da Castroni inonda la cucina. Giovanna sta imburrando una fetta di pane bruscato, io scaldo del latte e le chiedo se voglia un cappuccino, lei fa sì con la testa, allora metto un po’ di latte in un bricchetto a parte, lo scaldo a fuoco fortissimo mentre giro violentemente con il cucchiaino e penso che il tintinnio potrebbe darle fastidio, cerco di fare piano e mi viene in mente De Niro in C’era una volta in America quando prende la tazzina e comincia a girare lo zucchero per secondi eterni. Poggio la tazza davanti agli occhi di Giovanna, mi siedo e sorseggio il mio cappuccino. «Fantastici i miei cappuccini» mormoro in un sospiro e lei scuote il capo. «Che fai oggi?» domando e intanto accendo una sigaretta e apro la finestra. «Mi dà fastidio che fumi di mattina». Spengo la sigaretta e mi sposto in salotto. Non è mattina per me, penso, e di nuovo mi viene in mente mio padre. Poi m’infilo in corridoio, poggio la mano sulla porta e la spingo leggermente. Dentro è buio e ci metto un po’ ad abituarmi, cerco di stringere gli occhi, il buio diventa penombra, c’è un odore caldo, sento il respiro e vedo le mani, le dita grassocce, poi le guance e il respiro profondo. Resto così per qualche minuto, poi silenziosamente mi allontano e torno in salotto. Giovanna ora è in bagno.
Collego il computer alla linea telefonica e controllo la posta. Apro i ‘preferiti’, clicco su meteo. La tramontana ha portato il freddo e forse dovrò prendere qualcosa di pesante. Chiudo tutti i documenti, apro il filmino di Lulù che ho fatto domenica scorsa al parco e ricomincio a metterci la musica sotto. Era domenica e c’era ancora una luce densa, come se improvvisamente fosse di nuovo settembre. Sunday morning, Lou Reed che canta, e gli occhi di Lulù, il cappello storto, poi un pino gigantesco. Giovanna esce dal bagno e si porta appresso una nube di vapore, la guardo un attimo nel suo asciugamano bianco, passa velocemente e mi dice che stamattina resterà a casa, dunque posso lavorare, nel pomeriggio invece bisogna che io sia qui. Chiudo il computer e rimetto tutto nello zainetto. La guardo mentre si sta vestendo, la camicia che scivola giù lentamente, mi avvicino e le sfioro una spalla, lei si volta e mi dice di prendere un golf più pesante ché farà sempre più freddo. Mi fa piacere quel che dice, tiro fuori il golf marrone danese a collo alto, faccio per mostrarglielo ma è già scomparsa. Mi siedo sul letto e immagino di nuovo il sogno. Cosa ne sa Sara delle madri dei tori da corrida. Sara non ha mai visto questa casa e chissà dov’è ora, chissà che vita starà facendo, di nuovo mi sono dimenticato di scriverle, di vedere se ha ancora quell’indirizzo antico o di cercare sui motori di ricerca, perché magari c’è qualcosa su di lei o trovo un nuovo indirizzo a cui scriverle. Mi alzo in fretta. Devo andare. Mi domando se ci sia qualcosa da prendere che possa servirmi, passo di nuovo davanti alla porta socchiusa, mi affaccio, sento ancora un po’ di odore caldo e di respiro profondo, poi attraverso il salotto, m’infilo la giacca, prendo lo zainetto, saluto Giovanna ed esco. Sul pianerottolo, mi volto verso le scale e mi viene da ridere. Il clang dell’ascensore, l’odore freddo delle scale, scendo a piedi, saluto Romano che sta armeggiando con la posta nel suo gabbiotto di vetro, lui fa un cenno, niente posta per me.
In macchina c’è un disordine epocale. La vocazione al barbonaggio della nostra famiglia. Cercare di far tutto silenziosamente, questo è l’importante. Faccio riscaldare il motore e parto. La città è un caos e fortuna che l’agenzia è vicina. Nel parcheggio, prima di scendere, do una sistemata perché da fuori sembri tutto a posto. Un po’ di roba la metto nel portabagagli, quindi faccio scattare le sicure e salgo su. Saluto Marina che sta leggendo il giornale, le dico ridendo che c’è stata una festa supervip ieri, che legga bene quel che è successo nelle ultime pagine di cronaca, lei sbuffa e mi dice di correre ché di là mi aspettano. «Il progetto va avanti bene anche senza di me» faccio appena entro in stanza e Marco scuote il capo: «Va avanti molto meglio!» Mi siedo. Marco e Giuseppe stanno lì, spalla a spalla, davanti al grande tavolo su cui dispongono le stampe mentre le scansioni scorrono sullo schermo del computer. Marco mi dà un’occhiata veloce cercando di non farsi vedere. «Devi ritoccare tutte le tue foto, Tom» mormora, mentre indica a Giuseppe qualcosa sul computer. «Uh! E se non lo facessi?» Nessuno risponde.
Mi alzo e faccio due passi di danza, canticchiando un valzer e battendo le mani. «Salisburgo. Capodanno. Austria. Ragazzi, partiamo!» «Ma che ha?» chiede Giuseppe abbandonando un attimo lo schermo. Batto le mani e gli vado vicino: «Austria! Giuseppe. Ti compri un gilet tipo Heidegger. Andiamo ogni mattina a mangiare la Sacher. Concerti ogni sera. Klimt, Schiele, balli, valzer. Neve. Eh?! Uh dai, andiamo. Aria frizzante. Adesso guardo sul computer e trovo una baita. Aria frizzante ogni mattina. Una bella baita, semi isolata. Andiamo? Cazzo stiamo a fare qui, eh? Una settimana. Dieci giorni, anzi. Partiamo il venerdì e torniamo il lunedì. Slitte, cani, neve, camino acceso, cani, caldo del fuoco, pelli, tutto di legno, eh? Joseph. Anzi pronuncialo con la i: Joseph! La ‘o’ chiusa e lunga. Joseph!» «Andato. Completamente andato. Che è tutta quest’allegria, Tom?» fa Giuseppe. Resto in silenzio e Marco ride. Giuseppe borbotta qualcosa d’insensato poi dice: «Spero proprio che tu non stia tradendo quella santa di Giovanna. Spero che non sia una donna a ridurti così». Marco sgrana gli occhi e mi fissa, io faccio un mezzo sorrisetto e dico che ho proprio voglia di Austria, intanto me ne vado nell’altra stanza, poggio la giacca e la borsa e lo zainetto, accendo il computer, tiro fuori un disco, lo inserisco e sparo alto il volume. Celentano canta: «Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai… In spiaggia ho fatto il pagliaccio per mettermi in mostra agli occhi di lei» Canto a squarciagola: «Che scherzava con tutti i ragazzi all’infuori di me… Perché perché perché perché… Io le piacevo! Lei mi amava mi odiava mi amava mi odiava era contro di me!» Giuseppe si alza, mi guarda dall’uscio e chiude la porta. Il computer brilla davanti ai miei occhi, controllo ancora la posta eppoi mi metto a lavorare.
Verso l’una, Marco entra in stanza, chiude la porta dietro di sé e mi chiede come vadano le cose. «Poi ti dico» gli rispondo secco, «tutto bene, comunque». «Novità?» «Nessuna». «Giovanna?» Mi guarda un attimo eppoi si muove sull’uscio: «Si mangia fra pochissimo, giù al bar, ok?» «Ok» gli rispondo sovrappensiero. Per le scale resto in silenzio, guardando fuori la luce e pensando al freddo che ci aspetta. Giuseppe mi prende un braccio e mi scuote. «Ti sei intristito, ora? Ma cazzo quanto sei umorale!» «Sto benissimo, che dici?» faccio. Poi uscendo nel bianco della giornata invernale, riprendo a canticchiare proprio nell’orecchio di Giuseppe «…mi guardava silenziosa, aspettava un sì da me… Dal letto io mi alzai e tutta la guardai. Sembrava un angelo…» Giuseppe allora si unisce e canta anche lui stonato «mi stringeva sul suo corpo, mi donava la sua bocca, mi diceva sono tua ma di pietra io restai! Io l’amavo, l’odiavo, l’amavo, l’odiavo, ero contro di lei». Voltiamo dietro l’angolo e siamo al bar, ci facciamo fare tre panini e io scelgo lo speck. «Austria Austria» ripeto nell’orecchio a Giuseppe. «Prendiamoci anche una birretta, dai!» Ci sediamo e parliamo del progetto e delle scadenze, poi Marco racconta di quando anni fa se n’è andato in camper con gli amici in Puglia e comincia con una storia lunghissima sulla notte in cui cucinarono in spiaggia, il fuoco e altro e io mi distraggo. Guardo fuori e penso a quanto si sta bene dentro i bar. Ordiniamo tre caffè. Paghiamo e torniamo su.
Finisco di ritoccare le ultime fotografie, saluto tutti e dico che il dischetto lo preparo stasera: domani sarà pronto. Marco mi stringe il braccio e Giuseppe mi fa un cenno, è troppo occupato con una cosa che non gli riesce e sembra nervoso. Marina sta al telefono. Le faccio l’occhiolino e sbatto la porta. Sembra meno freddo adesso e penso che la porterò a fare un giro alla Mole Adriana. Poco traffico, pochi semafori rossi, e sotto casa c’è un posto libero quasi davanti al portone. Salgo su velocemente. Faccio un suono breve e infilo la chiave. Giovanna è lì già pronta a uscire. «Hai fatto tardi» dice mentre prende la borsa e vola via. «Ah, Tom!» fa chiudendo l’ascensore. «Lulù dorme da una mezz’oretta». Mi siedo in poltrona, pian piano ci sprofondo, poi senza accorgermene cado nel sonno. Mi svegliano le sue urla. Mentre entro nella cameretta dicendo Lulù Lulù, ho la netta impressione di aver sognato qualcosa e appena la tiro su dalla culla, mi sembra sia qualcosa che ha a che fare con un allenamento di rugby, un campo polveroso e stranissimi spogliatoi dove entrano anche le ragazze e tutti che si fanno la doccia insieme e strani vestiti, eppoi è come se fosse una scuola, grandi bagni di una scuola semiabbandonata, fuori campi enormi, tutti seguono logiche che non capisco e in mezzo a un campo, quasi sommerso, sta il corpo di un ragazzo magrissimo, le braccia conficcate nel terreno, è morto lì, lo sapevano tutti che sarebbe morto, non c’era nulla da fare, il vento della notte deve averlo coperto di sabbia, e nessuno se ne interessa, c’è il sole, nessuno dice nulla, e c’è mia sorella che chiacchiera con un’amica del liceo, un’atmosfera da fine camposcuola, come se tutti stessero per tornare a casa.
Stringo Lulù al petto ripetendo Lulù, Lulù, Lulù come in una cantilena e il suo singhiozzo diventa via via un lamento. Mi guarda con questi occhi stranissimi, tutta mocciolosa e calda. Mi fa ridere. Il collo caldo, le pieghe della pelle un po’ sudaticce e il segno del cuscino sulla guancia. Quando si svegliano, tutte le donne sono uguali, dalle più piccole alle più grandi. Così calde e piene di coccole, con questo arrossamento del cuscino e i capelli scomposti che ti fanno venire una voglia tremenda di stringerle e non lasciarle più. Quest’aria come svagata, uno sguardo altrove, un odore di letto e una pelle sottilissima che sembra si possa rompere da un momento all’altro tanto è soffice, tenue. Coccolo Lulù sulla spalla lì nella penombra della stanza, mentre il carillon suona. Poi pian piano alzo la tapparella lasciando che i suoi occhi si abituino alla luce e la porto in cucina.
Con un braccio scaldo il biberon, con l’altro la tengo stretta sul mio petto e sento che ha cominciato a fare il suo tipico movimento serpentino: è come se ogni volta volesse sgusciare, andar via, liberarsi. Vedo le sue manine piccole che si muovono nell’aria e le dita che fanno movimenti inutili e il respiro che cambia e una specie di voce che mugola una musichetta sempre uguale. Ti fa venire voglia di imitarla ma resisto. Cerco di continuare a parlarle con la mia voce, con calma. Penso che Lulù s’abituerà alla mia voce. Quando tutto è pronto, mi sposto in salotto e comincio ad allattarla. Intanto accendo la televisione e faccio scorrere i canali. Un pezzetto di un tg regionale, un viaggio sul televideo, qualche sprazzo di un film in cui ci sono Dean Martin e Jerry Lewis, la fine di un Tom e Jerry. Mi stanco subito della tv e accendo il computer, ma è scomodissimo lavorarci con Lulù e biberon insieme, così lascio che si accenda e lo guardo dal divano, dove ricomincio a pensare al sogno. L’attività del mio inconscio è sviluppatissima, in questo periodo: faccio sogni in continuazione e penso che dovrei segnarmene qualcuno. Lulù blatera qualcosa e le infilo di nuovo il ciuccio in bocca, il biberon sta per finire. Dopo qualche minuto è vuoto e me lo segnala lei con un borbottio e gli occhi aperti spalancati su di me. Mi alzo in piedi tenendola alta sulla spalla per farla digerire, poi la porto di là, la stendo sul fasciatoio e la cambio. Dopo averla pulita per bene le metto la crema, la rivesto e mi compiaccio del fatto che non abbia fiatato, anzi che non abbia gridato, come di solito accade. Penso che è la mano del padre, che con Giovanna avrebbe pianto, allora mi scappa una risatina e tornando in salotto, ripeto: evviva, evviva, il padre ha la mano migliore, la mano ferma, la mano del potere! Uh, uh! La mano del potere! Faccio passi di danza e lei ride, poi mi fermo davanti alla porta finestra e comincio a raccontarle di San Pietro che si vede lontano sui tetti di Roma. È sveglissima. Ora di farle fare una passeggiata.
La vesto per bene, la copro con gran cura, poi prendo il passeggino e altre cose che possano servirmi, m’infilo la giacca e come un perfetto padre sono sul pianerottolo, qualcosa per ogni dito che abbia capacità prensili. Quando mi vede, Romano chiede se mi serva aiuto e io scuoto il capo. Per strada, si fermano in molti. È meglio che avere un cucciolo di cane – lo ripete sempre Sergio e ha ragione. Tutte queste ragazze che si avvicinano e chiedono qualcosa e mormorano commenti sugli occhi, i capelli, le guance, eppoi le vedi che ti guardano e pensano qualcos’altro. Sergio dice che è il merito della paternità. Che la donna cerca l’uomo forte, quello che assicuri la prosecuzione della specie. Lascio andare questi pensieri, intanto scendo sotto i bastioni di Castel Sant’Angelo. La Mole Adriana, dico a Lulù che mormora una nuova tiritera. Qui ho conosciuto tua madre, sai? Ah, be’, dovevi proprio vederla! Bellissima. Stava seduta su quella panchina lì e chiacchierava con le sue amiche in gita nella Città Santa! E io invece stavo qui a farmi le canne coi miei, di amici. La guardavo e tutti dicevano che mi guardava anche lei, e tutti a dire che se non andavo ero frocio, meglio rosso di vergogna che nero di rabbia. Una paura fottuta, cara Lulù, e io che ho fatto? Ah, be’, dovevi proprio vedermi, saresti stata fiera di me anche tu!
Racconto a Lulù un sacco di storie, forse le fa piacere, ma è davvero freddo, le sue manine sembrano non scaldarsi mai, nonostante esca un filo di sole pallido e io provi a scuoterla un po’ facendomela rotolare sulle ginocchia. Così riprendo la via di casa e quando sono sotto il portone vedo che la luce comincia già a diminuire. Su, accendo qualche lume per non esser preso dall’oscurità dei pomeriggi invernali. Lulù sembra stanca e la infilo nella culla, accendo il carillon e provo a lasciarla stare: non piange, non dice niente e quando mi riaffaccio nella stanzetta si è addormentata. Davanti al computer provo a lavorare un po’. Verso le sei e mezza mi affaccio di nuovo e Lulù è sempre nella stessa posizione con il pugnetto chiuso che esce dalle lenzuola, così mi sento tranquillo, m’infilo un giaccone e scivolo fuori, in terrazza, a fumarmi una sigaretta. Le luci della città, il cupolone e le cene estive, lì sul tavolo scrostato. Le volte che i miei genitori partivano e stavamo tutti a fumare hashish fino alla nausea, fino a star male, e c’era sempre qualcuno che diceva basta, siamo troppo sfatti, ne faccio un’altra così ci ripigliamo! Spengo la sigaretta e rientro. Penso che potrei cucinare qualcosa, e mentre le immagini ritoccate passano sullo schermo, lavoro su una padella con aglio, pomodori freschi, basilico e pecorino.
Sono le sette e tre quarti quando sento il clang dell’ascensore e la chiave nella porta. Giovanna entra e sembra molto stanca. Porta con sé il freddo e mi saluta andando in cucina a poggiare le buste. Non dice nulla della padella lì sui fornelli e mi chiede di Lulù: pappe, cacche, creme, caldo, freddo, eccetera. Poi si siede accanto a me in silenzio. «Andata bene?» le chiedo. «Che?» mi fa distratta. «La giornata, il pomeriggio» «Ah, certo, bene, al solito» «Cioè?» «Cioè che, Tom? Al solito». Le dico che ho preparato un sugo ottimo, perfetto per gli spaghetti, così ci facciamo una bella cenetta eppoi parliamo un po’. Lei mi guarda e sorride e alzandosi mormora «mi faccio una doccia, sono troppo stanca, così crollerei subito». Quasi mi sdraio sul divano, pensando alla serata. E quando lei torna, la pelle calda, un po’ rossa, mi avvicino e le sfioro una spalla, allora lei si allontana e dice: «Senti Tom, non mi va di parlare. In realtà non ho nulla da dire. Ti ho già detto tutto l’altra sera. Tu hai qualcosa di nuovo da dirmi?» La guardo in silenzio. Borbotto qualcosa poi dico «Ma sì, ceniamo eppoi…» «No» dice lei «non mi va di cenare con te». Resto in silenzio, volto la faccia verso la televisione. Mi tiro un attimo su, sulle ginocchia. Guardo sempre la televisione cercando di pensare a una frase ma non mi viene niente. Allora mi alzo, vado in cucina, mi verso un goccio di vino, lo bevo, torno in salotto e la guardo, ma lei sembra non vedermi, sta lì con i suoi lunghi capelli neri, assorta, stanca, appena uscita dalla doccia, sta lì e si pettina guardando la televisione e una luce bluastra per un attimo le illumina il viso. Faccio due passi intorno al tavolo, vorrei dirle di nuovo di mangiare con me ma mi sento ridicolo. Prendo la giacca lentamente e in quel momento spero che lei dica no, dai, Tom, ok, ceniamo insieme, e invece resta lì a guardare davanti a sé e non dice proprio nulla e anzi sembra che non mi veda. Le faccio: «Ok, allora a domani». «Sì, Tom, grazie, a domani». Prendo lo zainetto, la borsa, mi viene in mente che potrebbe servirmi qualcos’altro ma se adesso tornassi indietro sembrerebbe solo una scusa. Allora afferro la maniglia della porta ed esco.
Giù fa un freddo cane, è diventato umido e il freddo penetra le ossa. Raggiungo la macchina e ficco lo zainetto e la borsa dentro, tiro fuori una sciarpa e un cappello e m’incammino. Al cinese anche stasera? Al cinese. Potrei chiamare qualcuno ma non mi va, non ho voglia di parlare con nessuno. Mi siedo nel locale semivuoto tra cineserie imbarazzanti, forse cominciano a riconoscermi ma non lo danno a vedere, non danno mai a vedere nulla, sorridono sempre come la prima volta. Ordino involtini primavera, riso alla cantonese e pollo. Stasera pollo. Tanto ha tutto lo stesso sapore. Dai cinesi qui a Roma puoi prendere pollo, pesce, anatra, ogni cosa ha lo stesso sapore. Birra cinese tanto per gradire. Mangio lentamente, guardo i tavoli accanto al mio, il silenzio di una coppia che in confronto io e Giovanna sprizziamo allegria, quattro amici che ridono, due vecchi che probabilmente sono andati al cinema alle sei. Leggo un po’ del mio libro, ma non ne ho alcuna voglia e lo rificco nella tasca della giacca. Poi pago ed esco. Vado al bar della piazza e ordino un caffè e un Fernet. Lascio passare più tempo possibile sfogliando una rivista che sta lì sul tavolo e sono già stanchissimo. Verso le dieci mi incammino di nuovo verso casa. Guardo in alto le finestre e vedo che tutto è già spento, tranne la camera nostra, la camera di Giovanna, allora faccio un altro giro fumandomi una sigaretta, ma fa troppo freddo ed entro in macchina. Accendo il motore, accendo il riscaldamento, cerco di leggere un altro po’ di libro, guardo l’orologio. Esco di nuovo, attraverso e guardo su. Giovanna ha spento. È il momento di andare. Prendo lo zainetto e la busta, chiudo bene la macchina ed entro silenzioso. Non c’è nulla da temere, comunque, nessuno sa che non dovrei abitare qui. Chiudo piano l’ascensore e scendo al quarto. Non dovrei farlo più, penso, perché quelli del quarto se mi vedono cosa possono dire? Salgo silenzioso fino al quinto, passo davanti alla nostra porta e mi viene voglia di origliare ma subito faccio altri due passi in punta di piedi e salgo l’ultima rampa di scale. Eccoci arrivati. Il mio attico.
Senza fare il minimo rumore, tiro fuori il sacco a pelo dalla busta e lo stendo. Tiro fuori anche il cuscinetto. Mi tolgo i calzoni e m’infilo nel caldo. Con questo clima non potrà andare avanti troppo a lungo. Lì, davanti all’ascensore, davanti alla porta che dà sulle terrazze condominiali, in questo spazio di cui in quattro giorni ho imparato a conoscere ogni particolare. C’è la luce al neon fissa, ma è una luce tenue e si dorme bene. Ho la mia lampadina da piccolo lettore, si attacca con una pinzetta al libro, ma oggi proprio non mi sento in vena per questa storia così romantica. Prendo il computer, forse il film stasera lo vedo davvero. Attacco le cuffie, mi metto bene a sedere e ricomincio da dove avevo lasciato. Mentre scorrono le immagini penso a Giovanna e penso che se Lulù si svegliasse adesso non potrei sentirla. Cerco di non pensare a nulla e di seguire soltanto il film. Per una ventina di minuti resto incollato allo schermo, poi mi sento stanco, il film potrò finirlo domani. Spengo tutto, ripongo ogni cosa nello zainetto, metto la bottiglietta dell’acqua nell’angolo contro il muro e chiudo gli occhi. Mi chiedo se Giovanna abbia mangiato la pasta, se le sia piaciuto il mio sugo di pomodori freschi. Quando mi ha cacciato di casa, forse aveva ragione, ma poi? Ognuno ha le sue colpe e lei non ne vuole riconoscere neppure una. Ripeto che tutto si aggiusterà. Tutto deve aggiustarsi. Qualcosa deve accadere. Qualcosa deve assolutamente accadere. Mi volto verso il muro e apro gli occhi. Penso a mio padre e alla nostra vocazione al barbonaggio. Domani scendo al bar prestissimo, come ogni mattina in questi giorni. Bisogna che io dorma, altrimenti sarò troppo stanco. Lui si alzava alle sei, così, per sua natura. Io no. Magari un giorno capiterà anche questo? Devo dormire. Ma mi tornano in mente sempre le immagini di casa e di Giovanna e di Lulù che dorme e di quando si sveglia di notte. Da qui, comunque, posso sentirla. Se si sveglia, io mi sveglio. La sento benissimo da qui.

© 2007 Matteo Nucci