Stefano Bonazzi, Abissi
The Voyager
«A volte mi domandano se c'è un legame diretto tra le immagini che compongo e i testi che scrivo.
Quando realizzai The Voyager avevo in mente l'immagine di un individuo con un grosso scafandro in testa che vaga in un mondo silenzioso e ovattato. Non sapevo il motivo per cui si trovava in una situazione del genere, ma mi sembrava suggestiva e fiabesca.
Ho sempre adorato le fiabe, penso siano il modo migliore per far comprendere ai più piccoli (e non solo) i meccanismi della vita umana. Così, quando durante la stesura di A bocca chiusa volevo che il protagonista inventasse una fiaba per attirare l'attenzione di un bambino, ho pensato all'uomo con lo scafandro e al suo mondo immobile: mi sembrava perfetto per le atmosfere del libro e per il messaggio che volevo comunicare.
In fase di editing questa fiaba venne poi scartata in favore del racconto del Fante Dorato, ritenuto più coerente con il libro, ma ormai mi ero affezionato alla favola nera dello scafandro e decisi quindi di conservarla.
Oggi la ripropongo qui. Buona lettura».




C’era un ragazzo.
Avrà avuto non più di dodici anni, tredici al massimo.
Non faceva altro che litigare con tutte le persone che gli stavano intorno, non sopportava proprio nessuno, nemmeno i suoi genitori.
Non c’era una causa precisa che spiegasse quel suo caratteraccio, o almeno nessuno di noi ne era al corrente. Insomma, il giovane aveva tutto: una bella casa, una famiglia normale, videogame, bicicletta, una classe di compagni tutto sommato sopportabili ed era pure belloccio, tanto che alcune ragazze già gli facevano la corte, ovviamente senza ottenere nessun risultato, nemmeno di uno sguardo le degnava, quelle poverette.
La cosa che lo faceva imbestialire più di tutte erano le voci delle persone e i loro discorsi. Banali, dozzinali e spesso volgari. Così privi di senso che proprio non riusciva a concepirli.
Non sopportava tutti quei saluti, quelle risate, gli schiamazzi assordanti nei corridoi a scuola, sull’autobus, a casa: ogni relazione sociale per lui era una seccatura da evitare a ogni costo. Per questo era sempre di malumore e depresso.
L’unico momento in cui si sentiva davvero bene, a parte quando si chiudeva a chiave in camera sua, era quando percorreva il tratto che costeggiava il fossato di fianco alla strada. Lo faceva due volte al giorno, mentre andava e tornava da scuola.
In quel breve tragitto, che durava una decina di minuti al massimo, si sentiva al settimo cielo.
La pace che regnava in quel posto lo inebriava. Quel silenzio denso, interrotto solo da qualche auto di passaggio e dal rumore dei grilli durante i mesi estivi, era un balsamo per la sua mente. Era così bello il grano che si muoveva lieve al vento, a volte passava una mano in mezzo alle spighe per accarezzarle, guardando la linea lontana e irregolare delle fabbriche dall'altra parte del campo. Così minuscole, distanti, innocue.
Quei momenti per lui erano puro godimento per il corpo e l’anima. Un cucchiaio di miele per giornate tutte uguali, amare e deludenti.
In quei momenti era fiero di sé, si sentiva indipendente, forte, senza il bisogno di rendere conto a nessuno, era libero. Libero come nessun altro in quello schifo di paese.

Un giorno il ragazzo camminava per le stradine del centro. Vicoli stretti e storti come la schiena di un vecchio artritico, con i ciottoli grossi, quelli dove s’incastrano i tacchi, se non si fa attenzione.
La giornata di scuola era finita e il ragazzo stava facendo due passi prima di riprendere l’autobus e tornarsene a casa.
Forse si sarebbe fermato a prendere un gelato o uno stecca-lecca, quello alla frutta però, perché quello alla liquirizia proprio non gli piaceva.
Stava percorrendo via delle Volte, che a quell’ora era pressoché deserta. Si chiamava così per le numerose arcate che univano i due lati della strada sopra le teste dei passanti. Alcune di queste erano talmente basse che le persone dovevano scendere dalla bici per attraversarle. Era una strada vecchia e sempre in penombra, senza negozi, solo alte mura e volti che nascondevano il cielo.
Non la percorreva spesso perché non rientrava nel suo tragitto verso la fermata del bus, ma quando si concedeva quella deviazione restava sempre affascinato.
Due cose soprattutto lo incuriosivano: il silenzio e le ombre. Tutti quegli archi di mattoni sopra la sua testa creavano angoli completamente bui, in cui non saresti riuscito a vedere la punta delle tue scarpe persino in una mattina d’estate, quando la luce taglia le ginocchia.
Pensava spesso a quanto sarebbe stato inquietante trovarsi lì in piena notte. In quel pertugio nero come uno strappo nella tela del mondo.
I lampioni, così distanti uno dall’altro, i rumori ovattati dei suoi abitanti chiusi stretti stretti fra quelle mura spesse, antiche, sporche, ricoperte di muschio umido e muffa. Le ombre nette, alte, voraci.
Non avrebbe mai potuto abitare in un luogo del genere lui, ragazzo di campagna, abituato agli spazi aperti, ai campi di granturco, al cielo fitto di stelle e al profumo della terra bagnata, eppure inspiegabilmente ne era attratto.
Fu in quella via, mentre assaporava quella muta desolazione, che lo vide.
Era appoggiato a un cassone dei rifiuti, per metà sepolto tra le sporte di immondizia. Mandava riflessi abbaglianti sulle pietre scure come le luci di un aereo in una notte serena.
Era uno specchio. A occhio e croce sembrava alto un metro e mezzo e largo circa la metà. Una sottile cornice dorata ne percorreva i bordi, con strani caratteri, simili a geroglifici, incisi sopra tutta la superficie.
La luce calda del tramonto vi si rifletteva, al punto che sembrava dover prendere fuoco da un momento all’altro. Pareva fremere di vita propria.
Il ragazzo si portò una mano sugli occhi per poterlo osservare meglio. Nonostante la vista annebbiata dalla troppa luce non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’oggetto.
«È bello, vero?» Una voce alle sue spalle, come lo scoppiettio di un motorino, lo fece sobbalzare. «Gran pezzo, quello, giovanotto. Mica lo trovi, nei mercatini d’antiquariato, uno specchio del genere».
Il ragazzo non rispose. Quel modo di rivolgersi a lui come fosse solo un moccioso già lo irritava. Sopportava a malapena le persone “normali”, figuriamoci un vecchio ficcanaso con la voce impastata dal catarro.
L’uomo non sembrò far caso alla sua indifferenza e continuò a parlare. «È mio, sai?»
«E perché lo butti?» chiese fingendo disinteresse. Era molto bravo in questo.
«Devo liberarmi di un bel po’ di robaccia qui dentro». Rispose il vecchio indicando un portone alle sue spalle. «Lunedì prossimo mi ricoverano. Accertamenti, dicono loro, ma io lo so come andrà a finire. Stavolta non esco più. Ho un pomodoro marcio nei polmoni. Lo potresti usare per giocarci a calcio con i tuoi amici».
Il ragazzo non si fece impietosire da quelle confidenze, in fin dei conti per lui quel vecchio era solo un perfetto sconosciuto.
«Perché nella spazzatura? Perché non lo dai a qualcuno? In beneficenza?»
«È quello che sto facendo. Lo mollo qui, come tutto il resto. Chi lo vuole se lo piglia e buona lì. Più beneficenza di questa!»
«Non hai dei figli a cui lasciarlo?»
«No. Niente mocciosi. Non li ho mai voluti, e di amici ne ho ancor meno. Ho sempre fatto tutto da solo, e guarda qui quanto ben di Dio ho accumulato in tutti questi anni» esclamò indicando i sacchi ammucchiati vicino al cassonetto.
Al ragazzo però tutto il resto sembrava solo paccottiglia. Roba adatta per i mercatini dell’usato della domenica pomeriggio o per le sagre di paese. Roba vecchia che solo un vecchio può apprezzare.
Quello specchio però, quello era diverso.
Per qualche inspiegabile ragione lo attraeva morbosamente. Sembrava quasi chiamarlo. Gli pareva di sentirlo sussurrare il suo nome, come il ronzio di una zanzara che ti sfiora i timpani mentre stai per prendere sonno.
«Faresti bene a portarlo via con te, ragazzo. Quello è uno specchio... speciale. È una specie di porta. C’ha i poteri, capisci che intendo?»
Oh no, pensò il ragazzo, ecco l’ennesimo pensionato rincoglionito che spara cazzate per ammazzare il tempo, e io scemo che sto pure qui ad ascoltarlo.
Fece per voltarsi e andarsene ma il vecchio continuò, mettendo più enfasi e alzando il tono della sua voce malmessa. «Non mi credi? Lo so, pare una cosa assurda, ma ti giuro che è così! C’è una leggenda su quello specchio. Si dice che se una persona ci si stende sopra e si addormenta, può risvegliarsi nel posto che stava sognando».
Il ragazzo sospirò alzando gli occhi al cielo, ma non se ne andò. In fin dei conti quel vecchio gli suscitava più pena che antipatia. Decise quindi di stare al suo gioco e concedergli qualche altro minuto. «E tu hai mai provato a dormirci sopra?»
«Io, be’, certo che ci ho provato!»
«Allora?»
«Ahahah, bello mio! Io soffro di insonnia! Non dormo mai, però... ti garantisco che non ti sto raccontando bugie, è la verità! Cioè, almeno così mi hanno detto. Perché non provi tu? Prendilo, è tuo. Non voglio nulla in cambio. Preferisco che lo prenda tu piuttosto che qualche barbone».
«Ma come faccio? Non vedi quanto è grande? Peserà una tonnellata».
«Ragazzo mio, non hai capito. È lo specchio che ti ha scelto. Vedrai, si renderà leggero come un lenzuolo. Solo tu potrai spostarlo, perché ne sarai il custode».
Questo qui è partito sul serio, pensò il ragazzo. Però, in fin dei conti, che mi costa provarci? Magari riesco a farci qualche soldo. Lui se ne sta lì tranquillo, neanche mi ha invitato a entrare, quindi l’ipotesi che sia un pedofilo o un pervertito è da escludere, poi di soldi mica me ne ha chiesti.
«Ok. Mi hai convinto, nonno. Ci provo», rispose. «Però se mi stai prendendo per il culo o c’è sotto qualche fregatura, ti gonfio».
L’uomo non fece una piega. Si limitò a osservarlo sorridendo e mostrando tre denti gialli che spuntavano dalle gengive come filtri di sigarette premuti nella sabbia.

Il vecchio aveva ragione, pensò il ragazzo mentre tornava verso la fermata del bus. Aveva fatto tardi e fu costretto a prendere l’ultima corsa, quella delle sette e mezza.
Il sole se n’era già andato da un pezzo e sull’autobus c’era solo qualche operaio che stava rientrando a casa dopo il lavoro. Avevano gli occhi spenti e fissavano il sedile di fronte a loro come zombie. Meglio così, pensò, preferiva evitare l’incontro con qualche compaesano. Quel coso enorme tra le braccia non avrebbe saputo giustificarlo. Anche il fatto che riuscisse a portarlo in giro da solo, non sarebbe riuscito a spiegarlo. Nemmeno lui si rendeva esattamente conto di come fosse possibile, ma poco gliene importava. Aveva solo dodici anni ed era già stanco, di tutto quanto. Era pronto ad aggrapparsi a qualsiasi scappatoia pur di sfuggire alla routine.
L’autobus lo lasciò alla solita fermata. L’ultima del percorso. Il resto doveva farselo a piedi. Da solo.
Fiancheggiava i campi. Il canale senz’acqua. Camminava in mezzo alle ortiche, ai fiori gialli e viola che a quell’ora parevano tutti dello stesso colore. Lo specchio saldo tra le braccia tese mandava riflessi di tramonto in mezzo alle spighe. Ogni tanto un rospo si faceva da parte gettandosi nel fosso con un tonfo secco.
Aprì il cancello senza farsi sentire e si diresse nel magazzino dove i genitori tenevano gli strumenti per lavorare la terra. Lasciò lo specchio nell’angolo più buio. Lo coprì con una coperta poi entrò in casa.
A cena non aprì bocca. Nessuno gli chiese niente. Erano abituati al suo silenzio.
Finì la bistecca tenendo gli occhi fissi sul piatto. Mangiava veloce, senza gustarsi i sapori, che ormai conosceva a memoria.
Al telegiornale qualcuno proponeva una nuova riforma per scongiurare la crisi imminente. Bisognava unire le forze e lavorare sodo restando tutti uniti, diceva.
Balle.
Andò di sopra chiudendo la porta. Non aveva voglia di fare i compiti e, se il vecchio aveva ragione, probabilmente non ne avrebbe più avuto bisogno.
In realtà non sapeva cosa aspettarsi, però gli piaceva l’idea di qualcosa di nuovo. Una deviazione imprevista, anche se assurda. Qualcosa di insensato, che i suoi genitori non avrebbero mai approvato. Tutto ciò gli provocava un piacevole prurito alla bocca dello stomaco.
Fece una partita alla Playstation, poi lesse qualche pagina di un vecchio Batman. Il tempo sembrava non passare mai.
Alle dieci e mezza finalmente udì i suoi genitori uscire dal bagno per chiudersi in camera. Il vecchio letto di ferro cigolò un paio di volte assestandosi sotto il peso dei loro corpi, poi in tutta la casa calò il silenzio.
I suoi genitori si addormentavano in fretta. «La gente che lavora sodo la terra, la sera non può permettersi il lusso di restare sveglia», gli aveva confidato una volta suo padre.
Aspettò ancora un poco poi scese di sotto. I piedi scalzi sul legno freddo e polveroso. Uscì dalla porta sul retro. Quella con la serratura vecchia, che non faceva rumore se capivi come andava trattata. E lui ormai, era un esperto.
Corse verso il capanno. L’erba umida e fredda gli intorpidiva le piante dei piedi. Faceva freddo quella notte. Parecchio.
Entrò senza accendere la luce. Aveva portato con sé tutto l’occorrente. Torcia, coperte e alcool. Non era la prima volta che organizzava delle feste private, lì dentro.
Gli piaceva starsene lì da solo, in quella terra di nessuno, mentre tutti pensavano che fosse altrove, nel suo letto, al sicuro nel tepore delle coperte azzurre con gli orsetti stilizzati sopra.
Che bravo ragazzo.
Stese lo specchio a terra. Lo spolverò accuratamente e vi si sedette sopra. Puntò la sveglia del suo cellulare in modo da potersi svegliare la mattina successiva e rientrare con calma prima che i suoi si fossero alzati.
Bevve, trangugiando dalla bottiglia di vino che aveva rubato dalla dispensa. In maniera goffa, come tutti i ragazzi della sua età.
Bevve ancora. Arrivarono le prime vertigini. Gli piaceva quel tepore che si spandeva dalla testa al resto del corpo.
Si rannicchiò su quella lastra fredda e rigida coprendosi con due strati di coperte.
Il sonno arrivò presto.

Il ragazzo si risvegliò con un velo azzurro davanti agli occhi, che sembrava avvolgere ogni cosa come il filtro di una lente. Aveva la visuale in parte oscurata. Gli sembrava di osservare il mondo come un ragazzino che sbircia dal buco di una serratura. Provò ad alzarsi in piedi e solo in quel momento iniziò a comprendere cosa stava succedendo.
Si trovava in fondo a una specie di abisso ma non ricordava come ci fosse finito.
C’era acqua ovunque.
Indossava qualcosa. Una tuta larga e spessa come cuoio che ricopriva ogni parte del suo corpo. Vide il suo riflesso nello specchietto del trattore. La riconobbe, l’aveva vista un paio di volte in un documentario alla televisione.
Era una tuta da immersioni.
Un vecchio scafandro da palombaro con un elmo enorme avvitato in cima.
Riuscì a malapena a torcere il collo. All’interno del casco c’era puzza di naftalina e muffa. Come se quell’involucro fosse stato usato da decine di altre persone prima di lui.
Non capiva se fosse l’effetto dell’alcool o quella puzza a dargli la nausea. In ogni caso non poteva proprio vomitare. Doveva tenersi tutto dentro altrimenti sarebbe morto soffocato nel suo stesso vomito prima ancora di capire come togliersi quell’armatura di dosso.
Intorno a lui gli oggetti ondeggiavano, ma forse era solo un’illusione. L’impressione di un ragazzino ubriaco nel mezzo di un incubo.
Lo specchio era ancora lì, sotto i suoi piedi.
Provò a compiere alcuni passi verso il portone della rimessa, ma com’era difficile camminare dentro quella pelle gommosa. Sentì il desiderio impellente di tornare in casa. Dai suoi genitori. Doveva vederli. Doveva capire cosa stava succedendo.
Spostarsi nell’acqua gli richiese uno sforzo enorme, ma ancor più faticoso fu tentare di spostare il vecchio portone arrugginito. Prese ad ansimare come un vecchio e l’oblò dello scafandro si appannò presto, lasciandolo in balìa di una coltre grigia.
Il panico iniziò a farsi strada nella tuta come uno sciame di formiche sulla pelle.
Riprese a spingere il portone. Le mani tremavano, il cuore pompava sangue in ogni estremità del suo corpo, una scarica di adrenalina lo percosse dalla testa ai piedi. Strinse i denti e spinse di nuovo fino a farsi sanguinare i palmi delle mani dentro i guanti ruvidi.
Dovette fermarsi più volte per riprendere fiato ma alla fine riuscì a ricavare un varco abbastanza largo da far passare quel suo nuovo, ingombrante corpo.
Si diresse verso casa.
La porta principale era chiusa.
Il giardino, la casa, i campi, tutto quanto era immerso in una coltre vischiosa. Il cielo era una tavolozza di colori scuri mescolati da una mano maldestra. Impossibile stabilire che ora fosse.
Provò a suonare il campanello, meravigliandosi che funzionasse ancora.
Le spighe, che fino al giorno prima aveva visto piegarsi al vento mentre andava alla fermata, ora volteggiavano sinuose come alghe. Un silenzio solenne avvolgeva ogni cosa come una massa solida e compatta.
Nessun rumore di auto in lontananza. Nessun gracchiare di rospi. Nessun abbaiare di cani nelle case vicine.
Semplicemente il silenzio.
Il mondo che aveva tanto detestato e sbeffeggiato era sprofondato nel fondo di un abisso tetro. I rumori che fino al giorno prima lo avevano fatto bestemmiare, spariti. I colori, tenuti alla larga dalle lenti scure dei suoi occhiali da sole, si erano tutti dissolti in una fanghiglia smorta.
Un grumo freddo e amaro iniziò a crescergli nello stomaco.
Si attorcigliava nelle viscere e stringeva, prima piano, poi sempre più forte come una serpe affamata.
Pigiò di nuovo il dito sul campanello, ma questa volta non lo lasciò finché l’ombra di un’enorme sagoma non apparve sulla soglia.

«Papà?»
Avrebbe potuto essere chiunque, nascosto sotto quello scafandro, eppure il ragazzo ne era certo.
«Sei tu, papà?»
Quel gigante silenzioso in piedi davanti a lui era suo padre.
«Che sta succedendo, papà?»
Le parole rimbalzavano contro le pareti dello scafandro e svanivano come fumo di sigaretta.
Non si mosse, non poteva sentirlo.
L’oblò di fronte a lui era più sporco del suo. A malapena si scorgeva la sagoma di un naso. Labbra immobili, immerse nell’oscurità.
Il ragazzo fece un passo avanti nel tentativo di abbracciarlo. La figura di fronte a lui restò immobile, allora il ragazzo piegò la testa di lato. Non voleva far cozzare le due sfere pesanti. Non voleva danneggiare lo scafandro. Se fosse entrata dell’acqua, se fosse soffocato, se fosse stato davvero suo padre, non se lo sarebbe mai perdonato.
Ma il palombaro ancora non si muoveva.
Non riusciva a percepire la forma del suo corpo. Il suo calore. Non sentiva il battito del suo cuore né il suo respiro. Le tute spesse si sfregavano tra loro, insensibili come pelli di animali preistorici.
«Dimmi qualcosa, papà. Ti prego, dimmi qualcosa».
Il ragazzo non riuscì più a trattenersi. Tutto questo era troppo. Davvero troppo.
Scoppiò in lacrime. Sgorgarono sul volto come sangue da un’arteria recisa. Gli scivolarono sulle guance. Sul mento. Sul collo. Alito caldo e umido gli uscì dalla bocca contratta. L’oblò si appannò ancora di più.
Ora il ragazzo non vedeva nient’altro che nebbia densa.
Grigia, impenetrabile, lo avvolgeva.
«Papà. No. Così no».
Si aggrappò a quella figura continuando a piangere.
Il corpo dell'altro cedette sotto il suo peso, ma l’acqua li sostenne, lasciandoli sprofondare piano piano.
Questo è l’inferno, pensò il ragazzo, mentre tutto il mondo, lentamente, si spegneva intorno a lui.


© 2019 Stefano Bonazzi