Alessandra Buschi, Cambiare
Alessandra Buschi
«Eleonora o Beth? In che tempo è ambientata la storia? E poi: che cosa significa cambiare? Perdere qualcosa e nello stesso tempo acquisire altro? Mutare? La perdita di qualcosa e l’acquisizione di altro sono la causa di un cambiamento oppure ne sono la conseguenza? Queste – e anche altre – le domande che mi sono fatta quando ho finito di scrivere questo racconto, iniziato con un’idea precisa: quella di due parole in testa a un personaggio femminile: Devo cambiare. Non so quali domande potranno sorgere a un lettore. So solo che, come ho detto a Giorgio Pozzi, che ospiterà il mio racconto nella rivista “Fernandel”, tifo per la protagonista e le auguro un buon prosieguo della sua fittizia vita di personaggio di fantasia. Perché mi suscita tenerezza e un po’ di tristezza. Quello che capita in certe occasioni di provare verso noi stessi nella vita reale».
Alessandra Buschi ha pubblicato tre romanzi per Fernandel: Se fossi Vera (1999), Il libro che mi è rimasto in mente (2000) e Cruciverba (2004). Ha collaborato a lungo con questa rivista, sia con testi brevi che con la sua rubrica Raccontare la scrittura.




Ecco sì, da quel momento si sarebbe chiamata Beth, suonava bene: Beth.
A chi glielo avesse chiesto, così avrebbe risposto: “Mi chiamo Beth”. O, se avesse voluto fare un po’ la sofisticata: “Il mio nome è Beth”.
Beth. Ed Eleonora Parri sarebbe stata cancellata dalla faccia della terra e dall’universo conosciuto. Meno che all’anagrafe. Ma quello non era un problema. Sai quanti sono stati registrati alla nascita con un nome che poi non hanno mai usato se non per le firme ufficiali?
Il ragionamento che aveva fatto, di fronte allo specchio del bagno, mentre il rubinetto le riversava a tutta manetta acqua fredda sui polsi era stato: Devo cambiare.
Mica qualcosa da prendersi alla leggera, e infatti lei – Eleonora ancora, in quel momento – sapeva che se quelle due parole le erano venute in mente in modo così chiaro – per un secondo le aveva viste impresse nella parte superiore dello specchio, proprio sopra la sua testa riflessa, come i caratteri cubitali su un furgone che vende hot-dog o panini con la porchetta – era perché erano davvero importanti.
Subito aveva pensato che se fosse stata un uomo la prima cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata farsi crescere barba o baffi, visto che baffi e barba sono già un bel cambiamento, ma dato che non avrebbe potuto cavarsela in quel modo – e neanche, che so, tagliarsi i capelli, visto che erano anni ormai che se li rasava a zero – aveva pensato: In che modo posso cambiare?
Per questo le era venuto in mente un nuovo nome, e a quel punto le lettere cubitali allo specchio erano mutate in un carattere corsivo, un po’ manierato, tipo l’insegna di un negozio di fiori o di un centro estetico, che diceva: Beth.
Ecco, da quel momento esatto sarebbe stata Beth.
Perché Beth? era stata la domanda che subito dopo si era fatta. Perché Beth e non Giovanna, o Costantina, o Mary o qualsiasi altro nome? Le era bastato un istante – un secondo? Forse meno? Del resto i pensieri sono così veloci, e non sapeva se fosse mai stata misurata scientificamente la durata di un pensiero – per dirsi che forse la sua mente era andata a pescare chissà dove dal suo passato. La protagonista di un qualche romanzo? Il nome del gatto di un’amica? Vallo a sapere, era inutile sforzarsi per capire l’aggancio.
In ogni caso si era distratta quel tanto perché la sensazione di gelo con i polsi sotto l’acqua fredda le si propagasse per tutto il corpo – testa come piena di nebbia, i sensi tutti rivolti all’interno – e lei si accasciasse sul lavandino in una posa che sembrava quella di un disgraziato che rende l’anima a dio.
A quel punto le era sembrato di riprendere un po’ il contatto con la realtà, o almeno con ciò che aveva davanti agli occhi, e difatti aveva distinto una piastrellatura rosa, ceramica bianca, un pezzo di sapone giallo più consumato al centro su un piattino rotondo, una tazza verde con dentro due spazzolini da denti e un dentifricio, e lo specchio.
Allora aveva sollevato lo sguardo – lo sguardo, perché non era in grado di sollevare la testa, che sentiva pesante, come se potesse da un momento all’altro caderle dal collo – e aveva incontrato la cornice di legno chiaro, l’aveva seguita per un po’, poi gli occhi erano saltati al centro dello specchio e le avevano rimandato uno sguardo tragico che l’aveva impressionata.
I suoi occhi dallo sguardo tragico spiccavano su un incarnato particolarmente pallido – pelle traslucida, avrebbe detto, come di sicuro aveva letto da qualche parte una qualche volta, senza capirne fino a quel momento il significato – ed ecco era emerso il proposito di cui sopra e la sua mente aveva colto il significato di quell’insegna da bar che lampeggiava: “Devo cambiare”.
L’acqua, intanto, scorreva sui polsi, e prima di fluire nel tubo di scarico schizzava sulla ceramica.
Qualche spruzzo le arrivò in faccia, facendole battere le palpebre di scatto, come in una sorta di tic nervoso. Di conseguenza scosse le spalle e strinse i denti.
A quel punto la parola “Beth”, che era campeggiata nella parte alta dello specchio. Poi più niente: era svenuta comunque.
Lì, in bagno, davanti al lavandino, con il rubinetto ancora aperto che continuava a buttare acqua fredda.
 
«Eleonora Parri», aveva risposto, mentre con la destra che teneva in tasca stringeva un fazzolettino di carta – usato peraltro, un po’ rigido in qualche punto, che doveva essere lì dall’anno precedente, visto che quello era il primo giorno in cui usava il cappotto.
L’impiegato aveva sorriso, come per darsi il tempo di memorizzare prima di trascrivere il nome in modo corretto nell’agenda che aveva aperta di fronte.
«Bene, allora domani alle diciassette e trenta. Vuole che le dia un promemoria?»
Lei aveva fatto un cenno con la testa che voleva dire “No”, “Grazie” e “Me lo ricordo” nello stesso tempo.
L’uomo non aveva insistito e aveva ostentato lo stesso sorriso, immobile.
Le ci era voluto un attimo per capire che poteva andare, quindi aveva fatto un passo di lato e lasciato il posto a chi era in coda dopo di lei.
Mentre usciva aveva avuto la sensazione di aver lasciato qualcosa davanti al vetro che l’aveva separata dall’impiegato, e che da un momento all’altro dovesse arrivarle la voce della donna che era scorsa nella fila: “Signorina, si è dimenticata questo.”
Così, prima di uscire dall’edificio, si era voltata, ma tutto era in ordine: la donna sporta in avanti verso il vetro, l’impiegato ancora perfettamente immobile con lo stesso sorriso, concentrato su ciò che la tizia stava dicendo, le altre persone in attesa.
Appena fuori, per sicurezza, aveva frugato con una mano dentro la borsa che teneva a tracolla. Fosse mai avessi davvero dimenticato qualcosa. Ma c’era tutto, non mancava niente. L’unica cosa che aveva lasciato lì, nelle mani di quell’uomo sconosciuto, era semplicemente un pezzo di sé. Quello non lo aveva né in borsa né in tasca.
Al primo cestino aveva tirato fuori il rimasuglio di raffreddore invernale di un anno prima e lo aveva buttato. Chissà se i germi si conservano per così tanti mesi, si era chiesta.
 
Era certa che non se lo sarebbe dimenticato, ma una volta a casa, per sicurezza, aveva scritto “Giovedì 11, ore diciassette e trenta” su una mezza pagina che aveva attaccato con un pezzo di nastro adesivo al portoncino d’ingresso, cosicché, passandoci davanti, lo avrebbe notato di sicuro.
Poi, invece, ci aveva ripensato e aveva creduto meglio appendere il foglio in cucina, al pensile dove teneva il barattolo del caffè: senza meno si sarebbe fatta una caffettiera nel pomeriggio, era più probabile che buttasse un occhio lì che alla porta d’ingresso.
In ogni caso, era certa che quell’appuntamento non se lo sarebbe dimenticato.
Quando, la mattina dopo, appena sveglia, era andata in cucina e aveva visto l’appunto scritto a penna attaccato allo sportello, aveva avuto un sussulto. No, non me lo sono dimenticato.
Vederlo scritto le aveva comunque dato una fitta in mezzo al petto e con un gesto stizzoso aveva staccato il foglio, lo aveva accartocciato e lo aveva buttato nel secchio dell’immondizia.
Poi, per il resto della giornata, fino alle diciassette, aveva fatto quello che doveva fare, dopo di che aveva infilato il cappotto, preso lo zaino che aveva già preparato all’ingresso ed era tornata all’istituto.
 
Quando, due giorni dopo, Michael e Claudia erano andati a prenderla, avevano subito detto che avrebbe trascorso la notte a casa loro. Per sicurezza, avevano detto, e lei non aveva replicato. Sentiva un gran freddo, come se non fosse autunno ma pieno inverno. Aveva pensato che per prima cosa si sarebbe comprata un cappotto nuovo.
Per tutto il tragitto in auto Michael e Claudia non le avevano chiesto niente e lei non aveva detto niente. Avevano poi cenato in cucina, quindi erano andati in salotto e Claudia aveva preparato il caffè.
«Perché prima di prendere una decisione del genere non ci hai detto in che situazione ti trovavi?» aveva infine chiesto Michael.
Ecco, era stato in quel momento che si era resa conto che stava per svenire.
Aveva retto finché aveva potuto, poi si era alzata dalla poltrona con uno scatto, come se avesse avuto una molla sotto al sedere, e per un attimo era rimasta ferma, nel tentativo di capire se le gambe l’avrebbero retta fino in bagno.
Mentre faceva mentalmente il conto di quanti passi avrebbe dovuto fare, si era resa conto del silenzio che era piombato nella stanza.
Con grande sforzo aveva messo a fuoco Michael che, seduto sul divano, reggeva una tazzina. Era rimasto con il cucchiaino sospeso in aria. E Claudia, dietro di lui, in piedi, che gli affondava le mani nelle spalle. Tutti e due la guardavano senza dire una parola, immobili come fossero diventati una statua.
La statua della coppia perfetta, aveva pensato. Perché no? Avrei potuto farla. Magari sarebbe venuta fuori un capolavoro, e va’ a sapere, forse mi avrebbe svoltato la vita.
Ecco, magari sarebbe bastata una scultura del genere per risolvere tutti i suoi problemi, invece di ritrovarsi in quel momento con un rene in meno...
E se finalmente un giorno un critico d’arte l’avesse notata, avesse iniziato a parlare di lei, delle sue opere? Forse sarebbe arrivata al MoMA... Ma ci pensi? Da lì tutto in discesa: niente più debiti, sfratti, luce e gas staccati...
No, meglio di no a questo punto. Davvero un crudele scherzo del destino, se fosse accaduto proprio quando ormai non era più tutta intera...
Comunque: come avrebbe potuta intitolarla, una scultura del genere? Nel caso avrebbe dovuto pensarci bene. Ma non in quel momento: in quel momento sentiva che stava per perdere i sensi.
Aveva detto qualcosa? Forse. Forse aveva detto “Vado in bagno”, oppure “Mi sento poco bene”. Fatto sta, Ora o mai più, si era detta, e aveva messo un passo dietro l’altro lungo il corridoio dio solo sa come, fino a raggiungere la maniglia della porta del bagno e abbassarla.
Neanche sapeva perché le era venuto l’istinto di bagnarsi i polsi. Era stato automatico: non svenire = mettere i polsi sotto l’acqua fredda. Chissà da dove l’aveva pescata quella nozione... L’aveva visto in un film? Glielo diceva sua madre quando era piccola?
Poi, come s’è detto, malgrado l’acqua fredda, era comunque svenuta.
 
Un fischio le trapanava le orecchie. Una specie di sibilo che non sapeva da dove provenisse, forse dal suo stesso cervello.
Prima di aprire gli occhi si concentrò su quel suono: non era poi così fastidioso, anche se forte. Si chiese se ci si sarebbe abituata, nel caso avesse continuato a sentirlo per il resto della vita. Se fosse qualcosa di costante forse potrei non farci più caso, pensò.
Quando si guardò intorno si rese conto che era buio pesto. Non capiva neanche se fosse sdraiata su un divano o su di un letto. Di una cosa era certa: non era più in bagno.
Provò a emettere qualche suono – un mugolio, tanto per iniziare – sia per capire se potesse udirlo nonostante il fischio, sia per verificare che avesse ancora la facoltà di usare le corde vocali.
Poi fece un colpo di tosse, e la testa sembrò scoppiarle. Arricciò il naso per il dolore e si immobilizzò, senza più il coraggio di fare alcunché.
La porta si aprì. Sentì dei passi. Avvertì la presenza di qualcuno vicino a lei. Sollevò lo sguardo cercando di non forzare gli occhi, che le dolevano, ma non riuscì a capire se si trattava di Michael o di Claudia.
«Ehi», disse, tanto per far intendere a quel qualcuno che era vigile.
«Ehi!» sentì rispondere nel buio. Evidentemente qualcuno contento di sapere che si era ripresa, vista l’intonazione, ma di chi fosse quella voce, lei non lo aveva capito. Il fischio continuava a disturbarla.
Attese un attimo per constatare una qualche reazione, ma quel qualcuno sembrava in attesa quanto lei, quindi con un filo di voce chiese: «Sei tu, Michael?»
A quel punto si rese conto che l’altro si abbassava su di lei, poi sentì una mano toccarle la fronte, come quando, da bambina, sua madre provava a capire se avesse la febbre.
Quella mano: non le sembrava quella di Michael. Che fosse Claudia?
«Ci hai fatto prendere un bello spavento», sentì dire da una voce femminile. «Carmelo ha dovuto sfondare la porta del bagno: ti ci eri chiusa dentro!»
Strano, pensò lei, Non ricordo di aver chiuso la porta a chiave. Già è tanto che sono riuscita ad arrivarci, in bagno... E comunque: chi è Carmelo? E chi è questa donna che mi tocca la fronte?
Non fece però in tempo a chiedere spiegazioni, perché avvertì che la sconosciuta si alzava e, a voce alta, la sentì chiamare: «David, vieni! Beth si è svegliata!»
 
David doveva esser rimasto stupito dalla sua risposta: lo capiva dagli occhi sgranati e dalla rilassatezza della mascella, che a stento gli faceva tenere le labbra accostate l’una all’altra.
C’era mancato poco che spalancasse la bocca. Il respiro, poi, era bloccato; lo aveva sentito inspirare a fondo, poi più nulla: l’aria gli era rimasta nei polmoni.
Quando tornò a respirare, David fece uno scatto con la testa e sbatté due volte le palpebre, come a voler scacciare un pensiero.
Quale pensiero? Forse che lei si era fatta tagliuzzare per dare via un rene in modo da pagare i debiti e per avere quel tanto per andare avanti un altro paio di mesi, fino a quando avrebbe avuto un’altra volta bisogno di soldi? O il pensiero che adesso a lei mancava qualcosa, che non era più come prima? O forse quello di sapere che in futuro non avrebbe avuto altro da dar via?
Nel frattempo lei era rimasta immobile, ancora con l’eco della sua stessa voce che diceva: “Non è poi stata un’esperienza così traumatica”.
Non sapeva se lo stupore di David fosse stato causato dal venire a conoscenza della sua decisione o se ciò che lo aveva più sorpreso era sapere che per lei non era stata un’esperienza traumatica. In ogni caso non aveva aggiunto altro. Del resto non avrebbe saputo cosa dire: lei, David, neanche lo conosceva...
Quando si era alzata e, ancora al buio, sorretta da quella donna di cui poteva solo percepire il respiro, una presa ben salda e un vago profumo di gelsomino, era uscita dalla stanza, se lo era trovato davanti.
La luce accesa le aveva ferito gli occhi, fino a quel momento abituati al buio, e non aveva saputo distinguerne i lineamenti. Scuro di carnagione e di capelli, con la barba, ma altro non avrebbe saputo dire.
Se fino a lì si era affidata a quella donna per camminare, nel momento in cui si era ritrovata in un ambiente illuminato aveva fatto per scansarla, imbarazzata da quel contatto sconosciuto, ma non si sentiva ancora sicura sulle gambe, così aveva di nuovo lasciato il peso contro il fianco dell’altra.
Poi la donna disse: «David, puoi occupartene tu? Puoi accompagnarla in cucina? Devo andare a vedere cosa diavolo stanno facendo quei due di sopra».
Come fossero state le parole di una formula magica, d’un tratto le arrivarono chiari i rumori che provenivano dal piano superiore, quando fino a quel momento non aveva percepito altro che il sibilo acuto che continuava a ronzarle nelle orecchie.
In effetti dovevano esserci dei bambini, in quella casa. Sentì delle voci acute, una risata, un gridolino.
Quando la donna si allontanò, seppur senza voltarsi, la vide con la coda dell’occhio. Capelli rossi, ondulati, fino alle spalle, la carnagione chiara, lentiggini, gambe lunghe e magre, fasciate da pantacollant, che scattarono subito verso il fondo del corridoio.
Si era appoggiata con un fianco allo stipite della porta. Si sentiva debole e anche la vista non era proprio a posto. Si sentiva rallentata.
Quello che era David non le si era subito avvicinato. Aveva invece continuato a guardarla dritto negli occhi con aria preoccupata. «Come è andata?» aveva chiesto poi con tono pacato.
«Non è poi stata un’esperienza così traumatica», aveva risposto lei, facendo uscire le parole a fatica, con un ritmo e un tono inconsueti.
Dopo quei secondi che avevano seguito la risposta di lei e lo stupore di lui, David le si era messo di fianco e, con delicatezza, le aveva cinto la vita.
Lei aveva sentito di potersi abbandonare, non voleva altro in quel momento che essere sorretta da qualcuno, lasciarsi guidare.
Il contatto del suo fianco contro il fianco di lui le diede sicurezza; la mano che le agganciava la vita in modo saldo, affondando un po’ le dita nella carne, le diede piacere.
Si domandò se dovesse chiedere spiegazioni. Dove si trovava, per lo meno. E chi fosse lui e chi fosse quella donna che adesso sentiva gridare al piano di sopra, mentre i bambini continuavano a fare lo stesso baccano, evidentemente per niente intimiditi dai rimproveri.
Non disse nulla, però, e mosse un paio di passi seguendo il movimento del corpo di David, con lo sguardo a terra, cercando inutilmente il ricordo di quelle mattonelle marezzate che le rammentavano la superficie degli scogli dopo che l’onda si è ritirata.
«Adesso hai solo bisogno di rimetterti in sesto», disse lui, fermandosi un attimo. «Carmelo sta preparando la cena. Vedrai che dopo ti sentirai meglio». Riprese poi a camminare, e lei ad andargli dietro.
Quando giunsero sulla soglia della cucina, la investì un forte odore di soffritto e il rumore di stoviglie che cozzavano.
«Beth!» la accolse Carmelo, alle prese con la tavola da apparecchiare.
Avrà avuto quarant’anni o poco più, e aveva un gran bel sorriso. Portava un grembiule da cucina ed era a piedi nudi.
Lei non si guardò intorno, continuava a sentire la testa pesarle, ma percepì che la stanza era molto ampia, una sorta di locale unico che forse fungeva sia da cucina sia da salotto. Con la coda dell’occhio scorse in fondo alla stanza un grande caminetto che prendeva quasi tutta la parete, dove ardeva un bel fuoco.
Carmelo scostò dalla tavola una sedia perché lei si potesse accomodare, poi continuò le sue faccende, indaffarato.
David la accompagnò fino al tavolo e l’aiutò a sedersi. Nel momento in cui si staccò da lui provò un senso di smarrimento ed ebbe l’impulso di trattenerlo perché quel contatto continuasse.
Lui, invece, la lasciò lì e si affrettò a raggiungere Carmelo per dargli una mano.
Solo in quel momento avvertì con chiarezza che si trovava in un luogo che non conosceva, con persone che non conosceva, ma che forse erano familiari a Beth.
Perché lei ormai era Beth, non più Eleonora.
 
 



© 2022 Alessandra Buschi