Caterina Falconi, In manicomio

Premesse


I
l sette di luglio ho compiuto trentun anni. L’uno è il passo successivo, dopo lo spartiacque dei trenta. In America alla mia età sono dirigenti al Federal Bureau. Io, con le mie due lauree in lettere classiche e filosofia, non ricordo quante declinazioni abbia il greco.
Ignoranza di ritorno.
Ho perso tempo.
Non ho l’abilitazione all’insegnamento.
Non ho fatto concorsi.
I giornali locali mi pagano trenta euro a recensione. Per le presentazioni degli scrittori indigeni quando va bene becco cento euro, la tariffa di una puttana. Se va meno bene rimedio una cena.
Altre volte presento gratis, per la gloria, perché devo pur mantenermi sulla breccia, visto che mia madre era il rettore dell’università, e mio padre (assessore alla cultura), l’amante dell’onorevole.
Sono l’epigono di una famiglia istruita e potente, finita nella merda. Questo è il centro Italia.
Questo è il perineo della cultura, una landa che per certi testi di geografia è ancora ascritta al sud. Un sud, questo nostro, che non è la grande Napoli, non è Bari o la splendida Sicilia. È una terra sassosa, terremotata. Confusa in un’indeterminatezza che sa di squallore. In provincia abbiamo una piccola casa editrice, di tre sorelle quasi amanuensi che pubblicano su carta riciclata perle dell’ottocento che nessuno acquista. Al mio paese hanno appena abbattuto il teatro.
Io sono un giornalista occasionale e un critico letterario. Credo di valere qualcosa, so fare il mio mestiere, e sono visto come un alieno dagli autoctoni e dai miei colleghi invidiosi e incapaci.
Vivo di una modesta rendita di famiglia. Non ho fratelli. I miei genitori sono morti cinque anni fa, di ictus e infarto, a un mese di distanza l’uno dall’altra, come petardi.
Per resistere ho intensificato le mie pratiche di recensore.
In regione abbiamo tre scrittori di talento, due uomini di mezza età e un’ultraquarantenne ottimamente conservata, sposata a un dirigente ASL. È lei che mi ha raccomandato per una sistemazione provvisoria in questo istituto.
Quando non hai qualifiche e sei disperato ambisci a impiegarti nell’Opera di madre Giuseppina.
Il cancello pencola davanti a me, sorvegliato da una telecamera sfasciata. Un viale rattoppato immette nell’ingresso in fondo a una discesa: porte a vetri sotto due piani di vetrate sporche. Sulla parete di una delle due ali laterali si abbarbica una vite americana mastodontica. I cornicioni si stanno scollando.
Conosco questo posto: c’è annessa una sala convegni che ogni tanto viene requisita da autori facoltosi che presento per cento euro più buffet.
Una volta c’erano le suore, i down, i casi da cottolengo. Da quando hanno chiuso i manicomi il consiglio di amministrazione e l’équipe medica ricoverano i casi psichiatrici. Derrate di pazzi relativamente inoffensivi, corredati da rette succulente.
Etichettati da diagnosi duttili: Disturbi della personalità. Disturbi del comportamento.
Cazzo me ne frega se qua ci stanno i matti o gli scemi: io ho bisogno di uno stipendio per pagare il mutuo. Probabilmente mi dovrei anche sposare a un certo punto, visto che Paola ha già dovuto abortire due volte.
Varco il cancello, e sento che qualcosa mi ingoia.
Seduto sul muretto che delimita il viale, un uomo grasso con la faccia da delfino mi sorride e agita verso di me la mano corta. La pancia immensa posata sulle cosce, i piedi piccoli che dondolano in modo infantile. Ha un’aria affabile e ripugnante.
Rispondo al saluto senza fermarmi. Quello che vedo mi atterrisce. A grappoli o in coppia, persone strane beccheggiano nel prato o siedono sulle panchine nelle pozze di sole autunnale. Ciascuna di esse ha una nota stonata: una deformità, un modo di muoversi a strappi, una fissità da apparizione. Operatori in uniforme bianca mitigano e sorvegliano quel frenetico girotondo e il suo ristagno.
Il mio cuore rimpiccolisce con una fitta.
Penso a Bosch. Alla fisiognomica. Ai ritratti dei folli di Leonardo. A quanto sono stato coglione nella mia vita, per ridurmi a venire a piatire un’assunzione a tempo determinato in un posto così… E intanto sono arrivato alla portineria e tiro un sospiro di sollievo.

Nella guardiola un giovane allampanato e una bella signora in uniforme celeste aspettano a braccia conserte che io entri nell’atrio. Hanno un’aria sorniona e benevola. Lei è la mia amica Elisa Rovello.
“Ciao Massimo”, mi fa. E infila la punta delle dita nello sportello perché le sfiori. Una cosa che mi lascia perplesso, perché la porta della guardiola è spalancata. In seguito avrei scoperto che Raffaello, centralinista e usciere, la guardiola non la chiude mai…
«Ciao Elisa», rispondo. E con i polpastrelli le carezzo le unghie rosa. Di nuovo quella sensazione di caldo stupore nel rivederla, come la prima volta che l’ho sentita parlare, mentre presentavamo un suo racconto.
Lei sfila la mano e scivola fuori dalla porta. «Lui è Raffaello. Raffaello è uno in gamba». Dice indicando il ragazzo allampanato che sorride a mezza bocca.

«Andiamo in segreteria che firmi il contratto d’assunzione». E mi fa strada per un corridoio che si apre su scorci agghiaccianti: ammassi di corpi sui divanetti, ricoverati che grufolano sui pavimenti… «Una supplente si è messa in maternità», aggiunge, «e tu sei quello che la sostituirà. Mio marito ha fatto delle telefonate: sei in una botte di ferro…»
«Ringrazialo da parte mia…»
«Aspetta a ringraziarci. Questa è una sezione staccata dell’inferno». Ed entra in una sala dal pavimento rosso. «Tagliamo di qua».
La sala è vuota. Una decina di poltrone in similpelle arancione sono addossate alla parete, di fronte a una vetrata antisfondamento. Il rivestimento di molte poltrone è squarciato e porzioni di gommapiuma lercia affiorano sulle sedute e sugli schienali.
Un ricoverato dorme scaraventato su due poltrone contigue. Una parte del corpo resta sospesa nel vuoto, un braccio teso con eleganza sopra la testa. «Abbattuto dagli psicofarmaci». Commenta caustica Elisa. È il suo modo di parlare del dolore. Nei suoi racconti le descrizioni della sofferenza sono tutte così, asciutte e implacabili.
«Abbattuto… Ma non sarà che magari si è strozzato con un pezzo di gommapiuma? Il figlio di un mio amico, in fase orale, ha ingoiato…»
«Questi ingoiano anche i bicchieri di plastica. Spaccano i vetri. Si tagliano le mani svitando le manopole dei lavandini. Ma se la cavano sempre».
Io ingoio sgomento e anche un po’ di fastidio per questa bella donna che appena smette di sorridere si plastifica in un'impenetrabilità da posseduta. Usciamo dalla vetrata, ci infiliamo in un portoncino. Adesso siamo nella zona dei refettori. Acciottolio e grida. Un borboglio di lamenti trabocca dalle porte.
Un ragazzo fugge strepitando in corridoio. Indossa una spessa tuta blu abbottonata dietro. La testa deforme, il pannolone che accorcia ulteriormente le gambe tozze. Si morde con furia le mani e si getta sul pavimento. Due assistenti in uniforme arancione si avventano su di lui, lo sollevano e cercano di staccargli la mano dalla bocca perché non si strappi altra pelle. Il ragazzo squittisce, si dimena e ripiomba sul pavimento. Un assistente, esasperato, solleva un piede, forse per colpirlo. Poi si accorge di noi, e indietreggia. Il collega, con la faccia compresa del bravo celerino, gli fa un cenno col capo. Scatta qualcosa, una specie di intesa collaudata da commilitoni: insieme infilano le mani sotto le ascelle del ragazzo e lo trascinano nel corridoio.
«Dove…»
«In infermeria».
«Per?»
«Medicargli la mano. Iniettargli un sedativo».
Mi accorgo di essere indietreggiato e scivolato contro il muro. Mi raddrizzo lentamente sotto lo sguardo torvo di Elisa, come se quella lentezza potesse restituirmi dignità.
«Non dovevo farti passare di qui. È l’ala dei gravi». Si rimprovera. Sembra turbata.
«Ancora ti fa quest’effetto?» Le chiedo per mitigare il mio sgomento. Il cuore mi rulla nel torace.
«Sì. Dopo vent’anni ancora non mi capacito che un operatore sia tentato di sferrare un calcio. E ancora non mi abituo alla furia dei malati».
Non le rispondo. È una donna inedita questa, un po’ sudata nella spessa uniforme di cotone. Una ruga le solca il centro della fronte. Della sua grazia, dietro al tavolo degli scrittori nelle serate letterarie, resta questa scorza, questa respingente compostezza. Forse è l’abito degli addetti ai lavori, la corazza assemblata in anni trascorsi nelle trincee del disturbo mentale.

La segreteria è una stanzetta stipata di scrivanie e costellata di ritratti di pontefici. Elisa bussa alla porta aperta, e un uomo anziano seduto davanti a cumuli di carte e a un vassoietto di pasticcini le fa cenno di entrare. Seguo la mia amica, con riluttanza.
«Massimo, ti presento il signor Mario Lorusso, il nostro segretario».
Due ragazze, una adunca e l’altra flaccida, ammiccano masticando pasticcini dietro i rispettivi monitor.
«Le signorine sono le addette alla segreteria».
Il loro sguardo mi ricorda l’effetto che fanno la mia alta statura e le mie spalle larghe.
«Piacere». Dico, e saluto con un cenno del capo. Non mi tendono la mano, e non voglio essere il primo a farlo. Provo un’insofferenza e un senso di estraneità pericolosi… se cedo al fastidio, lo so, potrei diventare offensivo.
«Dottor Pacifico…» Fa il segretario, abbassando i bifocali sulla punta del naso come un altro potrebbe toccarsi la falda del cappello. «Che onore. Il nostro critico… qui da noi». Preleva una cartella da un mucchio, se l’apparecchia davanti. Confermo la mia prima sensazione su di lui: mellifluo, e probabilmente disonesto.
«Lo sa dottor Pacifico, che ho un nipote che scrive poesie…» E fa la faccia aggressiva dei commercianti quando cozzano contro il mio diniego. Emmò, che fa questo signorino, non mi fa la recensione, ecchè sarà, vorrà dei soldi? «Lei lo ha stroncato ferocemente».
E quanto potrà valere una recensione? Cent, ducent euro… Esterrefatti, furiosi, che ci sia qualcosa che sfugge alla presa del denaro.
«Come si chiama, questo suo nipote?» Chiedo algido.
Lorusso me lo dice.
«Non ricordo. Stronco tanta gente». Ritorco al suo muso canino, alla cartella che sicuramente mi riguarda, al fatto di stare qui per bisogno, ma non è detto che ci rimanga.
Piomba un silenzio ruvido. Elisa mi infila dolorosamente un dito nella schiena, per richiamarmi all’ordine e impedirmi di svaccare.
«Bene, dottore...» Prosegue Lorusso, ridiventando improvvisamente formale e picchiettando l’indice sulla cartella. «Ho qui pronta una rinuncia agli studi. Per essere assunto da noi dovrebbe firmarla. Le spiego, lei ha due lauree e una marea di pubblicazioni, che obbligherebbero l’istituto ad assumerla con funzioni direttive… Ma l’istituto non ha bisogno di altri direttori».
«Ho capito». Sfilo la mia Parker dal taschino della giacca e mi curvo per firmare.

«La rinuncia agli studi… Non avevo dubbi». Dico ridendo ad Elisa, una volta in salvo in un orribile ascensore.
«E basta!» Fa lei reprimendo un sorriso, il profilo puntato alle porte che si richiudono soffiando. Noto, per l’ennesima volta da quando la conosco, un suo irrigidimento quando resta sola con me. Il mio amico Roberto mi ha riferito la stessa cosa, anche con lui fa così. Ci sono indizi che farebbero pensare – la seduttività, la ritrosia, le sue storie di bambine abusate – a qualcosa che fa stringere il cuore.
Provo un’improvvisa tenerezza per lei, e un pudore strano.
L’ascensore cola giù fluido e si ferma, le sue valve argentee si aprono davanti alle porte dei gabinetti al piano terra.
«È tutto rimescolato qui, sul piano architettonico». Considero serio.
Lei annuisce. «Non solo sul piano architettonico. C’è molto di Lewis Carroll, in questo posto. Nonsense, e situazioni al rovescio che non potrebbero e invece funzionano alla grande».
«E in questo paese delle meraviglie il segretario chi sarebbe?»
«Ah, lui è il Brucaliffo!»
E ridiamo di gusto.
Mi piace l’intesa che ho con lei. Che scocca con rare persone, avanzi di un mondo che si nutre di suggestioni e letture, che fa un cattivo uso della tecnologia: scrittori, poeti, editori.
«Stasera verrai alla presentazione di quell’antologia della Fernandel?» Chiedo.
«Certo. La Bonafini è una mia amica», risponde lei. «Per la verità, potrebbe essere mia figlia. Le presenti tu, le autrici?»
Annuisco.
Oltrepassiamo la portineria e risbuchiamo in giardino. Raffaello saluta con un cenno del capo. Sembra il remake di una roba che ho vissuto molti anni fa, quando ero di passaggio all’aeroporto di Mosca, e un militare biondo dalla faccia di bambino mi sferrò un sorriso da dietro un vetro antiproiettile.
Un sorriso a me…
«È simpatico, Raffaello. Sembra intelligente».
«Molto. Era ufficiale nell’esercito, poi non so cosa sia successo…»
«Un militare, ecco, volevo dire… Avevo colto qualcosa».
«La postura nella guardiola?»
Le sorrido. «È per questo che sei la mia autrice preferita».
Ci abbracciamo sul cancello. Mi arriva il suo profumo, screziato dall’odore un po’ acre del sudore.
«A stasera, mia cara».
«A stasera Massimo».

Non è ancora sera. Nella stanza l’odore del sesso. Apro gli occhi su una caligine pastosa. Dalle serrande abbassate cunei di luce. Il caldo insopportabile della mia mansarda nel tardo pomeriggio. La percezione del corpo di Paola che piomba a sedere di schiena sul materasso, accolta nel sonno, invade i miei sensi e mi sveglia completamente. Dalla sua pelle l’odore agrumato del docciaschiuma. Le goccioline che sembrano trafiggere la sua schiena nuda. Se mi muovessi lei si girerebbe e potrei vederle il seno. Quel seno turgido d’adolescente che mi ha scombiccherato al punto da chiederle, un anno fa, di vivere con me, e che mi conturba ancora, anche se ha smesso di sconvolgermi il contrasto con questa bionda sbrigativa, specializzanda in medicina interna, filiforme e stilizzata. Chiudo gli occhi. La mano fresca della mia compagna mi accarezza una spalla.
Mi dico che stasera rivedrò Luisa. E il pensiero dei suoi grandi occhi castani riempie i miei di lacrime.
E mo che cazzo faccio? «Sveglia, amore. Dobbiamo andare alla presentazione».
Riapro gli occhi e un rivoletto salato mi imbratta una guancia.
Paola lo tampona con la punta dell’indice, senza dire niente. Imperscrutabile. Fa la faccia da medico, eccitata dall’aver fiutato un dolore, indecisa sulla sua eziologia.
Fanculo. Se anche la riguardasse, l’eziologia, lei affronterebbe il problema con calma. È tutta così, rotta allo sfascio e alla sofferenza degli altri per la lunga frequentazione delle corsie ospedaliere.
Nei primi tempi ero affascinato dalle sue contraddizioni. Ma forse ero soprattutto lusingato dall’avere fatto innamorare un medico.
Ne parlavo con Elisa giorni fa, dell’ipocondria della gente di lettere. Di questo mercimonio sentimentale tra medici e scrittori, che spesso avviluppa tipi come me e Paola in un sodalizio inespugnabile.
Rassicurazione contro trasgressione.
«Stavo facendo un brutto sogno». Mi giustifico. Paola grugnisce fra le ante spalancate dell’armadio.
Funziona meglio se il medico è l’uomo, penso. E scalzo mi avvio verso la doccia.

La presentazione è andata bene. Come sempre, appena finito, mi sento svuotato e un po’ euforico. Francesca Bonafini non si è smentita, ha messo il pilota automatico ed è andata alla grande. Ma una parte di lei è rimasta in immersione, a sorvegliare una specie di dolore. L’ho avvertito a un certo punto, voltandomi ad osservarla. Aveva ’sto bel profilo da ragazzina puntato al cielo, mentre la bocca impastava le parole per conto suo.
Il giardino del circolo era gremito, per terra ciotole di citronella. Le sedie disposte in una disordinata mezzaluna attorno al nostro tavolo. Da quando c’è stato il terremoto la gente è diventata claustrofobica, qui da noi. Tutte le manifestazioni si fanno all’aperto. Ognuno a sorvegliare il minimo tremolio della sedia, le oscillazioni di un festone di carta… Basterebbe uno strillo a scatenare il panico.
Questa sbornia collettiva di paura rende tutti più ricettivi, più attenti anche alle cose belle.
Certo, il terremoto ci ha impoveriti ancora di più: negli ambienti letterari ha enfatizzato un garbato minimalismo. Le scrittrici vestono cinese, all’usato, piastrano i capelli da sole. Non sanno come campare i figli, se stesse. Per gli uomini è anche peggio. Ci accontentiamo di lavori inadeguati e sottopagati, quando li troviamo.
Inforco gli occhiali. Impigliata tra i rami di una magnolia c'è una luna fosforescente.
Quando presento non devo vedere un cazzo. L’espressione dei presenti mi distrae. Comincio a chiedermi se fanno quella faccia perché li annoio, e da un trip all'altro galoppo fino al vuoto mentale. Allora, siccome sono miope, tengo gli occhiali per (non) guardare gli autori accanto a me, e li sfilo quando mi rivolgo al pubblico.
Stasera oltretutto c’era una ragione particolare per non vedere: se avessi scorto Luisa tra gli altri non so come avrei potuto reagire. L’ultima volta che l’ho incontrata sono stato preso da un soprassalto che mi ha annichilito. Stava dietro a un tavolo della casa editrice per la quale si improvvisa addetta stampa per cento euro alla botta, e vendeva ai parenti dell’autore le copie di un romanzo discutibile. Lattea, distesa. La faccia di un angelo di Della Robbia, di un’attrice degli anni venti… Bella da divorare, nelle linee terse che le disegnano i fianchi e la vita sottile. Ha alzato gli occhi da una banconota da cinquanta che non sapeva come cambiare e mi ha visto. Un coglione di critico letterario in deliquio contro una colonna in cartongesso del locale.
Che figura. Fortuna che Paola non c’era…
Il fatto è che avrei dovuto provarci subito. Portarmela a letto. Invece l’ho idealizzata, e adesso mi soverchia con il suo fascino e la sua dolcezza.
Ozma di Oz.
Dorothy Gale.
Basta!
Ah, ma adesso potrei anche osare un impatto visivo: la presentazione è andata ottimamente, e mi sento un leone. Abbasso gli occhi di scatto per scoprire che i presenti si sono alzati e si affollano intorno al tavolo per farsi autografare le copie dell’antologia e salutare le scrittrici.
Luisa è in fondo al giardino. Chiacchiera con Elisa, e intanto mi guarda con un piccolo sorriso sulla bocca rosa.
Dunque si riserva di parlarmi quando la ressa dei complimentosi si sarà dispersa per i vialetti del circolo. Meglio così, posso sconvolgermi con comodo più tardi.
Osservo gli invitati: gente di cultura, piccoli borghesi annoiati, editori affamati di autori decenti a buon mercato. La luna si libera dalla chioma della magnolia e vola in cielo come un palloncino bianco. Le autrici Fernandel si sono spostate al bar e trincano pesante. «Massimo, ciao!» «Sei stato grande!»
Complimenti e strette di mano. Il cellulare vibra nella mia tasca. Lo sfilo. Sul display ancora illuminato un mex di Paola. Lo apro. Vado in ospedale. È di turno, stasera, l’avevo scordato. I miei occhi sono risucchiati dalla sua figura bionda davanti al cancello. È lei che mi saluta spedendomi un bacio.
Rispondo con un cenno.
Sento che Luisa sta osservando la scena, e mi vergogno.
Elisa attraversa il mio campo visivo. Va a sedersi accanto all’uomo che ha sposato in terze nozze. Si guardano corrucciati e parlano fitto. Dopo un po’ lui le prende una mano, e lei gli bacia le dita.
Provo una stretta al cuore, e in contemporanea avverto una carezza sul mio braccio.
Mi volto sapendo che è lei.
«Ciao Luisa».
«Massimo».
E ci abbracciamo, come usa tra noi.
«Come stai, cara? Giovanetti mi ha detto che hai nuove bozze da correggere…»
«Capirai…»
«Quante pagine?»
«Un centinaio».
«E ti danno?»
«Tu non ridere».
«Preferisci che pianga?»
«Sarebbe più opportuno… Cinque centesimi a cartella».
«Cristo! Hai capito Giovanetti…»
«L’hai detto. Invece tu? Il tuo romanzo?»
«Zitta! Lo sanno in pochissimi». L’afferro per un gomito e la tiro in disparte. Tutta una messa in scena per poterla toccare. Lo sanno pure le pietre che ho scritto un romanzo e che l’ho spedito alla disperata a varie case editrici.
«Allora parliamo d’altro». Fa lei. «Mi faccio grandiosamente i cazzi tuoi… Posso?» E arrossisce.
Io annuisco divertito, sento il cuore che mi batte nello stomaco. Adesso è in versione malizia e seduzione… una conturbante Betty Boop.
E infatti mi conturbo. Speriamo che non se ne accorga.
Se non fosse così colta… Se non tenessi tanto alla sua ammirazione…
«E allora?»
«Allora che?»
«’Sti cazzi miei».
Lei esita. Ho la sensazione che stiamo girando attorno a qualcosa che non abbiamo il coraggio di confessarci.
«Hai trovato un lavoro». Mi dice. «Hai intenzione di sposarti?»
Rinculo, fisicamente. Con la penna nel pugno.
«Ma noo. Non ci penso neanche». Nego gesticolando, e per poco non mi acceco con la Parker.
«Elisa mi diceva…»
«Elisa, se non fosse tanto carina, sarebbe la rana dalla bocca larga. Mi ha trovato un’assunzione a tempo determinato, un anno, un part-time oltretutto. Devo pagare il mutuo, e ho bisogno di qualche soldo in più».
«Un lavoro part-time per un anno, in un istituto per disabili psichici».
«Io preferisco dire manicomio. È più romantico».
«Un anno in manicomio».
«Gozzaniano».
«Cosa c’entra Gozzano?»
«E che ne so! Suonava…»
E ridiamo sguaiatamente. Mi sale una preoccupazione violenta: perché le ho confessato il mio disamore per Paola? Perché l’ho fatto così? Sono queste le cose che offendono un partner, non il tradimento. Quello, quando arriva, è inevitabile.
Pulsazioni nella gola e vertigini. Queste somatizzazioni dell’ansia si stanno intensificando. Cominciano a preoccuparmi. Premo un pugno sullo stomaco, un gesto che non sfugge agli occhi belli di Luisa. Siamo di nuovo seri. Il guaio è che la gente come noi è sempre seria, sotto un brecciolino di facezie. Cova ininterrottamente un dolore proficuo…
«Non dire a Paola… che sai che non voglio sposarmi».
«Per chi mi prendi… Piuttosto, tu, non dire a nessuno che mi fa piacere».
Ecco, siamo a questo punto!
Sospiro, e guardo il cielo.
Le stelle sono d’oro filato. Se socchiudo gli occhi infilzano il blu con raggi sottili. La luna adesso è molto in alto, e fluttua su una traiettoria quasi orizzontale.
«Massimo, mio padre è uno psichiatra. Nel manicomio, quello vero, io ci sono cresciuta. Non è posto per te».
È così cupa che comincio a preoccuparmi…

Torno a casa guidando in un buio rarefatto. L’aria è fresca. Ripenso a Margherita, la donna di mio padre. Ora sarebbe facile filtrare la mia storia secondo un copione freudiano, dicendomi che in fondo è logico ripensare a Margherita, dato che sto per tradire la mia compagna. Eppure c’è qualcosa di davvero spostato nella mia vita. Gli adulti della mia infanzia sono stati tutti dei "facenti funzioni". Margherita faceva le funzioni di una quasi madre. Mia madre di un uomo. E papà era un insipido maschio irresoluto. Non ho mai capito perché le due donne se lo siano conteso per tutta la vita, perché lui le avesse scelte tanto diverse tra loro. Mamma il mastino. E Margherita la fata.
Socchiudo gli occhi su un ricordo. La strada scorre davanti a me umida di plenilunio. Non c’è traffico, posso permettermi di divagare senza espormi a incidenti.
Margherita che cammina scalza nella sua villa cadente, circondata dai libri, i soprammobili preziosi, i dipinti. Sul divano i volantini del partito. Quelle sue gonne lunghe vellutate. I capelli neri che profumavano di patchouli. La stella tatuata sul malleolo, non ricordo quale fosse. La concentrazione che le rimpiccioliva il volto da madonnuzza, mentre leggeva, esposta al mio sguardo.
Quando lei e mio padre dovevano parlare di cose noiose, io li aspettavo in giardino. La caraffa d’aranciata sul tavolo in ferro battuto. La pila dei giornaletti. Il portone chiuso alle mie spalle.
E loro due dentro!
Inaccessibili.
Adesso che ci penso, questa tachicardia, quest’oppressione in petto c’erano pure allora, mentre sfogliavo umiliato i fumetti dando le spalle alla villa. Quando tornavo a casa da mamma, deciso a non svelare il segreto di papà, e mi dicevo che Margherita mi piaceva, che mi sarebbe piaciuta una madre come lei…

Domani inizio a lavorare. Con un gruppo di ragazzi gravi, ma non troppo. Così mi ha detto stamattina Elisa, sul cancello dell’istituto. Chissà qual è il suo metro per la gravità, e cosa significa "troppo".

Parcheggio sotto casa. Spengo il motore e appoggio la fronte al volante. Sento che la mia vita ha assunto una configurazione precaria. E già non mi appartiene più.

© settembre 2009 Caterina Falconi