Caterina Falconi, In manicomio

2 novembre



Da ragazzino novembre mi sembrava un mese liquido.
Quelle giornate corte corte, immerse in una luce argentea e bagnata. Il freddo viscido delle lenzuola quando mi coricavo, e dei vestiti indossati la mattina.
Certe volte bastava che infilassi il grembiulino di scuola per provare un irrefrenabile senso di vomito.
«Mamma ci ho il vomito».
«È l’ansia». Sentenziava mia madre dalla cucina. «Vieni che ti abbrustolisco un po’ di pane».
Io attraversavo la penombra del corridoio, oppresso dalle alte volte e dai profondi armadi a muro. La cucina si apriva dietro un arco, nel chiarore madreperlaceo riverberato dalle pareti, dalle credenze e dai pensili smaltati di bianco. Anche il tavolo era chiaro, e papà faceva colazione seduto in pizzo alla sua sedia a capotavola, vestito di tutto punto e in prevalenza di beige, gli occhi che frugavano in un testo per professori accanto alla tazza del latte. Immerso nei vapori della mia miopia, vedevo mamma in piedi accanto ai fornelli, masticare fette imburrate e abbrustolire il pane per me in una padella antiaderente. Ancora in camicia da notte, il magnifico rettore, con i collant elasticizzati sotto. Gli occhi bui puntati come faretti direzionali sulle palpebre del marito, e poi verso il vano della porta.
«Massimo, che fai? Entra».
E rovesciava le fette di pane su un tagliere, le ungeva e le salava.
«Mangia!»
Io prendevo una fetta, mi scottavo le dita e la facevo provocatoriamente ricadere sul tagliere. Mamma aveva un fremito di impazienza ma restava a piantonare la mia colazione. Io ritentavo con successo l’impresa e addentavo la crosta del pane con gli occhi fissi su di lei, ripugnato e affascinato dalle sue unghie rosicchiate, dalla sua formidabile bruttezza.
Quella bruttezza era un cattivo conduttore. Il volto spesso, solcato, poco mobile, non era quasi mai attraversato da un’emozione frivola. Almeno così mi sembrava. Ma la rabbia le adombrava lo sguardo in modo istantaneo e inequivocabile. E a quell’incupimento seguivano un silenzio e un abbandono ferrigni e insopportabili.
A volte però le capitava in faccia una frana meravigliosa e tanto più sorprendente perché ligia a una mimica rovesciata: mamma sorrideva con gli angoli della bocca all’ingiù. Le spesse labbra si spalancavano di scatto sui denti sporgenti e ci fioriva sopra una fugace intensa simpatia per me. La sua affettuosa approvazione.
Era una cosa che mi pugnalava di felicità, e subito dopo di una tristezza così fonda e inesplicabile che dovevo uscirmene dalla stanza.

Questa storia dell’approvazione mi ha molto condizionato. Allora, da ragazzo intendo, era come se in quella casa non esistessi. Papà si faceva grandiosamente i cazzi suoi, e mamma mi sfiorava appena con gli occhi bui e vuoti, le poche volte che attraversava la mia stanza, o quando non era seduta a tavola a frantumare bocconi e soppesare l’espressione del marito.
Se lo sarebbe mangiato, papà, e forse in un certo senso lo aveva fatto, perché ne aveva assimilato le movenze, e persino il look. Ricordo le loro canottiere, stese su uno stendino in una stanza al piano terra adibita a lavanderia, e le mutande. Erano quasi identiche. Spallina larga, taglia media. Slip alti Sloggy contro slip maschili rinforzati sul davanti. Calze da maschio per entrambi. E pigiami dello stesso colore.
Ma nelle riunioni di famiglia, a Natale, o nelle altre festività, tanto sentite da noi, io ero oggetto dell’attenzione compiaciuta di prozie e nonno.
Erano i giorni delle mie performance. Papà schioccava la frusta e io sciorinavo poesie al centro della sala.
Mio nonno in particolare, preside di liceo classico e persona coltissima, uno che aveva costellato le chiese del teramano di iscrizioni in latino e greco su marmo, e scritto sulla Treccani e sull’Osservatore Romano, per intenderci, mi sottoponeva a degli interrogatori sfibranti sulle nozioni apprese a scuola. Era un po’ la propedeutica alle mie vacanze di Natale. Se andava bene, poi si dimenticavano di me e mi lasciavano libero di gironzolare nelle stanze pompose della villa.
Andava così: arrivavamo e mi introducevano nello studio del nonno. Lui sedeva in una poltrona di velluto beige, con una vestaglia beige stretta in vita da un cordone. Pantofole chiuse ai piedi, piumaggio immacolato sulla testa ravviato con il pettine bagnato. Gli occhi accesi di una tenerezza, di un orgoglio, di una bramosia sadica di mettermi alla prova per poi riconfermarmi come erede ideale, figlio elettivo, amato di un amore esclusivo che ignorava l’inconsistente frapposizione di mio padre fra noi.
«Buongiorno nonno. Come stai?», esordivo per dimostrargli che avevo assimilato la regola che sono i più giovani a salutare per primi.
«Bene Massimo. E tu come stai? Come va la scuola? Mi hanno detto che sei il primo della classe. Ma vediamo un po’, non è che mi fidi tanto dei miei colleghi professori: chi ha liberato l’Italia, gli italiani o gli americani?»
Io sapevo rispondere a quasi tutte le sue domande. Le poche defaillance erano minimizzate dal nonno con dei: be', questo non potevi saperlo, sono io che pretendo troppo.
Uscivo da quello studio ingorgato da un senso di trionfo per la mia bravura e di tenerezza per l’indulgenza del nonno. Mio padre mi sogguardava con affetto e subito dopo distoglieva gli occhi, rassicurato dal mio sorriso. Anche mamma era distesa, nei tailleur di Luisa Spagnoli, che patinavano la sua terrigna figura lustra di parrucchiere e ombretto rosa. E tutto sembrava assumere una giusta collocazione, come se l’orologio dei mesi, dopo aver trascinato bislaccamente ore e giornate bistrate di insoddisfazione, finalmente si fosse ricomposto in una giostrina di figurine sincronizzate e degne. I genitori, il nonno, le prozie, il bambino prodigio, le decorazioni sulla specchiera e le stanze profonde.

Sì, novembre è un mese liquido, sarà anche per questo che ogni anno, di questi tempi, vengo a correre sul fiume. La città è immersa nella sua liquidità. Me la sono lasciata dietro all’imboccatura del ponte, ma ho ancora gli occhi strinati dall’arancione delle zucchette di Halloween accese nelle vetrine di tutti i negozi. Il vento di ieri ha ammucchiato foglie secche sull’asfalto, in cielo chiazze livide si alternano a un azzurro nudo. Il freddo mi riempie la gola, e lo respiro a sorsi. Sotto di me scorre il fiume ingrossato dalle piogge degli ultimi giorni. Un fiume fangoso e incazzato che sfocia ribollendo nel mare. Sulle sponde cespugli neri, canneti grigiastri. Un uccello strano galleggia solitario tra due pietre.
Mi sento quello che l’analista mi ha accusato di essere in una delle ultime sedute: un personaggio fluttuante. E meno male che fluttuo, gli ho risposto, altrimenti non potrei aderire alle cose, descriverle. Me lo ripeto adesso, e mi riscuoto per effetto della strana sonorità di questo pensiero.
Forse non l’ho pensato… l’ho detto.
Mi fermo di colpo. A un tratto mi frana addosso la stanchezza della corsa. Mi appoggio al parapetto. Osservo la foce del fiume e un mucchio di detriti su una secca.
Ho un bruciore nel petto, un dolore al fianco. Ma non mi basta… vorrei farmi più male.
A distogliermi da questa smania autodistruttiva si materializza all’improvviso un ricordo recentissimo: stamattina, andando al lavoro, ho incrociato un gruppo di ricoverati che veniva via dal cimitero.
Forse avevano portato dei fiori ai compagni d’istituto morti negli ultimi anni. Il camposanto ardeva come un’astronave dietro di loro, per via del due novembre in corso. Il piazzale era intasato di bancarelle di crisantemi, lumini e persino generi alimentari. Ma la volgarità della scena si infrangeva contro la loro devianza. Come se il grottesco della loro follia fossero in grado di reggere all’impatto con la morte. Ho osservato le loro schiene storte e la loro andatura barcollante e ho provato un selvaggio affetto, un senso di gratitudine alla vita, per averli conosciuti.

Sono le due. Ho pranzato in istituto, salutato i ragazzi, indossato tuta e scarpe da jogging, osato una corsetta, e adesso mogio mi riavvio verso casa. Queste puntate al fiume sono sempre deludenti… Chissà che mi aspetto di vedere poi, tra i massi che affiorano. Stanotte ho tentato di fare l’amore con Paola. O meglio, mi sono accorto che ci stavo provando quando mi ha svegliato assestandomi una gomitata nello stomaco. Paola in linea di massima collude divertita, ma certe volte mi respinge. Stanotte mi ha fatto male, con quel gomito appuntito, e io ho provato un’umiliazione terribile. Mi sono rincantucciato nel mio angolo di letto e le ho sparato: «È vero che mi metti le corna?»
«Ne parliamo domani». Ha ribattuto secca lei.
Ma già mentre lo diceva un muro di incredulità si è abbattuto su di me, e mi sono riaddormentato di colpo.
Il tutto nel buio più completo.
Stamattina, quando la sveglia ha suonato Paola non c’era nel letto. E io ho avuto il dubbio di aver sognato tutto quanto: la gomitata e il resto.
Luisa non si è fatta più sentire. E io mi sento più fluttuante che mai, confuso tra reminiscenze e desiderio.
Natale segue a ruota Ognissanti. Nell’aria bagnata di novembre c’è un’anticipazione del suo triste scialo, un crepitio di luci, un odore di neve trasportato dal vento… I ricordi mi agguantano a ogni angolo di strada. Penso a mia madre, che non ho saputo amare. A papà. Al mio nonno illustre.
Tutta gente morta.

Una volta Elisa Rovello mi ha detto, citando Forrest, che sono affetto da una costituzione amorosa vacillante.
Per la verità ci stavo provando anche con lei, incurante del divario generazionale e della sua materna bonomia… e sul momento non avevo dato molto peso alle sue parole.
Stavamo al solito circolo, ed ero di malumore. Avevo appena finito di presentare un mio saggio su un autore abruzzese mediocre molto amato da mio padre. Era andata maluccio. Poco interesse nei pochi presenti. Nessun entusiasmo da parte mia. Del resto quel saggio era nato sotto il segno dell’ambiguità: era scritto magnificamente, ma sezionava uno scrittore irritante e banale. La dimostrazione che si può discettare ad alti livelli anche di una rapa. Una grande soddisfazione per me.
L’idea era germogliata una sera di otto anni prima, mentre cenavo con mio padre in una trattoria di Teramo. Una di quelle trattorie vagamente spocchiose, con la carta da parati sui tramezzi, mobili di varia provenienza e uccelli impagliati sulle credenze.
Mi ero appena laureato e temporeggiavo incerto su cosa specializzarmi.
«Ti vedo un po’ seduto». Mi aggredì papà, forbendosi la bocca con il lembo di un tovagliolo. I fagottini che si gonfiavano nel brodo non li aveva neanche toccati. Sembrava piuttosto scazzato.
«Certo che sono seduto. Davanti a te».
«Non scherzare, Massimo. Intendo in questo periodo. Mi sembra che tu stia perdendo tempo. Non hai deciso cosa farai, adesso che ti sei laureato?»
«Il giornalista. Ne avremo parlato una ventina di volte».
Non sopportavo la sua disapprovazione. Che si permettesse di accusare me di perdere tempo, lui che non era mai stato compiutamente qualcosa.
«Il giornalista. Bene. Potresti incominciare a farti le ossa con qualcosa. C’è Momo in città, lo ricorderai, veniva a casa nostra quando eri piccolo. Ti andrebbe di intervistarlo?» Mi sfidò. Lo chiese e attaccò il fagottino nel piatto. Senza smettere di guardarmi negli occhi. Non sapevo che rispondere. Momo era un omone nasuto, intriso dell’odore di sigaro, triste e presuntuoso. Da bambino mi metteva a disagio, e il suo ricordo mi inibì più di quanto non avesse fatto la sua presenza nel nostro salotto. Abbassai gli occhi sui rebbi di una forchetta d’argento. Perché mio padre mi citava un tipo che era quasi un’icona dei tempi in cui vivevamo infelicemente tutti e tre assieme?
«Perché Momo, papà? È uno scrittore mediocre, ripetitivo e ovvio».
«Perché è il più grande scrittore abruzzese vivente».
«Non sono d’accordo…»
«Potrei chiedere a Margie di pubblicare l’intervista sulla sua rivista».
«La rivista del partito… Margie ha sempre pubblicato le mie cose, quando le ha trovate buone, e a prescindere dalle tue richieste». Ritorsi. Doverlo attaccare per difendermi mi amareggiò. Non avevo più fame.
«Gli faccio una telefonata, e gli dico che passi da lui uno di questi giorni».
«Vabbò. Se ci tieni tanto… Però non gli telefonare, sennò non saprò mai se mi ha ricevuto perché sono il figlio del suo amico, o perché questo critico in erba merita qualche chance. Mi faccio avanti io».
Ma il progetto non andò in porto. Papà, come spesso gli accadeva, era male informato. Momo era ripartito per Roma due giorni prima della nostra cena. E non tornò più a Teramo, perché morì un mese dopo.
Le cose in sospeso mi angosciano a dei livelli da farmaco. Sarà perché sono un ossessivo, e ho bisogno di chiudere una finestra prima di aprirne un’altra. E così l’anno scorso, dato che la mia vita sembrava assestarsi, ho deciso di saldare ’sto vecchio conto con mio padre scrivendo un saggio su Momo. Voleva essere un omaggio alla memoria di un papà, che tutto sommato era sempre stato delicato con me. Un atto di riparazione. La dimostrazione che non avrei avuto difficoltà neanche anni prima, ad affrontare l’argomento...

«Costituzione amorosa oscillante, Elì?»
«Vacillante Ma’».
L’inverno accerchiava il locale. Faceva freddo anche dentro. Elisa si stringeva nel cappotto. Le luci fioche dei faretti palpitavano sul soffitto della sala conferenze. Alcuni invitati se ne andavano. Degli studenti attraversavano la stanza e si infilavano in una camera adiacente adibita ad internet point e a sala giochi. Siccome erano studenti, e nutrivano una specie di timore reverenziale per la cultura e i suoi rappresentanti, ci salutavano con scuotimenti di capigliature e sparivano dentro.
Quando sono tornato a guardarla, Elisa puntava ancora lo sguardo corrucciato nel vano che li aveva inghiottiti.
«Non ti piacciono?»
«Non proprio. Sono rudimentali. Sono prepotenti. È come se ribadissero il diritto a una vita comoda, a prescindere dai meriti personali. A strafogarsi. Allo sballo. All’omologazione. Alla mediocrità… Mi fanno anche un po’ paura».
Ho smesso di essere vellicato dalla sua bellezza consumata e l’ho vista come vedo Margie: una persona a suo modo coraggiosa, che ha deciso inopinatamente di volermi bene, fregandosene delle mie intemperanze.
«Sì, probabilmente sono affetto da una costituzione amorosa vacillante». Ho ammesso.
Elisa ha trascinato su di me due occhi stanchi.
«Tutte le volte che mi intreccio con una ragazza, dopo un po’ mi sembra di secernere squallore. Tu dici che succede a tutti i figli di divorziati?»
Lei ha fatto spallucce. «Non lo so. Io tendo a ossessivizzarmi. I miei amori sono lungodegenze. L’ultima è ancora in corso».
«Tuo marito?»
Lei ha annuito. E io ho pensato a Luisa, che da poco si era introdotta nel nostro giro, e mi sono chiesto se un amore con lei avrebbe potuto cronicizzare.


4 novembre
Sono due mesi che lavoro in istituto. Ma a me sembrano di più. Il problema di abituarmi ai ragazzi non si è posto, perché sono stati loro ad abituarsi subito a me. Mi hanno inglobato e investito di autorità fin dal terzo giorno. Sapevano cosa aspettarsi: assistenza, direttive, conforto e repressione.
È stato facile. Quello che non avevo previsto è stata l’adesione ai loro umori, questo vischio di compassione che si è subito addensato tra noi.
Le cose da fare sono poche. Dal primo giorno mi è stato chiaro come dovevo muovermi. Il tempo è scandito da poche inderogabili ritualità: la colazione della tal ora, il cambio dei pannoloni all’altra, la distribuzione delle fotocopie, le chiacchiere con Bruno nel borboglio della televisione mentre i ragazzi colorano o si addormentano di colpo sulle sedie. Il pranzo. Il commiato.
Certi giorni tutto fila liscio. Altri è tutto un reprimere tumulti, inibire fughe e aggressioni. Dipende da Gabriele, fondamentalmente: se è tranquillo, anche i compagni stanno buoni. Se si agita, scoppiano uno dopo l’altro come popcorn in una pentola.
Da due settimane però devo dire che fa il bravo. Entra in laboratorio con un giochino in mano e viene dritto verso di me, mi afferra per la manica del camice e mi trascina alla finestra. La manovra non garba molto a Leonardo e a Sigismondo, che sgranano gli occhi e si gonfiano per aggredirlo, inibiti all’istante dallo sguardo di Bruno. Del resto ogni operatore si lega elettivamente a un assistito, questa è una strana prassi, che tutti hanno assimilato e non contestano, e Gabriele è il mio prediletto.
Perciò lo seguo arreso adeguandomi alla sua andatura sghemba e strascicata, a quel suo pencolare da Igor, e con lui indietreggio fino a sentirmi il davanzale della finestra conficcato nelle reni. Diamo le spalle al sole e alle sbarre, e diamo inizio a uno strano cerimoniale.
Gabriele mi guarda e sorride appendendosi ancora di più da un lato, tanto che certe volte perde l’equilibrio e tocca pure sorreggerlo. Io lo guardo e sorrido storto al suo sorriso sghembo finché non ci avvitiamo in una sbilenca complicità. Quando il contatto si innesca, e mi sento pervaso dalla sua cilestre follia, lui lo avverte e attacca: «Papà Gianni?»
«È venuto sabato?» Naturalmente non lo ricorda. E io rettifico: «Viene sabato?» E guardo Bruno per sapere la risposta. Il collega annuisce.
«Oggi è sabato?»
«No. Oggi è giovedì».
«E domani?»
«Venerdì».
«E dopo?»
«Sabato e viene Gianni».
«Viene?»
E via un altro giro di giostra. Domande e risposte ossessive come nastro adesivo attorno a un pomolo.
Non mi stanca ripetere sempre le stesse cose. In fondo, comunque si parli, si trasmettono pochi contenuti. Emozioni, fondamentalmente: rabbia, amore, insicurezza, paura… Con la gente cosiddetta normale frughi sotto giri di parole e miserie lessicali, o peggio luoghi comuni, e vedi baluginare melma, confusione, ambivalenza. Con questi ragazzi bastano due parole, uno sguardo, una torsione del polso, e quello che sentono ti arriva come una fucilata. Netto. Ti si incollano al cuore. Magari non ci vivresti, dopo un po’ non li reggi, hai paura di diventare così, forse sei già un po’ così, ma dal primo momento non puoi fare a meno di sapere quanto ti commuovono, ed è questo che li rende speciali.
«Viene. E che ti compra?»
«Alla stazione?»
«Alla stazione».
«Il panino col prosciutto. E le sigarette».
«E tu sei contento?»
Sorride, si piega e osa: «La seghina».
«No, la seghina te la fai più tardi. Adesso parliamo, che ti piace di più».
Tutte le volte uguale. Spiraleggiante. A circuito chiuso. Eppure a volte capita che il terreno diventi sdrucciolevole, e ci troviamo a precipitare dentro ricordi che Gabriele non sapeva di custodire.
«La giostra».
«Quale giostra?»
Una giostra dove suo padre lo portava, quando era ragazzino e stava in un altro istituto. In questo modo sono venuto a conoscenza di tanti particolari della sua vita: che la madre gli cucina solo findùs, che il padre mette su film porno, che hanno un giardino assolato dove Gabriele si ustiona regolarmente. Altre cose le ho sapute da Bruno: che papà Gianni è un alcolista, e abitano in un paese di montagna tra l’aquilano e il teramano, un posto arcaico, con una chiesa medioevale meravigliosa e rottami di case tutt’intorno. Case brune di mattoni, pochi abitanti in prevalenza anziani, sterrate, dirupi, boschi e torrenti che serpeggiano gelidi su letti pietrosi. Una piazzetta con il bar, e neanche un parroco.

Certe mattine Gabriele è restio ad aprirsi e allora resta un po’ a ciondolare vicino a me contro il davanzale, con un filo di bava e lo sguardo fisso sulla punta delle dita, come intasato. C’entrerà sicuro il gran carico dei farmaci, perché è come se fosse colato a picco dentro di sé, mentre all’esterno è tutto uno svitarsi e scuotersi. Dopo un po’ barcolla perché gli viene sonno, in ottemperanza allo splendido logo che ho letto sulla t-shirt di un collega: Se mi rilasso collasso, e allora lo accompagno al tavolo e lo faccio sedere tra me e Leonardo. Lui chiude gli occhi e piomba in un sonno comatoso dal quale a volte non si riesce a svegliarlo neanche all’ora di pranzo.
E allora risuccede: riaffioro io. Accanto al corpo afflosciato di questo sfortunato, la mia testa si riempie delle perplessità che riguardano l’altra metà di me, quella che si muove sull’altro versante, e ci sto male.

Qualche volta mi mandano a tappare i buchi in altri gruppi. Quest’istituto è un’astronave e tra le sue mura c’è un po’ di tutto. Laboratori femminili, misti, di giovani, seminterni… In queste peregrinazioni mi sono trovato in situazioni surreali, senza contare che spesso gli assistenti più anziani hanno sviluppato una possessività verso i propri ragazzi, una territorialità da mastini spaventosa, e mi rendono le cose difficili. Dieci giorni fa, per dirne una, Bruno mi ha spedito in ceramica, a prendere un po’ d’argilla. Per ceramica si intendono quattro scantinati esposti alle intemperie nella parte posteriore dell’edificio. Ci modellano vasetti e producono cosette a stampo. Entro nel primo locale e una maestra dalla testa a pera con una ridicola casacca indossata come camice mi fa cenno senza sorridere che posso passare da una porta interna, se devo andare dalla collega. Io le rispondo che non so neanche chi sia, ’sta collega, e che a Bruno servirebbe un pugnetto d’argilla. La donna scuote il testone e dice che non ne ha, ma forse la collega sì, e in quel momento vedo dietro di lei un pane d’argilla quasi intatto che brilla umido su un ripiano. La tipa fa uno strano sorriso soddisfatto e mi fissa con due piccoli occhi inespressivi. Io non dico niente, ma sono impressionato dalla sua ostilità. Vero che passo per un raccomandato, ma qui tutti lo siamo. Vero che la gente di cultura non è benvista: sì, vabbè, ma non mi conosce! Perché se la prende con me?
Non è che valga la pena scervellarsi, perché si capisce che è una gallina bellicosa e frustrata, ma mi fa pensare che molti operatori siano dei disturbati, e nel corso degli anni siano scivolati dall’altra parte, siano impazziti, e i ragazzi debbano subirli. Dalla porta interna socchiusa uno scroscio di risate maschili. La voce acuta di una donna su di giri che neanche a farlo apposta bercia: «Mi avete fatta impazzire? E mo’ mi sopportate!» Altre risate. La maestra dalla testa a pera arriccia la faccia in una smorfia di disgusto. Io le do le spalle e mi infilo dalla fantomatica collega, che almeno fa ridere. Qui mi trovo catapultato in un’atmosfera tutta diversa. Tavoli di marmo dagli spigoli limati sparpagliati senza un vero criterio, invasi di barattoli, bottiglie, prototipi d’argilla. Attrezzi, tazze ricolme d’acqua, pennelli. Un casino umido, che rispecchia l’alacre allegria di ragazzoni intenti a tirar su cilindri con mattoncini e strisce grigie.
«Buongiorno». Dice la voce acuta di donna. Faccio un po’ fatica a individuarne la fonte, e alla fine scorgo, sprofondata dietro un tavolo contro una parete in penombra, una maestra anziana in piumino che mi osserva tra l’imbarazzato e l’accogliente impugnando un pennello da fard. Guardo meglio e vedo che tra riviste e manufatti ha rovesciato una bustina di trucchi, e piazzato uno specchio in cornice. Evidentemente passa il tempo a rifarsi il maquillage, e chissà perché non mi sembra sbagliato.
«Lei dev’essere…»
«Massimo».
«Massimo, certo. Però mi scusi se non mi alzo. Non ce la faccio. E ci scusi per il casino. Noi lo facciamo sempre. Cazzeggiamo, ridiamo mentre lavoriamo…» Annuisco sorridendo e non so che pensare.
«Così almeno stanno in allegria». Soggiunge un po’ cupa. Io la guardo meglio e noto che ha uno sguardo intelligente e buono, dietro la maschera sfatta di un faccino bistrato. Non so quanto sia corretto fare la matta per entrare in sintonia con i malati veri. Berciare, dire parolacce. Ma se l’effetto è questo, allora va bene. Fa bene colludere così.
«Non è che avrebbe un pezzetto d’argilla per Bruno?» Chiedo.
«Ma certo. Le faccio prendere un pane! Ah, Massimo… la sua matrigna, Margherita, è una mia cara amica», dice, e questo spiega molte cose.

Capita anche che debba andare in ambulatorio, in cappella o in lavanderia, ed è tutta una lotta con gli ascensori che mi si richiudono sulle braccia, e tutto un perdermi su pianerottoli identici e vestiboli inutili che immettono magari in uno sgabuzzino. Stanze invase da altre stanze, come scafi di navi sfondate da iceberg. Dormitori di uno squallore indescrivibile. E crepe ovunque, sui pavimenti e sulle pareti, rabberciate con il mastice. Bassi corridoi illuminati da plafoniere che si spengono a tradimento lasciandomi confuso lungo pareti grigie di manate. Ovunque, come ombre, si trascinano i ricoverati.
Il secondo piano è occupato dagli uffici e dagli ambulatori, e brilla del giallo delle lampadine come la farcitura di una torta. Il piano inferiore e quello superiore replicano tristemente se stessi con qualche variazione.
Questo istituto è un pachiderma coricato, e io mi muovo nella sua pancia.

© dicembre 2009 Caterina Falconi