Caterina Falconi, In manicomio

Natale e dintorni



Sette dicembre. Ponte dell’Immacolata. Mattino Q
uando tra due è finita, le vacanze sono valichi faticosissimi. Restare in casa da soli, senza una vera scusa per non scopare. Non riuscire a reprimere il fastidio per il compagno che ingombra l’altra stanza…
Mi chiedo che senso abbia, trascinarci così. Gattono sul letto in boxer e canottiera e acciuffo un maglione appallottolato su un angolo di materasso. Rovescio le maniche e lo infilo. Nella stanza fa un gran freddo. Stanotte il termostato è sceso più volte sotto i diciassette gradi, e la caldaia si è accesa soffiando in terrazzo.
Impilo dei cuscini e mi rimetto sotto il piumone, con le mani intrecciate dietro la nuca sulla mia torre di guanciali. Dal lucernaio al centro della stanza la bianca luce sporca caratteristica dei nostri inverni. Un romboide pallido che si deforma sul copripiumone Ikea.
Paola siede di spalle davanti a me, nell’angolo dove abbiamo piazzato il computer. Probabilmente è su Facebook, da qualche mese non fa che collegarsi.
Io non la concepisco questa modalità, questo apparecchiarsi davanti agli occhi le miserie degli altri corredate di foto, spiattellare le proprie: il tipo ha parlato con… talaltro ha cagato verde…
«Chatti Paola?» Provoco.
Lei non dice niente. Ma la sua rigidità, nella schiena un po’ scoliotica, le spalle strette, l’incantevole nuca bionda, mi risponde di farmi i cazzi miei.
«Ieri ho finito La strada, di McCarthy. Alle ultime pagine ho pianto. Lo sai chi è McCarthy, no? Ne abbiamo parlato…»
Silenzio. Questo afono contrattacco mi aizza. Se c’è una cosa che mi istiga al corpo a corpo è una femmina muta. Mia madre ci puniva entrambi così, me e mio padre, con quel suo mutismo da totem neolitico. Dio quanto l’ho odiata. E parla, stronza! Pensavo. Rimproverami. Umiliami, ma poi abbracciamoci. E invece niente. Senz’altra via d’uscita che stordirmi di cartoni, da ragazzino. O infilarmi in un libro. Finché non le passava, e non ci ricordavamo più il motivo di quel suo silenzio ricattatorio e punitivo. Le cose non dette spariscono, si confondono. Quando le verbalizziamo, le scriviamo, sappiamo che cosa stiamo contestando. La chiarezza è un atto di coraggio. E io ho sempre avuto il coraggio delle mie asserzioni. Sta qui il mio valore.
«È la storia quasi fantascientifica» proseguo raddolcito, «di un padre e un bambino che arrancano per le strade di un mondo distrutto da qualche conflitto nucleare. Non c’è più un filo d’erba verde. Non c’è più niente. Eppure loro arrancano. La morte li assedia da tutte le parti. Non sanno che mangiare. Il padre è malato, ogni azione, come spingere il carrello con le loro povere cose, scavare per trovare del cibo, accendere il fuoco, gli costa una fatica terribile… ma non fa niente senza aver prima baciato il bambino. E tutte le pagine, i dialoghi, nella loro crudezza, sono pervasi da una tenerezza, da un amore che commuovono più di un fatto vero».
Paola stacca la mano dal mouse. Percepisco la sua tensione. È indecisa se dirmi di star zitto che le do fastidio, o semplicemente alzarsi e andarsene di là. La conosco. La sua prevedibilità è il motivo principale del mio disamore per lei. Ma continuo imperterrito, più per me che per Paola, a questo punto, perché intuisco di lambire qualcosa di importante.
«Le ultime pagine sono magnifiche. Le ho trascritte sulla moleskine. Hanno un lirismo, un fulgore… Il padre muore. E io ho pianto. Sapevo che si trattava di un personaggio inventato. Eppure… che cosa lo rende tanto verosimile? Preferibile a quei pupazzi che hai lì in quel tuo cazzo di computer?»
«Il mio cazzo di computer?» Si gira verso di me rossa come arrossiscono soltanto le bionde quando si incazzano.
«Quel cazzo di computer… Lasciami finire!» Urlo. «È l’incontestabile veridicità di quei sentimenti! E scusa se ti parlo difficile, dottoressa. L’assoluta convinzione dello scrittore, la sua fede in essi. Si trattava solo di trovargli una forma! È questo che noi non abbiamo più! A noi resta l’involucro. Un guscio che si sbriciola. Perché stiamo insieme? Lo so che scopi con un altro. Ma non è questo il punto. Non me ne frega niente, anzi mi solleva… Non rimarresti sola se ti scaricassi. Il punto è la mia dignità. Il mio valore. Io sono uno che si sforza di far combaciare contenuti e forma. I contenuti sono mutevoli, le parole per dirli inadeguate. Eppure bisogna, perdio!»
«Tu straparli, Massimo. Vuoi sapere perché non ti ho ancora “scaricato”, come dici tu? Perché sono preoccupata per te. Sei strano, depresso».
«Ammesso che lo sia, non sarai tu a migliorare il mio stato. E adesso dimmi chi è».
«Perché dovrei».
«Per amore di chiarezza».
Lei esita.
E io approfitto per guardarmi intorno. Una ricognizione veloce di un presente che già sfuma in un passato irripetibile. Quando lo avrà detto… le cose non saranno più come prima, come adesso. Ritratti di Paola in bianco e nero alle pareti. Le pile dei libri contro i muri. L’armadio bianco. Una foto in cornice sul mio scrittoio, acquistata da un rigattiere a Roma anni fa, di Cesare Garboli e Natalia Ginzburg che confabulano.
«Patrizio Ricci».
«Ah!» Strido come Jim Carrey. «Quel… quel… criptogay!»
«Come scusa? Cripto che?» E le scappa da sorridere. Per un attimo sono tentato di dirle che era tutto uno scherzo, che stiamo ancora insieme, tanto è bella nella morbidezza nuova che le spiana il volto mentre sorride. Labbra rosa e chignon alla Kim Basinger.
«Uno che è gay e non sa di esserlo: criptogay, appunto. Con tutto il rispetto per chi gay lo è consapevolmente».
«Non è per niente gay!»
«Ah no? E come lo definiresti uno che parla solo di quanto ce l’ha grosso e ti chiede come ce l’hai tu e già che ci siamo come ce l’avete tutti voialtri buontemponi della comitiva?»
«Non mi risulta».
«Perché non hai un fallo da opporre al suo per dimensioni ed efficienza».
«È tutto quello che hai da dirmi? Se avessi saputo che era così facile…»
«È un criptogay».
«E tu sei infantile!»
«Ed è pure architetto. Di che cazzo parli, con un architetto?»
«Non devi necessariamente parlare!»
«Ahah! È tutto qui! Ti ha pesato tanto stare con uno che pretendeva di parlare! D’accordo Paola. Mi vesto, butto qualcosa nella valigia, e domani, quando sarai in ospedale, passo a riprendermi i libri, cercando di resistere alla tentazione di frugare nei tuoi cassetti».
Le scappa di nuovo da sorridere.
«Lo vedi, sorridi…»
«Possiamo abitare insieme ancora un po’ adesso che ci siamo chiariti. E dove andresti tu che…» E si morde un labbro.
«Che non ho un soldo? Da Margie. Non possiamo più vivere assieme. Perché, vedi, ancora mi sorridi. E questo vuol dire che ancora mi vuoi bene. Ma se resto, finirei per sfiancarmi di paranoia. E tu mi disprezzeresti. Io! Mi disprezzerei…» E avverto un terrore irrazionale e violento che mi tramortisce. È il panico, lo riconosco! Mi alzo di scatto e corro in bagno pregando di non vomitare, vagamente consapevole dello sguardo preoccupato di Paola appeso alla mia schiena.


L’olocausto è alle porte

L’olocausto è alle porte. Il Natale.
Come mi aspettavo Margie non ha fatto una piega quando le ho detto che avrei occupato la sua mansarda per un po’. Non mi ha chiesto e io non ho raccontato.
Per la verità, è molto indaffarata in questi giorni. Quasi maniacale. Erano anni che non la vedevo così, dalla morte di mio padre. È sempre lustra e in ordine, e sgambetta con la sua strana andatura rotta e beccheggiante degli ultimi mesi, da marionetta fatta, con il suo bastone nuovo dall’impugnatura d’argento…
Ultimamente è dimagrita. Gli occhi accesi di un fulgore che ho riconosciuto e rimosso. Quasi bella, e maestosa, nonostante zoppichi, barcolli e si distragga.
Mangiamo assieme, e come in passato è un vero trip. Margie propina tutte porcherie gustosissime: precotti, salumi, pizze e salse. È sempre stata attenta a non incamerare troppe calorie, ma per il resto, sulla scelta del cibo, è animata da una sorta di perversione per il malsano.
Col Natale non ha un buon rapporto. Nessuna, che sia stata per anni con uno sposato, può averlo.
Perciò ha sorriso di un sorriso sghembo alla Gabriele, quando ho impiccato un Babbo Natale di pezza al ramo di un albero del nostro giardino.
Stregatto è stato toelettato e agghindato con un fiocco di velluto rosso. Adesso, più che lo Stregatto, sembra il gatto delle sorellastre di Cenerentola.

La mansarda di Margie, dopo essere stata la mia tana negli anni dell’università, è stata usata come appartamento per gli ospiti.
Colgo le tracce del loro passaggio.
Qualche mobile è stato sostituito. E questa sensazione di oggetti spostati, di insovrapponibilità del presente ai ricordi, contribuisce al mio sbandamento.
Il mio umore sta pericolosamente scivolando verso un’inestirpabile malinconia, in una specie di cordoglio per la mia giovinezza che si spegne sulle lucine degli alberi di questo stanco Natale prossimo venturo.
Paola non l’ho più sentita.
Per la verità ha provato a telefonarmi due o tre volte, ma io non ho risposto. E lei non ha insistito.
La mattina vado in istituto. Il pomeriggio sto molto a letto. A leggere, preparare interviste, scrivere racconti.
Respiro la mia solitudine succhiando sigarette accanto alla scala a chiocciola che penetra come la punta di un enorme trapano nell’abbaino sopra la mia mansarda, il mio vecchio studio, adesso invaso di mobili rotti e scatoloni.
Il futuro incombe, dietro l’argine di queste notti inconsistenti. Gente che mi lascia. Una ragazza che arriva. Il sogno di vedere pubblicato il mio romanzo, e di diventare finalmente quell’altro che la vita e le letture hanno assemblato dentro di me.


23 dicembre. Istituto: festa di chiusura

Bruno dice che la fanno ogni anno, questa terrificante festa nella palestra, prima della chiusura dei laboratori per le vacanze di Natale.
Verso le undici arrivano dei giovani di non so quale onlus, appendono due casse di uno stereo alle spalliere e sistemano una consolle su una panca. I vari gruppi di pazienti riempiono il locale, sorvegliati da maestri flemmatici. I gravi e i claudicanti sono sistemati in fondo, sulle sedie prelevate dai refettori del piano terra. Gli altri ricoverati si spostano lentamente in piccoli branchi, come pesci, nella liquida allegria che si addensa attorno alla consolle.
I volontari onlus mettono su dei pezzi da discoteca, e il pavimento malconcio inizia a vibrare. Gli assistenti colludono con questa strana carnascialesca esaltazione, si guardano, ancheggiano, sorridono dell’impatto della musica sui corpi dei malati che saltano sul pavimento sollecitati dalle pulsazioni delle mattonelle, si dimenano in stupefacenti coreografie, assorbiti disciolti nei suoni, i volti grotteschi dilatati in uno stupore, in un climax che ne fa maschere meravigliose. Scivolo contro i materassini e le attrezzature addossati alle pareti, per controllare i ragazzi del mio gruppo mescolati agli altri in questa calca infernale. Sigismondo dorme, incredibilmente, nel frastuono di un rap. Seduto accanto a lui Gabriele sta piegato a compasso e si tappa le orecchie. La ragazza cavallo dondola in estasi. La bambina zompa furiosamente, come se la musica la folgorasse dai piedi.
C’è una sorta di primordiale eccitazione, che ci attraversa tutti come una corrente. Il piacere di condividerla senza troppo ritegno.
E in fondo cos’è questo frullare in uno stanzone squallido, attorniati da vetrate sporche e materassini, fingendo di sorvegliare i disabili che se la godono benissimo in totale autonomia? Una messinscena. Una pagliacciata. Guardo le facce dei colleghi, e le trovo laide. Sorridono con sussiego, ma sono contenti veramente, di sculettare avvinghiati tra loro e ai ragazzi. C’è qualcosa di sordido, che schiaccia i loro grugni, e interferisce con il loro contegno.
Li osservo e mi chiedo se in circostanze particolari non potrebbero perpetrare abusi.
L’idea mi disgusta. E mi avvicino a Gabriele, che schizza in piedi appena riconosce le mie scarpe, stacca le mani dalle orecchie e chiede pallidissimo: «È Natale?»
Io annuisco rassegnato.
«E torno a casa io?» Bisbiglia nel frastuono.
«Torni a casa e ci resti tanti giorni», mi trovo costretto a urlargli in un orecchio. Lui sorride storto e si capisce che vorrebbe afferrarmi per la manica del camice e trascinarmi contro un davanzale per godere di un po’ di intimità. Ma i davanzali sono tutti occupati. Le coppiette pomiciano teneramente contro i vetri lerci, sulle sedie contigue, sotto gli occhi tolleranti degli educatori.
«Tanti giorni? A casa?»
«A casa». Lo rassicuro, e penso: almeno tu ce l’hai, una casa.
Faccio un cenno a Bruno, per segnalargli che esco un attimo. Lui annuisce pacifico, e io gli sorrido: è davvero una bella persona.

Due minuti dopo, mentre siedo in una fila di poltroncine, davanti al distributore di bevande, con un bicchiere di tè bollente tra le mani, accanto a un collega scuro in volto e perduto in un dolore ottuso senza rimedio, faccio il punto della situazione.
Luisa arriva domani. Sta qualche giorno e poi riparte. Le hanno prolungato la supplenza fino a marzo, ed è una cosa che mi rattrista. Ma sono felice che passi le vacanze con me.


Vigilia. Papà Gianni

I laboratori sono chiusi. E i reparti sono sguarniti, tra le ferie e le malattie del personale. La direzione mi ha proposto di affiancare gli assistenti del maschile in questi pomeriggi di festa. I ragazzi rimasti in istituto sono pochi: i paraplegici orfani, i violenti, ma l’operatore di turno non ce la fa, da solo, a sollevare i carrozzati per docciarli, cambiargli il pannolone. Io ho accettato di buon grado di fare d’appoggio. Le ore in istituto sono un rimedio formidabile alla tensione che assorbo vedendo la gente in giro tra le vetrine illuminate.
Il Natale però si infila pure in manicomio. Con effetti anche peggiori sull’umore dei ricoverati. Molte famiglie prelevano i congiunti malati e li riscaricano frustrati in reparto dopo appena uno, due giorni. Sigismondo, ad esempio, a detta dei colleghi, torna immancabilmente il ventisei con un occhio nero. I dormitori sono piantonati da alberelli spiumati addobbati alla meglio. Due presepiucci davanti ai due refettori principali. Carte di cioccolatini nei cestini dei rifiuti nelle camerate. Frutta secca e dolciumi nella stanza degli assistenti. Per il resto tutto è fermo, e se possibile più intriso di un disperante senso di sconfitta. Solo le cuoche cercano di movimentare la situazione, sfornando timballi, sformati e persino qualche torta.
Stamattina ero in centro quando ho visto Gabriele in compagnia di un tipo sui cinquanta, che gli assomigliava vagamente. Dev’essere il padre, ho pensato, papà Gianni! Era un bell’uomo, anche se come patinato di povertà e di sbigottimento. Un montanaro di un castano polveroso, che lanciava passi troppo lunghi sul marciapiede, come se non fosse abituato a camminare in pianura. Gabriele gli arrancava vicino, con un’espressione di circostanza sulla faccia storta, di assoluta serietà e comprensione, che mi ha fatto sorridere. Mi sono detto che la felicità restituisce dignità, e subito dopo, con un tuffo al cuore, mi sono ricordato quello che Bruno mi aveva riferito, che si sospetta che la madre non voglia Gabriele tra le scatole più di qualche ora, per cui Gianni trascina il figlio in estenuanti passeggiate fino a sera, prima di prendere il treno e riportarlo a casa a dormire.

Alle nove di sera, dopo la cena, ho salutato i ragazzi uno per uno. Sigismondo insaccato in un pigiama aderente, con lo spazzolino da denti in pugno, barattolino di un metro e trenta, tutto rotondo e vagamente eccitato perché domani tonerà a casa per il Natale, mi è venuto incontro e ha appoggiato la fronte sul mio petto. L’ho baciato sulla testa.
«Buonanotte. E Buon Natale, Tondo Rotondo», gli ho augurato, mentre le sue braccia corte tentavano di congiungersi dietro la mia schiena in uno slancio d’affetto.
Gabriele è a casa sua sulle montagne. Chissà che freddo che patisce. Leonardo, che ha una famiglia affettuosa, starà strafogandosi di cibo.
Scendo le scale ed esco dalla porta a vetri. Il gelo mi lavora le gambe.


Ore 22. Nella mansarda di Margherita

Luisa mi aspetta seduta sul divano con il cappotto sulle ginocchia. Sembra stanca e ha gli occhi cerchiati. Chissà se è arrivata da tanto… Quando mi vede si alza e il cappotto le casca sui piedi. Ha schiarito i capelli. Il suo abito e il carré piastrato assorbono la fosforescenza dell’unica lampada che arde fioca in un angolo della sala.
Sembra un’apparizione.
«Luisa… perché stai al buio?» E mi precipito ad abbracciarla per accertarmi che sia vera, inciampo nel cappotto e le cado comicamente addosso.
Più tardi rotolo con lei in un letto che non riconosco. Facciamo l’amore nel buio, assordati dallo stupore e dalla voluttà. Ed evidentemente continuo a cercarla nel sonno, perché mi ritrovo dentro di lei svegliandomi di soprassalto. Un uccello, in giardino, buca la tenebra cinguettando. È quasi un’anticipazione di primavera, nell’aria tersa e gelida.
«Uccello del cazzo». Dico. E senza uscire da Luisa mi sollevo su un gomito, per vedere che ore sono nel display del cellulare sul comodino.
«Le tre».
«Sta fuori di testa, ’st’uccello». Fa Luisa roca.
Sono confuso dal calore, mentre mi muovo senza controllo e non capisco dove finisco io e cominci lei, né di chi siano questi sospiri, né come potrebbero slacciarsi queste braccia mentre sotto siamo una rovente vescica di piacere.
«Forse ha sognato…» E me ne vengo con uno strappo. «Ha sognato che era sorto il sole, e si è messo a cantare».
Abbraccio forte Luisa e mi dico che questa è la felicità perfetta.


Natale

Contro un cielo rosa come un’inquadratura di Kurosawa, nella cornice di un lucernario terribilmente simile a quello della mia mansarda, corrono batuffoli fucsia.
Una luce così sarebbe quasi normale al tramonto. Ma non saranno neanche le sette del mattino, e con uno sbadiglio la caldaia si rianima.
La sento muoversi sul lato destro del letto. A differenza di Paola, che finiva sempre per rotolarmi addosso, Luisa dorme abbracciata al bordo del materasso.
Chissà se ci siamo svegliati assieme.
«Ciao Luisa».
«Bentornato».
«Buon Natale».
«Joyeux Noel!»
E mi rotola addosso.
«È strano trovarmi qui con te». Dice sistemandosi il mio braccio attorno al collo come una sciarpa.
«Wow! E che cielo… sembra uno schermo ’sto lucernario». Sorrido e non le dico che ho pensato la stessa cosa.
«Trovarti qui con me il giorno dell’olocausto».
«Il Natale?»
«Mmh Mmh».
Si leva a sedere con uno scatto atletico. E io le guardo la schiena perfetta.
«Natale più che altro significa complicazioni, per i figli dei divorziati».
«Dimenticavo che pure tu…»
«Tanto per cominciare un sacco di giri tra parenti dislocati su opposti schieramenti. La zia attaccante. La nonna arbitro…»
«Quindi oggi…»
«Io e te facciamo come se fosse un giorno qualsiasi, e ci ritroviamo stasera per dormire assieme».
«Mi piace molto l’idea».
«Pranzerò a casa di mio padre, lo strizzacervelli. Ma prima andrò da mamma. E tu?»
«Pranzo con Margherita».
«Allora, a stasera».
Si volta, si sdraia su di me e mi bacia dissipando l’emozione della vista fugace dei suoi piccoli seni appuntiti. L’eccitazione no, quella è un ingombro tra noi.


Pranzo di Natale

«E chissà perché quando si dice fare Natale con qualcuno si intende pranzarci assieme». Dice Margherita, mescolando l’insalata. Fasciata in una maximaglia paillettata e in un paio di jeans scuri, stivali col tacco che enfatizzano la sua alta statura, è una donna inedita. Come se avesse voluto farsi bella in occasione del Natale. Un’occasione che negli ultimi anni ha evitato sistematicamente, rifiutandosi di festeggiare.
Un cero alla cannella e ai frutti di bosco arde al centro della tavola, e il riverbero le spiana le rughe.
È davvero ancora bella, Esmeralda la zingara.
La tovaglia di seta rossa. E i piatti incredibilmente coordinati. I calici sfaccettati di cristallo…
Glisso sulle posate ammucchiate sopra ai tovaglioli di carta.
«Ho sempre pensato che la nostra religione avesse un risvolto cannibale».
«L’eucaristia?»
«Esatto. Tutti questi rimandi al banchettare». Barcolla sui tacchi, e siede davanti a me.
Soffoco un moto di pena, e la guardo.
Per anni non ho avuto ritegno nel guardarla. Era la donna di mio padre, e mi conturbava. L’ammiravo e la detestavo. E le volevo bene più che all’altra, perché sentivo la sua simpatia per me. E mi trovavo sempre con gli occhi in faccia a lei. Quella bella faccia che il dolore avrebbe solcato. E che forse, segretamente, ho amato.
E oggi rifulge di nuovo, vellutata di fard e di una specie di rassegnazione.
«Li hai salutati tutti. E adesso tocca a me. Il più caro». Mi esce in un fiotto. «Stai morendo Margie?»
«Morirò senz’altro». Ribatte lei dura, abbassa gli occhi e affonda la punta del coltello nel timballo.
Cerca le parole per dirlo.
«Come te, del resto. Mangia Massimo. È buono il timballo». E dopo un po’, con una voce diversa: «Non devi angustiarti».
Fa spallucce. Ce le ha ancora all’insù, le spalle. È tutto così irreale. Dalla luce debole effusa dal faretto, alle ombre che palpitano sulle librerie, al profumo pervasivo e fruttato del cero.
Sono così stanco che non riesco a non sovrapporre a questa donna ammalata il ricordo della quarantenne che ghermì mio padre.
Del resto la stanza e la casa sono come allora.
I quadri ancora ai chiodi che papà piantò nelle pareti…
«Massimo. Io non sono triste. Non devi farti idee sbagliate. Non ho mai ragionato con la testa degli altri. La mia vita l’ho fissata con i picchetti che ho scelto. Tuo padre. La politica. La rivista. E tu. Il resto contava relativamente. Era solo questione di tempo… che mi ammalassi, dopo che Arturo se n’è andato. Tuo padre mi teneva in vita. Senza di lui è stato un decorso. Per te ho resistito più a lungo che ho potuto. Sarebbe troppo facile dire che il nostro legame è l’esito di una formazione reattiva, che hai completato il mio trionfo su quell’animale di tua madre… Scusami, ma non so mitigare l’odio per lei, neanche adesso che non c’è più. Per anni ti ho osservato, e ogni volta mi hai commossa. Un ragazzo tanto bello, con quel tuo fondo di bontà e di compassione che ti inumidiva gli occhi quando intruppavi in un dolore. Tuo padre era diverso. Era un sadico, e talvolta uno stronzo. Non dico che fosse cattivo, ma era in un guscio spinato… Però aveva qualcosa che lo rendeva il migliore di tutti. Un’intelligenza e una sensibilità impareggiabili. Era anche dolce. Bisognava solo aspettare che finisse la sua scena, che la piantasse di provocare. Io stavo zitta, e dopo un po’ la smetteva. Si arrendeva a noi. So che per un figlio è sgradevole ascoltare queste cose. Immaginare il padre nell’intimità. Ma con Arturo c’era anche questa ineluttabile necessità. Mi piaceva. Amavo il suo odore… Ma tu. Tu sei una cosa speciale. Sei anche più del figlio che avrei voluto. Sei straordinario. E non lo sai. Forse lo sospetti, lo speri, condannato dalla distrazione dei tuoi a cercare conferme nelle pubblicazioni, nell’ammirazione degli altri».
«Margie, tu mi idealizzi. Io non sono così. Dimmi che hai».
«Meningioma. È un tumore al cervello».
«È per questo che zoppichi?»
«Sì. Ho anche problemi di equilibrio, e una fettina di buio sotto gli occhi».
«Quanto tempo ti resta?»
«Prima di morire o di rincoglionirmi?»
«E non è la stessa cosa?»
«È un sollievo che tu l’abbia capito».
«Questo… e le sue implicazioni». Dico in un sussurro. La mia è la voce di un cinquantenne.
La guardo meglio. Ha ancora grandi occhi a mandorla stellati dalle fitte ciglia arcuate. Il naso appuntito. La bocca oscenamente bella. Scosta un ciuffo dalla fronte con un gesto così caratteristico che devo ingoiare un groppo di rifiuto. Cos’è questa beffa di rimanere uguali in certe cose, mentre il resto va a puttane?
Sono sopraffatto da una furiosa incredulità.
«Okay Margie. Grazie per la franchezza. Il coraggio non ti è mai mancato. Quanto tempo?»
«Un mese. Prima di iniziare a fare stranezze. Mangia, l’arrosto è buono».
Le ubbidisco. Impugno il coltello, la forchetta, taglio la carne che lei mi serve nel piatto vacillando e piegandosi di nuovo su di me, inondandomi del suo profumo.
Vorrei vomitare.
E invece porto un piccolo pezzo di carne alla bocca, e ingoio senza masticare.
Schiena dritta e gomiti fuori dal tavolo.
Sì papà.
Pulisci la bocca con il bordo del tovagliolo.

Il freddo è nella stanza. Mi gela la nuca.
Vertigini.
Un altro boccone, lo tengo in bocca senza masticare… La bocca si riempie di saliva. Mi sento svenire.
Il pensiero di Luisa mi inietta un po’ di forza.
Mastica Massimo. A bocca chiusa.
Sì papà… Papà, dove cazzo sei?


«Massimo, ancora una cosa. Questa ragazza, non so se augurarti di amarla. L’amore fa male. Guarda cosa ha fatto a noi, e a te di riflesso. Ti chiedo perdono: non ho saputo rinunciare a lui. Non lo avrei fatto neanche per un figlio mio».
«Non ti preoccupare, ottima Margherita. Le so queste cose». Biascico lentamente.
«Parto tra quindici giorni. Massimo, tu sei l’erede universale. Non provare a opporti! È tutto tuo. La villa, gli appartamenti, i titoli in banca. Così puoi smettere quel lavoro di merda. E poi ce la farai,lo so. Nel giro di una manciata di anni sarai nel pantheon degli scrittori importanti».
«Chi ti aiuterà?» La interrompo perentorio, alzandomi in piedi. A un tratto sento una rabbia che mi rianima. Non sverrò! Mi opporrò! Non le permetterò di finire così. Non prima di aver tentato una cura.
«Un’oncologa dell’associazione. Io ho aiutato lei ad abortire quando aveva diciassette anni. Una morte per un’altra».
Sto per ribattere qualcosa, e poi noto che manca tre volte una patata con la forchetta, prima di infilzarla.
Mi siedo e penso che ha ragione.

© gennaio 2010 Caterina Falconi