Caterina Falconi, In manicomio

Una promessa




3 settembre. Ore 8 e 57
Entro in istituto che mi tremano un po’ le braccia. Busso al vetro della guardiola e un Raffaello assorto nella lettura alza gli occhi dal giornale e sorride riconoscendomi. Nell’atrio si aggirano dei ricoverati. Parlottano. Si passano un bicchiere di caffè. Si sparpagliano. Succhiano sigarette. Dai refettori lamenti, cantilene. Aspri rimproveri. Un flusso sonoro discontinuo e angosciante. Tiro su col naso e mi faccio forza.
«Buongiorno Raffaello. Dovrei prendere servizio nel gruppo di Viola e Bruno. Dove devo andare?»
Raffaello si alza in piedi in segno di rispetto ed esita perplesso.
Tutta questa finezza nella guardiola di un manicomio…
«È un po’ complicato. Io l’accompagnerei, ma non posso allontanarmi…»
«Non si preoccupi. Mi dica come arrivarci».
Ho la sensazione di essere osservato e sposto lo sguardo su una piccola platea di pazienti, una specie di corte dei miracoli. Mi studiano e commentano a bassa voce. Mi sento a disagio. Non ho mai visto una simile concentrazione di gente strana. Anche i vestiti… ecco, metto a fuoco l’elemento più stridente… non è che siano indecorosi, o vecchi. Sono semplicemente inadatti a chi li indossa, riempiti male.
«Ma… aspetti. Leonardo?!» Fa Raffaello rivolto a un giovane bassissimo dalla testa a tronco di cono. Quello si stacca dal gruppo e gli va incontro trotterellando.
«Che c’è cariffimo?»
È un pistone. Mi dico, mentre assimilo la sua deformità.
«Accompagneresti il signore da Bruno?»
Il pistone mi scruta con piccoli occhi celesti incassati nel volto simpatico. Sorride scoprendo gli incisivi accavallati.
«Certo». Risponde, in un frullo di minuscole mani. E poi a me: «Come ti chiami tu?»
«Massimo». Dico curvandomi sulla sua testa rasata. Leonardo annuisce entusiasticamente, e mi porge la destra perché la prenda, e lo segua. Un gesto che devono aver fatto a lui innumerevoli volte.

Camminiamo nel corridoio che mi è già un po’ familiare. Rivedo gli scorci dei refettori, con i carrelli d’acciaio carichi dei pentoloni del latte e del tè davanti alle porte spalancate. Rivedo persino il ragazzo con la tuta, che seduto a un tavolo rotondo si mastica con dolcezza un metatarso in una profusione di bava.
Distolgo lo sguardo e rifletto sul fatto che in questo posto porte e cancelli sono sempre aperti. Come se fossimo in perenne stato d’allerta.
Fossimo? Mi includo anch’io nella loro condizione?
Della loro non mi frega. Ma per quanto mi riguarda sì… devo guardare in faccia la realtà, sto in bilico di nuovo, come quando ho incontrato Paola.
Salvo in memoria questa considerazione. Se avessi la mia Moleskine l’annoterei. Ci rimuginerò più tardi.
Su un pianerottolo si aggirano un uomo alto e un’assistente minuta in uniforme aderente e tacchi a spillo. L’uomo vortica e si tocca i capelli con piccoli colpi precisi e ripetuti.
«Sto in ansia». Dice alla donna. «Mo’ mi calmo?»
Lei gli infila una mano sotto il braccio e gira in tondo con lui.
«Ti calmi. Ti calmi». Lo rassicura. «L’ansia fa così. Viene e se ne va. E che cazzo! Ci mancherebbe, Giancarlo. Ce l’ho avuta pure io, mezz'ora fa. Poi se n’è andata».
Giancarlo inchioda e la fissa intensamente negli occhi.
«L’ansia fa così?»
«Certo. Lo sai». Gli risponde ferma lei. Intuisco tra i due un affetto collaudato. Il gran senso di protezione che l’assistente infonde, e l’uomo assorbe. Mi ignorano completamente.
«L’ansia se ne va». Ribadisce Giancarlo. E scuote la testa in un gesto liberatorio. Poi si tocca di nuovo i capelli e insieme ricominciano a girare in tondo. Per poco non mi travolgono...
«Fai passare, Gianca’». Ammonisce la donna. E mi scruta con occhi vuoti.
Certo che questa mica sta messa tanto bene… Però che bella che è.
«Ehi facete paffà!» Intima Leonardo aggressivo.
«Ciao Leo!» Gli fa la donna. E sorride. Sembra una squaw. Le braccia toniche e abbronzate enfatizzate dall’uniforme senza maniche. Gli occhi vellutati che si riempiono di interesse mentre mi mettono a fuoco.
«Ciao Meliffa!» Risponde Leonardo trasfigurato da un entusiasmo estemporaneo.
Apprendo la prima lezione: in questo posto ci sono gli operatori duri e i manipolatori.

Il gruppo di Bruno è all’apice di un’ala che frana a ridosso della collina. Un’ala vecchia suturata al resto dello stabile con ganci d’acciaio. La porta è socchiusa.
Leonardo la spalanca con una manata.
Attorno a un tavolo ovale una manciata di ricoverati. Sul ripiano fotocopie da colorare e scatole di pastelli. Un operatore di un metro e sessanta scarsi si alza lisciandosi i baffi. A me viene in mente Passepartout, del Giro del mondo in ottanta giorni, non so perché. L’ometto mi raggiunge e mi porge una mano.
«Sono Bruno». Si presenta con un sorriso.
Rassicurante. E rallentato. Mi dico io. Sospiro scaricando il cuore.
«Vai a sedere al posto tuo». Dice Bruno a Leonardo.
«Leo fa parte di questo gruppo?»
Bruno annuisce pacato. Calca le sillabe e le trascina dolcemente guardando i ragazzi, ad uno ad uno. La sua è una pacatezza finalizzata a farmi sentire accolto e a tener calmi i ricoverati. Un altro manipolatore!
Metto a fuoco la scena e penso: Questa è una cometa. Bruno è la testa, i ragazzi sono la coda. Dev’essere un tipo motivato, ’sto baffetto. Uno da sagrestia. Da associazioni di volontariato. Quando andavo al liceo per me la gente come lui era una tentazione ad arrendermi ai buoni sentimenti. Il retto agire mi avrebbe semplificato la vita. E invece io ero lì a rosolare nei miei rovelli esistenziali. Certi giorni pensavo di iscrivermi, che so, all’azione cattolica. A disarmarmi cerebralmente e magari mettermi con una di buona famiglia e con il culo tosto da palpeggiare con moderazione attraverso i vestiti. E invece poi cedevo sempre, alle lusinghe di un Pavese, alla dissolutezza pirotecnica di un De Musset.
«Massimo». Dico. E stringo la destra del mio collega. Una ragazza massiccia si alza di scatto dalla sedia, indietreggia bruscamente e inizia una specie di goffa danza scuotendo le mani davanti al viso.
«È arrivato Massimo. È arrivato Massimo». Canta. E poi ride, scoprendo i denti affollati e scheggiati. Si batte le mani davanti alla bocca in un gesto entusiasta. «È arrivato Massimo. È arrivato Massimo».
«Lei è Ada. È un’ecolalica, e qualcos’altro. Le sei simpatico».
Io annuisco e occhieggio alla porta come un coniglio impazzito.


Ore 15 e 57

«Com’è andato il primo giorno di lavoro?» Mi chiede Margherita girando il cucchiaino nella sua tazza di tè. Siamo nel suo giardino. Cespugli di lavanda in fiore chiazzano il prato alopecico.
«Mi hanno seggiato, per dirtela alla Leonardo, che è un ricoverato…»
«Prego?»
«Leonardo, che è un insufficiente mentale con tratti psicotici, di ventitré anni, mi ha detto di sedermi, di seggiarmi accanto a lui. Il collega ha approvato, e poi ha distribuito delle fotocopie da colorare. Per due ore ho strofinato pastelli su paperelle e cestini di fiori. Finché la porta si è spalancata ed è entrato un folle con gli occhi sbarrati che agitava una forchetta fregata in refettorio».
«Capisco».
«Non credo».
«E pensi di continuare in questa tua discesa agli inferi?»
«Sì».
«Non è posto per te».
«Non sei la prima che me lo dice».
Margie non risponde subito. Beve un sorso di tè. La battaglia per strappare mio padre alla moglie, vinta al decimo anno, ha lasciato i suoi segni. La morte di papà ha fatto il resto. Eppure è ancora bella. Non so come sia possibile… E dire che è anziana, implosa. Diserta il senato. Non scrive più un rigo.
Se solo avesse voluto, vent’anni fa, uscire incinta del suo amante, adesso avrebbe un figlio suo, e non me, un surrogato fradicio di ambivalenza.
«Posso immaginare. E chi è che te lo ha detto, Paola?»
«Un’amica…»
«Capisco».
Lo so che capisce. Anche lei è stata quello che la gente perbene chiama l’amica. Un ruolo molto scomodo, in provincia, per una femminista di punta. Ma Margie non ha mai avuto paura di mettersi in gioco. Anche per questo l’ammiravo, e mi arrapava così tanto da ragazzo.
«Vuoi dell’altro tè?» Chiede lei. L’ansia stride nella sua voce ancora limpida. Ha captato il mio malessere. Se li è fatti tutti i miei malesseri, da quando avevo quattordici anni. I miei occhi scivolano sul ripiano bucherellato del tavolo, raschiano il tronco della magnolia. Si impigliano in un macello di foglie schiacciate sotto un gatto obeso acciambellato tra i rami.
Stregatto.
«Quanti anni ha adesso?»
«Stregatto? Quattordici».
«Sarebbe quasi ora che…»
«Non lo dire! E smettila di provocarmi. C’è qualcosa che non va?»
«Dipende dalla direzione che prenderanno le cose…»
«Stiamo a posto allora. Quando sarai pronto a confidarti ti ascolterò. Sono troppo vecchia per torchiarti». E si alza con difficoltà, molleggiandosi e puntellandosi sul bastone. È molto appesantita dall’ultima volta che l’ho vista. Notarlo mi rattrista. Zoppica dentro casa sapendo che non la seguirò. Non ci sono mai stati convenevoli tra noi.
Forse perché non aveva figli e non sapeva come metter mano a un ginnasiale, o perché da comunista colta privilegiava un approccio scabro e diretto, e mi trattava da adulto anche a quattordici anni. Preferivo questa sua franchezza laica all’indifferenza di mia mamma e all’ipocrisia di papà.
Stregatto si agita nel sonno e rovina giù dall’albero. Mi alzo e lo raggiungo: si è rimesso faticosamente sulle zampe e scuote il testone striato.
«Stregatto, come stai? Hai sbattuto il muso?»
Lo accarezzo sulla schiena e lui si inarca per un automatismo. Poi spreme fuori due ronfettii e indolente scivola via.
Resto accosciato e ripenso alla scena che mi ha spinto qui. Avevo quindici anni. Papà non si trovava da nessuna parte, e mamma mi aveva spedito a cercarlo al circolo. Io al circolo non c’ero manco passato. Sulla mia olandese nera avevo pedalato fino alla villa di Margie.
Mi volto.
Il cancello è spalancato, come allora. Come allora la ghiaia cosparge il viale d’ingresso e brilla sotto un sole asfittico. Margherita lasciava spesso il portone aperto. Da quando in un processo aveva difeso la figlia del capo degli zingari era sotto la tutela dei peggiori delinquenti della città. Nessun ladro avrebbe osato penetrare in casa sua. Il glicine incorniciava il patio carico di fiori insopportabilmente profumati.
Varco la soglia, e attraverso il salone trafitto dalle aste di sole. Sciabolate di luce contro le pareti sporche. Le librerie. I quadri. Il disordine ristagna quieto. La casa è in silenzio. Salgo al piano di sopra. La stanza padronale è la prima dopo il pianerottolo. Mi sento umiliato dalla mia intrusione, ed entro per cancellare con la mia invadenza il dolore di sentirmi escluso.
Stanno a letto. Mio padre dorme. O forse finge di dormire per non affrontarmi. Margherita si tira su a sedere, è nuda, copre i capezzoli neri con un braccio. Io mi sento trafiggere da un’eccitazione disperata. Da una rovente voglia di morire qui, ai piedi del loro letto. Lei mi fa cenno di uscire dalla stanza e di aspettarmi di là.
Esco e socchiudo la porta dietro di me. Non so quanto tempo passa. L’ansia frulla nella mia testa. È un po’ la sensazione di quando mi interrogano, e non ho ripassato i primi capitoli. So che dovrò improvvisare.
«Mi dispiace che tu l’abbia scoperto così». Mi dice Margherita sgusciando dalla camera. Stringe in vita una vestaglia ciclamino.
«Avevo raccomandato ad Arturo di metterti al corrente, dal momento che ti aveva trascinato qui da me».
«Mettermi al corrente di cosa, signora?»
«Del fatto che io e tuo padre abbiamo una relazione». Risponde lei senza esitare. Una franchezza che mi colpisce come una cinghiata, e mi riempie di ammirazione.
«Ma io lo sapevo già, signora». Rispondo per metterla alla prova.
Lei non fa una piega.
A questa si possono confidare i segreti, penso sbattendo ticchiosamente gli occhi.

E non avrei fatto altro, da quel giorno.
Solo che le parlo criptato. Per dirimere quell’inestirpabile conflitto di fondo. Le parlo per accenni e allusioni. Ma lei mi ha sempre capito.

Mi rialzo in piedi in uno scricchiolio di giunture. Mi è sembrato di vedere Stregatto rientrare. Devo accertarmi che stia bene…
Nel salone in penombra Margherita è distesa sul divano. Il blister del Tavor su un tavolino accanto alla sua mano bianca. Chissà se si è già impasticcata. Stregatto è acciambellato sulla sua pancia.
Mi siedo su una poltrona davanti a lei. A volte penso di essere vagamente anaffettivo, ma se c’è una persona che mi intacca il cuore è Margie.
«Hai problemi di soldi, Massimo?» Mi chiede senza aprire gli occhi.
«Non solo». Rispondo arreso.
«Per quel poco che mi resta… posso darteli io».
«Lo sai che da te non li accetto».
«Appresso?»
«Appresso mi sa che con Paola non va tanto bene».
Lei non commenta.
«E sta tornando l’ansia… quella di allora».
Margherita si impietrisce. Impercettibilmente, ma lo vedo. Ogni volta si sente colpevole. E ogni volta mi ha offerto una chance, per venirne fuori.
Lo psicologo.
La rubrica nella sua rivista.
Lo studio in abbaino.
Restiamo così, nell’odore stantio della casa vecchia. Senza dirci altro.
Quando penso che si sia addormentata e sto per uscire, la sua voce mi inchioda sulla porta.
«Massimo…»
«Dimmi».
«Il tuo romanzo è molto bello. Tu hai la scrittura, per proteggerti».

Ho anche altre due cose: nuotare, e le edizioni economiche.
È una storia antica, quella tra me e i tascabili. Margie me ne metteva in mano parecchi. Abbine cura, si raccomandava, e io ero esaltato dall’indeterminatezza della sua esortazione: poteva dire tante cose. Non fargli orecchie. Non sgualcirli. Non violarli con sottolineature a penna. E soprattutto riporli, quasi intatti, dopo averli letti, nel settore più appropriato della mia traboccante libreria. O anche prima di averli letti, in attesa, sul terzo ripiano di un certo scaffale. La lettura mi ha sempre ricucito alla realtà, riempiendo i vuoti delle mie attese. Della disattenzione dei miei familiari. Sono stato sempre un ruminante. Ho sempre dovuto palleggiarmi in testa dei concetti, come i masticatori di cicche, che non stanno mai senza qualcosa in bocca. I libri fornivano la materia prima delle mie riflessioni. Mia madre il mastino a malapena ti poteva parlare, che so, di un caso clinico, discusso in aula magna. Era una donna massiccia che sarebbe stata bene a spadellare nella cucina di un autogrill. La robustezza e la prepotenza erano il suo specifico, ma lei aveva saputo farne buon uso, sgomitando negli ambienti accademici fino ad arrivare ad essere quello che era. Per un breve periodo, da ragazza, doveva aver avuto una sua effimera grazia. Allora aveva captato papà, e se lo teneva col ricatto e la prepotenza. A me guardava come a un alieno. Invidiava la mia finezza, ma nel fondo del suo cuore la disprezzava. Quando mi introduceva nel suo studio in facoltà, l’impatto con il dorso in pelle dei volumi stipati dietro la sua scrivania era quasi offensivo. Sapevo che sfogliandoli avrei potuto ammirare disegni in bianco e rosso di corpi sezionati. Di cuori cavati. Occhi enucleati. Polmoni spugnosi. Ma quel tema del corporeo finalizzato al buon funzionamento, e alla lotta prezzolata contro la patologia, era una roba da macelleria che alla fine mi annoiava.
Papà era un intellettuale interrotto. Un poeta mancato, suscettibile alle suggestioni pirotecniche dell’arte e dei romanzieri. Insegnante di lettere. Cronicamente assorto e con la testa altrove, per usare un’espressione della moglie. Le rare volte che stavamo insieme si sforzava di trasmettermi qualcosa passandomi un prodotto finito. Una videocassetta. Un tascabile. Ero io che dovevo cavarne fuori delle suggestioni. E io leggevo fino ad attizzare un’intermittente complicità con mio padre, e fino a perdermi per i sentieri splendidi della narrativa.
C’era un momento, lo ricordo bene, che il mio mondo si smagliava e scioglieva, ed io ero assorbito dalle pagine. Una fusione con le intenzioni e la nevrosi magnetica degli scrittori, una magia che era quasi un climax. Dovevano esserci degli stratagemmi, dei trucchi, per raccontare così bene, per far sporgere dalle pagine personaggi di carne. Mi chiedevo quali fossero.
Questo incanto, questo multiforme reiterato rovello interpretativo non mi ha più lasciato. Tutte le volte che la realtà mi atterrisce, io scelgo un libro come un rattuso sceglierebbe una puttana, e appicco l’incendio.


Ore 19 e 55. Altra presentazione… e che palle!

Spengo il computer. Sono quasi le otto. Cenerò al bar del circolo. La doccia l’ho fatta di ritorno da Margie. Dopo ho dormito. Quando mi sono svegliato l’ho sentita spingere, questa urgenza di scrivere. Un’oppressione retro sternale, gravativa. La mente ancora filacciosa delle suggestioni del sonno. I bocchettoni dell’inconscio schiusi. Mi sono precipitato al computer e ho descritto un mio personaggio femminile attribuendogli le movenze e le caratteristiche delle ultime donne in cui sono intruppato. L’ho fatto sedere sul letto come si è seduta Paola ieri. La schiena imperlata di doccia, la nuca bianca ornata da un ricciolo nero.
È venuto bene. Sembra sporgere…
Adesso mi sento scarico. Troppo, per angosciarmi sul serio.
Domani mandano online la mia intervista a De Silva. L’ho controllata e modificata una ventina di volte. Non mi va di rileggerla. Sbircio i post-it che incorniciano il monitor. Di cose urgenti da fare per ora non ne ho. Nelle e-mail due garbati rifiuti di grosse case editrici al mio manoscritto.
Vado a darmi una rinfrescata. La camicia per stasera è distesa sul mio letto, stirata con appretto da Margherita, assieme ad altre dieci. Le camicie a maniche lunghe sono un po’ la mia divisa d’ordinanza, quando presento d’estate, assieme ai jeans scuri e ai mocassini.
Mezz'ora dopo sono in piazza. ’Sto circolo, che poi è un locale, si affaccia su uno slargo asserragliato da palazzi fatiscenti. L’amministrazione comunale ha fatto montare un piccolo palco sotto il fascio di luce annacquata di un lampione, accanto a una pianola e a un violoncello, e ha fatto sparpagliare delle sedie di plastica intorno.
Iniziano ad arrivare dei curiosi. Il solito pubblico delle serate letterarie di fine estate qui da noi. Professoresse in formalina. Giovani problematici. Aspiranti scrittori. Coniugi incazzati. Medici affamati di svaghi incorporei e incorruttibili…
L’attrice spara sul pubblico due tette da deliquio sotto un tubino di lamé, soffia nel microfono e lo titilla con le unghie aragosta, prova dei brani a bassa voce.
L’autore conversa amabilmente in un crocchio di insopportabili.
C’è scirocco. La camicia mi si appiccica addosso.
Vado incontro a Luisa e a una sua amica bassina. Troppo stanco per sconvolgermi in modo eclatante, in una specie di resa sacrificale.
«Ciao Luisa». La saluto. Ci baciamo sulle guance e ci stacchiamo torpidamente. I suoi grandi occhi brillano febbrili.
Deve dirmi qualcosa.
«Ciao Massimo, che caldo che fa…» E si sventola il programma sul decolleté.
«Figurati io, co’ ’sta camicia». Rispondo.
L’autore si avvicina, grazie a Dio, dissipando la nostra confusione. È un meridionale simpaticissimo e logorroico. Anche lui in camicia, però con le maniche arrotolate.
«Rimboccati le maniche no?» Mi esorta Luisa, ignorandolo completamente.
«Non ce la faccio. È più forte di me. È la divisa d’ordinanza…»
Le ragazze si guardano e fanno spallucce.
«Il mio problema è diverso…» Si intromette l’autore. «Le camicie sono tutte troppo strette e troppo lunghe per me».
E accetta divertito che gli occhi di tutti convergano sulla sua pancia.
Ci viene da ridere, ma l’assessore alla cultura annuncia, sbagliando gli ausiliari, che la serata sta per incominciare.

È una specie di incontinenza. L’autore parla, io non riesco a seguirlo, e vago con lo sguardo tra le sedie sul piazzale. La mia attenzione e i miei pensieri si disperdono in tanti rivoli. Il mio amico Giulio è rintanato in un androne, siede su un gradino e parlotta con una ragazza magra in verde. Elisa mi ha detto di averlo incontrato spesso quest’estate, sempre solo e corrucciato. Deve avere qualche problema, ha detto. Io mi sono ricordato di quando era lei a vagare nelle strade arroventate, due anni fa, stravolta, in bicicletta, e non ho commentato.
Luisa è in terza fila, poco visibile dietro a due buzzicone. La serata è fiacca. L’assessore alla cultura, che di mestiere fa il grossista, si ficca le dita nel naso. Il pubblico è scarso. Facce da profani. Gli occhi accesi dalla curiosità sguaiata e labile degli ignoranti.
Butto là una domanda del mio repertorio e quando intuisco, dal tono e dalle pause, che l’autore sta finendo di rispondere, lo riattizzo con due parole e non lo sto a sentire.
Dal circolo alle mie spalle un acciottolio quasi argentino: preparano il buffet. Devo avere un’aria insofferente, e sbircio nel mio Brail.
Com’era prevedibile, dal pubblico non viene nessun intervento. Me la spiccio in tre quarti d’ora. E prima che l’ora sia finita mi ritrovo con Luisa in un vicolo oscuro parallelo alla piazza. Un gatto spruzza un muretto e si allontana furtivo.
Luisa sembra impaziente.
Mi guarda con occhi enormi. La sua bocca è un bottone nero. I fiori del suo abito leggero trascolorano in un grigio-verdastro nella scarsità della luce di un lampione lontano.
«Devo parlarti, Massimo». Ripete per la terza volta. Io non le rispondo. Non saprei che dirle. Sono contagiato dal suo parossismo, dalla sua impazienza. Incapace di sdrammatizzare, e di fingere. Siamo talmente vicini che basterebbe attirarla contro di me, sollevarle la gonna. Ma questa vicinanza, e il calore del suo corpo, che percepisco materialmente, mi atterriscono al punto che sto immobile a braccia conserte da quando siamo arrivati. Impietrito in una cotenna di inibizione.
«Mi hanno dato una supplenza di due mesi. A Vercelli. Con quello che hanno fatto alla scuola, è grasso che cola. Parto, Massimo. Ma non ce la faccio a staccarmi da te. Ho paura di quello che potresti combinare…» Risucchia l’aria in una specie di grugnito. L’ansia le spezza il respiro.
«Sono forse sei mesi che ti penso continuamente. Tutte le volte che ci incontriamo è un’emozione insopportabile. Non so se sia… Credo di essere innamorata di te».
Io avvampo. E probabilmente barcollerei se non stessi piantato sulla para dei mocassini numero quarantatre. Mi abbraccio più forte, il cuore mi pulsa negli avambracci. Abbasso gli occhi. Anch’io brucio, quando la incontro.
Sì, credo sia…
«Sono innamorata di te. Ma parto. Per darci tempo».
…amore incipiente.
«Per cinque anni sono stata la fidanzata alternativa dell’architetto Ezio Galliano. Lo sai pure tu. Lo sanno tutti. E poi è finita. Non si può fare l’altra a vita. Quando ti incontro con Paola mi monta una rabbia… Lo vedo che non siete innamorati. E lei ti tradisce… In ogni caso parto. Sto a Vercelli due mesi e poi torno». Ingoia a vuoto. Fa un passetto verso di me. Il suo alito un po’ acido m'investe, e un odore di borotalco e ciliegia.
«Lo so che probabilmente è patetico che mi dichiari così. E forse è velleitario sperare che tu ricambi… Insomma…» E mi infila una mano caldissima sotto i polsi incrociati. Il mio cuore impazzisce sotto le sue dita. Lei sorride e spinge di più. Si incupisce e continua: «…Proporti di scegliere. Hai due mesi per farlo. Se quando torno l’avrai lasciata possiamo provarci… io e te».
E si avventa a baciarmi. O sono io che mi tuffo?

© ottobre 2009 Caterina Falconi