Caterina Falconi, In manicomio

Il cronista di nera


Per tornare a casa passo sul lungomare. Fuori fa un freddo che taglia la faccia, ma da dentro la macchina non si direbbe. Il cielo è verniciato di fresco, e il sole ci si scioglie in mezzo come una gialla compressa effervescente. Sole che scarica un diffuso bagliore metallico sulla superficie del mare, la carrozzeria delle auto e le vetrine.
Guido a strappi e penso che dovrei stare più attento. Ultimamente ho evitato per un pelo troppi incidenti. È che sono risucchiato in una lenta implosione. Pensare è diventato impossibile. Niente mi entusiasma più. Neanche leggere. E dire che tra me e i testi c’è sempre stato un cortocircuito che mi faceva innamorare. Mi inchiodava alla necessità di cogliere il senso delle pagine divorate.
Ogni scrittore gira intorno alla propria ossessione. Cerca di raccontarla sempre meglio. Recensire è frugare a mani nude tra i detriti di quel dolore caratteristico, tentate di afferrare un’intuizione che comunque sfugge. Ma ultimamente, quando ci provo, non duro. Mi infiammo e distraggo, riassorbito in un’apatia impressionante.
Forse sono veramente depresso. O forse, semplicemente, si sono riattivate delle dinamiche antiche.
Quando ero ragazzino, se mi offendevano non provavo dolore. Non sentivo niente. Rispondevo a chi mi feriva con un diaframma di indifferenza. È quello che ho fatto con mia madre. E forse è quello che sto facendo con Margherita distraendomi dalla sua assenza.
Attraverso un incrocio abbacinato da una costellazione di candide linee dipinte sull’asfalto. Mi arriva la strombazzata di una Panda che avrebbe la precedenza, e che inchioda provvidenzialmente prima di sfondarmi una fiancata.
Io filo via a testa bassa sudando di vergogna, e imbocco un viale per l’interno.
Forse non è vero che non sentivo niente, e questo sordo disagio, questa eruzione di sintomi è il corrispettivo di quel pulsare cupo che da bambino mi inondava di terrore.
E adesso devo stare quindici giorni senza lavorare. Senza Gabriele, Sigismondo e Leonardo. In un altrove… da Margie che muore… che potrei riempire compilando schemi preparatori alla stesura dell’ultimo racconto dell’antologia che progetto di spedire a Nottetempo.
Per la verità, stanotte un’idea mi è venuta, mezz’ora dopo aver inghiottito l’ultimo Tavor di Margherita, mentre un rigurgito di tardive suggestioni natalizie mi inondava la testa.
C’è un momento, che precede il sonno, in cui i pensieri si rimescolano e precipitano giù per uno scarico. Io sento quando arriva, e so che finalmente un torpore chimico mi sottrae agli artigli dell’insonnia, e poi mi spengo.
In un momento così, stanotte, cammelli e renne si sono affollati attorno a una greppia in una grotta di carne.
Mmmh.
Cammelli.
E renne.
E stamattina, prima di aprire gli occhi, mi sono detto che sarebbe divertente scrivere un racconto di Natale con un cammello e una renna. Animali modellati da millenni in terre e climi diversissimi. Flemmatico il primo, nella sua pelle larga, con le gobbe flosce. Robusta la seconda, vigile, con i garretti forti, il capo ornato di temibili corna ramificate. Tutti e due programmati per attraversare distese sconfinate, roventi o ghiacciate…
Ecco un racconto surreale per chiudere l’antologia!
Un racconto surreale fonda il proprio fascino sul paradosso di una verosimiglianza scucchiaiata dal buonsenso. Sul realismo delle descrizioni dei personaggi in un contesto assurdo. E allora mi sforzo di figurami un cammello, e lo faccio così bene che mi sembra di sentire la sua puzza inconfondibile, la saliva raggrumata nelle commessure delle labbra flaccide, il tratteggio fitto dei peli lerci.
E di nuovo mi dico, come mi capita spesso negli ultimi tempi, che stranamente questa sorta di second life che per me è la scrittura è rimasta la sola parte della realtà che la mia intelligenza riesca a illuminare. Le trame, le recensioni, soggiacciono a una consequenzialità, a un controllo, anche quando favoleggio di un cammello innamorato di una renna. Fuori, gli eventi si affastellano sotto il segno dell’incompiutezza e talvolta dell’arbitrio. Il dolore è spesso squallido. E i desideri, quando si realizzano, convogliano le conseguenze in direzioni inaspettate. La mia reazione è quella di avvitarmi nelle mie ossessioni, ma quando siedo al computer la mia mente si dilata, e pensieri e fantasie fluiscono, liberati.

Davanti alla villa di Margherita un’inconfondibile figura intabarrata in un bel cappotto marrone passeggia nervosamente su e giù sbattendo le mani guantate nel tentativo di scaldarsi. Capelli gellati a ciuffetti in un piumaggio corvino. Incarnato citrino. Occhi che in un romanzo d’appendice sarebbero definiti di giaietto, sotto due cerotti di sopracciglia nerissime. Naso aquilino. Corrucciato. Piglio da monomane.
È Lorenzo Giuliani, il mio amico più fidato, cronista di nera. Dalla postura si direbbe in trip investigativo.
Alza gli occhi rapaci mentre mi infilo di sbieco in un parcheggio, un attimo dopo aver riconosciuto lo stridio dei miei freni, e si avventa sull’auto impedendomi di raddrizzarla, agguanta la maniglia dal mio lato e spalanca la portiera. Spengo il motore.
«Forza Massimo. Veloce! Non senti le sirene? Salta sulla mia macchina. È successo qualcosa di grosso. Ti spiego strada facendo».
Schizzo fuori dalla Fiesta senza curarmi di far scattare le chiusure, e lo seguo verso la sua Toyota antracite, lucida come le sue scarpe, con la corsetta ingobbita da fotografo di guerra (io), dietro al reporter (che sarebbe lui), in una simulazione che per me è una distrazione, e per Lorenzo una faccenda stramaledettamente seria.
Ci tuffiamo nella Toyota. Lorenzo mette in moto, l’auto parte con un balzo e si spegne. Lui bestemmia, poi riaccende e sgommando esce dal parcheggio. Un attimo dopo filiamo per le vie del centro cercando di individuare la provenienza delle sirene (più di una), che, bitonali e dissonanti (per citare la Ferrante… o forse era un altro scrittore) scaricano nel consueto borboglio metropolitano un perentorio senso d’allarme.
Mi stravacco sul sedile e osservo Lorenzo che guida. Il volto impenetrabile. Gli occhi e le orecchie tesi a cogliere il più piccolo suono, la minima traccia significativa che lo porteranno dritti allo scoop. Le mani guantate che so essere aristocratiche e pelose, pronte a ruotare lo sterzo nella direzione che il suo istinto e la sua rapidità da predatore indicano come la più probabile.
Nell’abitacolo c’è tanfo di sigarette, il posacenere stracolmo, riviste e raccoglitori sul sedile posteriore, una musicaccia in sottofondo, e lo stillicidio dell’avvisatore acustico che segnala, andando in fibrillazione, che la mia cintura non è allacciata.
«Allacciati la cintura, perdio!» Impreca Lorenzo.
«Capirai, co’ ’sto casino…» Ritorco, ma inserisco la linguetta nella fibbia. Lo scampanellio dell’avvisatore acustico cessa, frastornandomi con la sua brusca interruzione. Effettivamente fuori c’è il finimondo. Le sirene sono vicinissime. Il traffico ristagna. Strombazzare di clacson. Pedoni che si infilano tra le macchine in folle fendendo spirali di gas di scarico.
«Cosa sono, ambulanze?»
«Pattuglie». Fa lui seccamente. In anni di incursioni sulle scene dei più svariati crimini, ha sviluppato l’abilità di riconoscere le sirene: pompieri, 118 e forze dell’ordine stridono tutti in modo diverso.
«Niente ambulanze. E se non si temono feriti il furto è già avvenuto. Stiamo arrivando a cose fatte».
«Che creatura affascinante sei… te e la tua cognizione del misfatto». Lo sfotto, ma fondamentalmente è vero: lo ammiro. Nel suo genere, a trentadue anni, è già un maestro.
«Vaffanculo Massimo».
«Ricambio sentitamente».
Sorride, col naso che si accorcia nel profilo da romano. È un bel ragazzo. Bizzarro per un verso, come tutti quelli della nostra gente, ma per il resto il più signorile, generoso e affidabile.
«Perché piantonavi casa mia?»
«Paola mi ha detto che mediti di ammazzarti iniettandoti insulina e mi ha pregato di venire».
«E tu le hai creduto?» La mia voce è incrinata da un’emozione indefinibile: non so se essere irritato o commosso dalla preoccupazione della mia ex, agita per interposta persona.
«No. Ma tu bene non puoi stare. So tutto di Margherita».
«Hai fatto cantare il suo medico di base? L’infermiera del laboratorio analisi, o quella dell’oncologia? Forse la domestica?»
«Tutti cinguettano con me, ma Pino non c’entra».
«Dunque sai. Perché non riesco a stupirmi?»
«Perché sono sempre informato su tutto».
La sua sicumera mi irrita. Mi ricorda, per contrasto, che le mie performance nel giornalismo ultimamente lasciano a desiderare. E poi, ma questo non centra niente, che dopodomani presento il mio libro nella sala comunale…
«Sai anche che Margherita è andata a morire in una clinica di femministe incazzate?»
Lorenzo non risponde. Ha un guizzo nel volto. E un lampo subitaneo e diverso nello sguardo. Svolta bruscamente a destra e parcheggia davanti a un passo carraio. È una strada senza uscita. Curiosi che sciamano verso la vetrina sfondata di un negozio di telefonia, respinti dai carabinieri. Un agente sta interrogando un vecchio barbuto e una tettona giovane, all’apparenza gente losca. Lorenzo non mi vede e non mi sente più, sguscia dall’auto e rapido raggiunge i carabinieri. Uno gli fa un cenno di saluto, e a me viene in mente una sua frase detta in un giardino libanese, mentre tentava di far colpo su due ragazzetta: «Voi non immaginate quanto la gente abbia bisogno di parlare. Parlano tutti, dicono tutto. Devi soltanto conquistare la loro fiducia».
«Ma perché lo fai?» Gli avevo chiesto io, insinuandomi nella sua seduzione. Le ragazze mi avevano guardato. Avevo sentito i loro occhi come biglie di un flipper staccarsi da Lorenzo e convergere sul mio volto sbarbato. Ma il mio amico non se l’era presa. A quel punto era un discorso tra me e lui.
«Voglio dire, scrivi da dio, sei colto, di bell’aspetto, buona famiglia. La caporedattrice ti adora. Potresti scrivere di politica, eventi mondani, del cazzo che ti pare. Perché la cronaca nera? E con questo accanimento. Che cosa ti attrae?»
Stringo le palpebre mettendo a fuoco i particolari di quella sera di sei mesi fa, profumata di limone e colorata dei vestiti leggeri delle signorine bellocce al nostro tavolo… Sei mesi fa. Prima che la mia vita inarcasse il dorso e affiorasse dalla monotonia come un mostro preistorico, tentando di disarcionarmi…

«Dici che il furto se lo sono fatto da soli?»
«Hanno inscenato, secondo me. Il vecchio ha precedenti penali. È indebitato pure con gli ufo. E la figlia, hai visto che capra promiscua che sembra…»
«Capra promiscua. Solo tu puoi usare certe espressioni. Quindi collaborerai alle indagini. E da quando un cronista di nera, e nella fattispecie tu, Lorenzo Giuliani, collabora alle indagini?»
Lorenzo sorride. Stregatto si struscia alle sue gambe.
«Ehi, gattone. Che fame che hai». E stacca un altro pezzetto di hamburger dal panino. Lo porge delicatamente a Stregatto, che lo annusa prima di lambirlo.
«Un momento». Fa Lorenzo, e solleva il micio che si dimena furiosamente. Se lo schiaccia in grembo, lo blocca con una mano, e tenta di aprirgli la bocca con l’altra. Io vibro di disgusto.
«Poverino». Dice dopo un po’, mollando Stregatto che zompa giù atterrito e pattinando sul pavimento corre a rifugiarsi in un’altra stanza. «Non ha neanche un dente. Avevo notato che ingoiava senza masticare».
«Stregatto? Sdentato!»
«E tu che gli dai da mangiare? Frigo e dispensa sono vuoti in questa casa!»
«E chi ti ha autorizzato a ficcanasare?»
«Dovrebbe mangiare bocconcini, gourmet… Le crocchette no, quelle non vanno bene per lui… Domani andiamo a fare la spesa». Incalza glissando sulla mia indignazione.
«Oh! perdo la matrigna e la fidanzata e trovo una specie di tata Matilda al maschile esperta di gatti, che quando non mi bada è un emulo di Geronimo Stilton! Quindi, per tornare al discorso di prima, aiuti le forze dell’ordine».
«Una mano lava l’altra».
«Nel senso che ti passano le informazioni».
Annuisce. Ma la conversazione languisce. Non abbiamo voglia di parlare di quello che Lorenzo fa quando è fuori di qui.
Si alza e va a lavarsi le mani sui piatti in ammollo nel lavabo. Io ho un altro moto d’orrore.
Mi guardo intorno e cerco di fare il punto della situazione. E all’improvviso mi rendo conto di quanto fosse bella la grande cucina di Margherita, mentre abitavamo insieme, e io vi entravo a occhi bassi. I pensili, le credenze, il grande tavolo e le sedie di ciliegio. Il ripiano con i fornelli bianco latte. Le pareti aragosta e il lampadario di Murano che sembrava di ghiaccio e amarena.
Stregatto è tornato mogio mogio per finire i suo pezzetti di hamburger. Osservo anche lui, questa specie di procione domestico, dal mantello tanto fluente che si apre sul dorso in una sorta di scriminatura. La coda spessa come un colletto di pelliccia raccolta attorno alle zampe posteriori.
È vero, inghiotte senza masticare… E il pavimento di cotto sotto di lui ha questa incantevole sfumatura rosata.
Tutta la stanza tende al rosa, e sulla finestra sfavilla la decalcomania di un angelo. Un angelo liberty bellissimo. Sono anni che noto questa macchia indistinta sul vetro e la archivio tra le cose da osservare più avanti. Oggi la guardo.
Oggi, come sta accadendo sempre più spesso, un bisogno di lentezza mi trattiene per i polsi. Mi gira la testa verso le cose da osservare e la tiene ferma.
«Massimo». La voce di Lorenzo si infrange sulle volute dense della mia distrazione. Si è girato verso di me, asciuga le mani in uno scottex.
«Se vuoi, te la rintraccio in un’ora, la clinica. Nell’associazione c’è solo un’oncologa, abortista…» E mi guarda con tutta la tenerezza che i maschi si sforzano di ricacciarsi dietro gli occhi quando si trovano davanti un altro uomo.
«Lo so che ne saresti capacissimo…»
«Forse siamo ancora in tempo, a ritrovarla, a dissuaderla».
«Per vederla sgretolarsi nel giro di un mese?»
Lorenzo abbassa la testa.
«Come vuoi tu».
«No, come ha deciso lei».


7 gennaio. Dieci del mattino
Lorenzo è andato in redazione. Mi ha detto che strada facendo l’avrebbe steso lui il mio certificato a Mario Lorusso. Prima di uscire mi ha portato un caffè e un’orrenda sottomarca di brioche.
Ho dormito abbracciato a un notes. Il libro che presento stasera, Sette, sotto il cuscino. Sette come i peccati capitali, solo che si tratta di sette saggi su altrettanti scrittori.
Passerò la mattina sotto le coperte, mi dico mentre ingurgito il caffè gelato e addento l’orrenda sottomarca di brioche, a rileggere quello che ho scritto un anno fa e ho completamente dimenticato.


Mezzogiorno
Lorenzo mi ha mandato un sms. Mi dice che essendo un supplente non sono obbligato a presentare un certificato medico, e non sono soggetto a visite fiscali. Mario Lorusso dixit, e quindi posso uscire.
Alle sedici e trenta mi aspetta davanti al Conad per comprare i bocconcini a Stregatto e qualcosa per noi.
Mi alzo e vado a farmi una doccia. Ho annotato a matita ai margini del mio testo qualche considerazione. Uno schema riassuntivo sulla prima pagina: due fregnacce dovrei essere in grado di spararle stasera, sul mio lavoro. Dopo la doccia zompetto in cucina in accappatoio e sbatto una confezione di polpette surgelate nel microonde: dieci per me, e tre per lo sdentato.


Ore diciassette
All’uscita dal Conad carichi di buste di cibo per gatti, precotti per noi e articoli vari, ci imbattiamo in uno spettacolo che mi riempie di allegria: il gruppo di Viola e Bruno, badato da Anna e Andrea, si aggira per i portici del piano rialzato del centro commerciale. Di solito, quando mancano le figure di riferimento, i supplenti trascinano i gravi in brevi escursioni nella città. Fuori dell’istituto è più facile contenere i pazienti, che disciplinati e un po’ frastornati dalle luci, procedono compatti.
Andrea in testa, e Anna in fondo alla fila, costeggiano le vetrine, compiti come scolaretti e con tanto d’occhi. Sigismondo sottobraccio ad Anna, Gabriele pencolante e incollato alla schiena di Andrea.
«Ehi ragazzi!» Strillo io dal pianoterra, e mi sbraccio con un gran scuotimento di buste, scatenando un putiferio di teste che si girano a destra e a sinistra senza individuarmi, e di cozzi tra corpi flaccidi.
Preciso, chirurgico, lo sguardo di Sigismondo mi centra al primo colpo. Si stacca dal gruppo, si affaccia a un parapetto e mi saluta sornione con un cenno della mano corta.
«Lorenzo! Eccoli! I miei ragazzi. Saliamo che te li faccio conoscere».
Lorenzo annuisce incuriosito, e monta dietro di me sulla scala mobile.

Si accalcano attorno a noi e mi stringono in un abbraccio collettivo. Anche i colleghi sono contenti di vedermi. Ci scambiamo pacche sulle spalle e qualche informazione.
«Passeggiamo un po’ con loro, dai». Propongo io, e Lorenzo annuisce di nuovo con un sussiego da lord.
«Ci stavamo chiedendo, io e la collega…» mi fa Andrea, «se fosse il caso di farli scendere per la scala mobile. Ma Gabriele ha il terrore dei gradini. Mentre Sigismondo, che è un down e dovrebbe avere paura delle scale mobili, si è entusiasmato alla proposta. Solo che non si può mai sapere la reazione… E noi, siamo solo in due».
«Adesso siamo in quattro». Rettifica Lorenzo, sguainando un sorriso così buono che mi chiedo se sia lo stesso uomo che si intrufola nelle camere ardenti dei morti ammazzati per esplodere flash in faccia al cadavere prima che i parenti lo buttino fuori con percosse e insulti.
«Chiudo io la fila, con Gabriele!» Dico sentendo la mano del mio ragazzo preferito insinuarsi sotto il mio braccio. Poso le buste su una panchina e aspetto che Sigismondo e Anna mi precedano di un passo. Gli altri ragazzi formano un serpente. La bambina e Andrea davanti, e tutti gli altri dietro.
Un’allegria elettrica attraversa la formazione. Ma gli sguardi più trasgressivi e folli guizzano sui volti dei cosiddetti normali.
«Pronti? Via!» Annuncia Andrea: solleva di peso la bambina e tenendola stretta la deposita sul primo gradino della scala mobile, saltandoci simultaneamente anche lui.
A una a una le coppie alle sue spalle lo imitano. Quand’è il nostro turno io e Gabriele ci accodiamo.
Ho la sensazione di formare con te un unico corpo. E mentre i gradini scivolano verso il basso, ti sento aggrapparti a me e fremere di terrore e di eccitazione.
«Ho paura. Ho paura». Mi bisbiglia sulla spalla. Ma si sente che non è proprio così. Che si sta divertendo pure lui perché sa di essere al sicuro con me. E allora tutti assieme cominciamo a urlare di giubilo, e ridiamo sguaiatamente mentre piombiamo giù, sciamannati, grotteschi, freak, liberi e felici, sembriamo l’armata Brancaleone, e i clienti del centro commerciale si fermano a guardarci e ci additano, ma chi se ne frega di loro! Adesso stiamo meglio noi.


Ore ventuno. Presentazione «Sette»
La sala comunale è una ghiacciaia. Siedo a un lungo tavolo, davanti a una tenda ammuffita, tra due piccole torri di libri. Mi presento da solo. Lorenzo fa gli onori di casa. Ha accolto un gruppetto di intellettuali del capoluogo. La sua attuale fidanzata, bella, castana e perfetta come le precedenti, gli siede accanto in prima fila. Poi ci sono Elisa e il suo terzo marito, l’immancabile assessore alla cultura (enfio per le cene tra politici), i miei colleghi giornalisti, alcuni professori, gli allievi del corso di scrittura creativa, aspiranti scrittori e affini… La consueta fauna di intellettuali locali, raddensata attorno a me dalla curiosità, e in qualche caso dall’invidia o dall’affetto.
Io sono stranamente rilassato, messo alla prova da questa lunga giornata complicata. Accavallo le gambe e mi metto a parlare del mio libro informalmente, come farei al circolo dove sono di casa.
Guardo gli occhi neri del mio amico fraterno, ed è come se l’irruzione di un pugno di care persone nel mio dolore, pronte a tuffarsi per impedirmi di annegare, mi facesse sospettare di valere qualcosa, come persona intendo, e davanti a questo sospetto la certezza di essere un genio, alimentata dall’ammirazione del mio medico, sbiadisse…


Mezzanotte
Piccoli rapidi schiocchi dalla sveglia. Secondi come baci. Una polla di luce nell’abat-jour sul comodino. Lorenzo si è insediato nel letto di Margherita, tra le lenzuola che profumano del suo pathcouli, e forse conservano tracce del passaggio di mio padre. Non ha voluto che cambiassi la biancheria. Lo osservo appoggiato a uno stipite della porta, troppo stanco per fare dell’ironia: si è sdraiato al centro del materasso, la testa sostenuta da due cuscini, i capelli come la cotenna di un drago spinato pietrificati dal gel, le mani incrociate dietro la nuca, in un improponibile pigiama a righe abbottonato fino al collo.
Questo ragazzo è un una soluzione colloidale di buone maniere, intelligenza vivissima, astuzia, generosità e perversione…
Stregatto si è acciambellato sulla sua pancia. Ronfa rumorosamente e batte la coda innervosito dalla mia presenza.
«Perché proprio nel letto di Margherita?»
«Che ne so. Morbosità? Te lo ricordi quel film con Angelina Jolie, che faceva l’investigatrice e si stendeva nella fossa del morto ammazzato per provare le sensazioni dei suoi ultimi istanti di vita? Oh… scusa… che stronzo che sono…»
«Non sei stronzo per niente. Perché dovresti urtarmi? È la realtà. Hai reso bene».
Avanzo nella liquida penombra della stanza che ha risucchiato il colore dei mobili e adesso risucchia anche me. Siedo ai piedi del letto e infilo le mani tra le cosce.
«Me lo ricordo quello che hai detto sei mesi fa, nel giardino libanese. Lo faccio perché il torbido mi attira irresistibilmente. Non mi affascina, né mi ripugna… mi incuriosisce. E stasera credo di capirti: ti incuriosisce perché è quanto di più lontano possa esserci dalla tua natura. E ogni volta che il male conclama, tu corri incredulo a rimestarci dentro per capire come funziona…»
Lorenzo fa spallucce, ma mi scruta con uno sguardo oscuro.
Mi viene in mente una frase di Pontiggia: «l’occhio che guarda il male è più prezioso di quello che si chiude».

© marzo 2010 Caterina Falconi