Caterina Falconi, In manicomio

Impatto con la follia



4 settembre. Primo impatto con la follia
Oggi è un giorno fragile, per dirla con i Velvet. Vado al lavoro a piedi e mi sforzo di macinare considerazioni di vario tipo, ma Luisa mi sta conficcata in testa. Lei lei e ancora lei. Un pensiero che sbriciola gli altri e rinfocola sensazioni fisiche. Quando ci siamo abbracciati, ieri sera, ho riprovato lo sballo del contatto con un corpo nuovo. È sempre così, alla prima pomiciata. Ogni donna ha una sua consistenza, un suo specifico. Luisa è soffice, ci ho messo un istante ad assimilare la sua anatomia. E in quell’istante ho dimenticato la rigidità di Paola.
Non mi sento in colpa. Quella insinuazione di Luisa, sull’infedeltà della mia ragazza… potrebbe essere vera, o una sua paranoia. Ma di fatto uno scollamento tra me e Paola io lo percepisco da tempo. Non sopporto la sua propensione a banalizzare. E pure a letto… che si avventi famelica e sbrigativa su di me, mi utilizzi svuoti e si volti dall’altra parte… mi dà fastidio, ecco, a prescindere da Luisa.
Trovo più stimolante un filmato su youporn. La pornografia fa un uso appagante della fantasia, legittima la trasgressione, e su questo paradosso fonda una sorta di libertà. Per questo è avversata, dalle mogli e dai preti. Non c’è ambito meno governabile della libertà applicata al piacere. Si può tentare con i sensi di colpa, ma ci sono uomini refrattari, come me. È il vantaggio di essere figlio di divorziati. Certi miei amici soggiacciono a ménage distruttivi perché è ciò che hanno assorbito da bambini, osservando i genitori che sopportavano il fastidio reciproco per il bene dei figli. (E che bene gli hanno fatto!)
Luisa è partita stanotte. Va a vedere la casa dove abiterà. Sento che potrei amarla, questa ragazza: è un bouquet delle qualità che ammiro in una donna. Ce le ha tutte, compresa una buona, eccitante dose di imprevedibilità.
Ma il fatto che parta mi fa piacere. Ho bisogno di mettermi a fuoco. Di calmarmi. Ridefinire i miei obiettivi.
’Sta storia del lavoro poi, complica tutto. Dover lavorare con i matti, per quattro soldi… e non è il peggio. Il peggio è che, l’ho sentito da subito, questo mondo contorto mi attrae…

Per strada, tra i portici, una luce gentile intride l’acciottolato. Mi sciolgo a poco a poco. Arreso alla consequenzialità dei gesti: camminare, fermarmi all’edicola a comprare La Repubblica, andare all’istituto.
A proposito, Paola non la vedo da due giorni. Si accarezza il primario e l’aiuto sobbarcandosi i loro turni. Faccia un po’ come cazzo le pare…

In istituto mi aspetta una sorpresa: Bruno è in malattia. Lo sostituisce una tipa sui sessanta, capelli radi rosso fuoco, volto in frana, braccia da muratore.
«Buongiorno, sono Massimo, il sostituto di Viola», dico andandole incontro con la mano tesa. Lei annuisce. Conosco questo modo di assentire. Del resto il rossore alle mani, i modi, e le masse che tendono il poliestere del camice me l’hanno fatto capire subito: viene dalla campagna. Ha la stessa bonomia dei miei nonni contadini, che assentivano tolleranti a tutte le mie stranezze, purché non intaccassero il loro amor proprio, la loro rudimentale cosmogonia.
«Piacere, Anna». E mi stringe la mano.
Gli occhi dei ragazzi seduti attorno al tavolo dardeggiano dalle mie labbra alla bocca della collega. Come se le nostre parole avessero una consistenza, e fosse possibile osservarne la traiettoria.
Apprendo la seconda lezione: questi hanno una dimestichezza con le emozioni, un’abilità a leggerle dal corpo, una cognizione intuitiva degli stati d’animo, che oscurano gli analisti più esperti.
Parlano il linguaggio dell’anima, formulo soprappensiero, e una strana commozione mi ottura la gola. Non è una cosa che mi capiti spesso, di commuovermi, e mi sento impreparato e ridicolo.
Fortuna che Ada indietreggia sulla sedia con un colpo di culo, s’alza di scatto e si scuote tutta al ritmo ossessivo della sua ecolalia: «È tornato Massimo. È tornato Massimo». E batte la mani davanti al viso, come farfalle, nacchere, disperdendo il mio malessere.
«Siediti Ada!» Ordina perentoria Anna, avvampando. Ada si blocca, sbatte gli occhi cisposi e stellati e torna al suo posto.
Io mi guardo rapidamente attorno, ritrovo il televisore su una mensola ad angolo, sintonizzato a basso volume su un programma per casalinghe. I due scaffali, uno di truciolato e l’altro di metallo, affiancati contro una parete spoglia e stipati di materiale didattico. L’armadietto chiuso a chiave sulla parete opposta. Le crepe nel muro e nel pavimento, che a detta di Bruno il terremoto ha approfondito in modo preoccupante. E dietro i vetri e le sbarre delle finestre, sul davanzale esterno, la serie dei vasetti con le piantine che stiracchiano nel sole autunnale le esili protuberanze spinose.
«Ciao Maffimo!» Fa Leonardo richiamando la mia attenzione. Il sorriso esplosivo. I piccoli occhi celesti dilatati dall’entusiasmo. Batte una mano sullo schienale della sedia vuota accanto alla sua.
«Feggiati vicino a me!»
«Ha fatto la guardia alla tua sedia come nu mastin». Scherza Anna ravviando una ciocca dietro l’orecchio. Abbassa gli occhi, e le piccole chiazze rosse che sbiadivano sulle sue guance tornano ad allargarsi.
Per una breve stagione non deve essere stata male, penso. E in quel momento un urlo da accoltellato, da morente, rimbalza nel corridoio dietro la porta socchiusa. «È la miaaaa!», seguito da una raffica di passi e dal tonfo della porta aperta con una spallata. Il mio cuore si ferma, ed esplode alla vista di un ragazzo stravolto che irrompe nella stanza sbandando e tendendo davanti a sé dei bastoncini colorati, come se fossero quei pezzetti di legno a trascinarlo. Gli occhi sporgenti. La faccia contorta. Un assistente agilissimo gli sta alle calcagna, lo afferra, lo perde, e dopo un frenetico inseguimento attorno al tavolo in un coro di urli, lo inchioda con uno spintone contro il muro.
Leonardo balza in piedi e scuotendo i pugni fa il tifo per il più forte: «Broccalo! Broccalo! Fto figlio di puttana!»
Anna si stacca dal tavolo lenta e inesorabile, va dal collega e con una mano sola lo aiuta a tenere fermi i polsi del ragazzo. Con l’altra gesticola in direzione del gruppo: «Buoni! Zitti voi!»
Per tutta risposta un down anziano, fino ad un istante prima incredibilmente assopito in una colata di masse grasse, doppio mento e occhi a mandorla sigillati, si sveglia di soprassalto ed emette una specie di ruggito. La ragazza cavallo nitrisce. Quella detta “la bambina” tuffa la faccia sulle braccia conserte in un moto di terrore. Io mi ritrovo in piedi, e rinculo, quando Ada schiaffeggia il ragazzo riacciuffato, stupendo se stessa per prima.
«Non si rubano i giochi degli altri, Gabriele!»
L’assistente agile, approfittando della confusione, strappa i legnetti dalle mani di Gabriele, che oppone una debole resistenza e poi si affloscia con un gemito che strazia.
«Facciamolo sedere», dice Anna, e trascinano il poveretto fino a una sedia con i braccioli. I ragazzi rumoreggiano. Il down ruggisce contagiato dal parossismo generale, fa una corsetta attorno al tavolo e si strappa la camicia come Caifa.
«Siediti!» Intimano all’unisono gli assistenti a Gabriele.
«È la mia! Ridammela!» Protesta lui.
«Siediti!» E lo spingono sulla poltrona. Ma Gabriele non piega le gambe.
Io sono allibito e affascinato. Questo luogo è peggio di un composto instabile. È nitroglicerina. L’apoteosi dell’imprevedibile…
All’ennesima spinta le ginocchia di Gabriele cedono e lui in un’ovazione piomba nella poltroncina. Poi Anna gli si siede addosso, e lo blocca con la sua mole bucolica, con le sue chiappe di ferro che, ne sono certo adesso, non hanno conosciuto alcun fremito.
Una gran culata che rima col silenzio un po’ logoro che scende di nuovo ad ammantare tutto. Il down torna a sedere, per evitare che adesso se la prendano con lui. Il brusio si spegne, e tutti piegano la testa sui fogli da colorare e riempire.
È incredibile! Come se non fosse successo niente.
L’assistente agile si ravvia i capelli corvini, posa una mano elegante sulla spalla del povero Gabriele, e mi fa una specie di saluto militare.
«Sono Andrea», si presenta. «Lei deve essere Massimo. Non si lasci impressionare. Gabriele è il caso più grave che abbiamo. Non è che sia cattivo, anzi, ma è assolutamente matto. Matto come un cavallo. Quando gli prendono le fisse, che deve rubare i giochini dei compagni, o le sigarette, o correre a masturbarsi, non capisce più niente e scappa. Travolge i compagni. Attraversa la strada senza guardare. Precipita dalle scale. Insomma diventa pericoloso per sé e per gli altri. Non è che sia sempre così, va a periodi. Stanotte non ha dormito mai. Gli hanno dato dei calmanti, ma non è servito. Stamattina gli hanno fatto una puntura, ma ancora non gli fa effetto. È assuefatto ai farmaci. Abbiamo chiesto ai medici se potevano dargli un altro aiutino… ma ci hanno risposto che, teoricamente» e sgrana gli occhi da bambola per sottolineare la gravità di quanto sta per dirmi «un altro milligrammo di psicofarmaci e può schiodare». Sorride, mi fissa e perde il filo.
Andiamo bene.
«Lei noterà che appena si rilassa tende a collassare… Per cui adesso me ne vado, che avrei dovuto timbrare un’ora fa, e tra mezz’ora ho le prove con la band. E voi aspettate che i calmanti agiscano». Detto questo carezza con autentica dolcezza la pelata di Gabriele, spedisce un bacio alla collega sulla punta delle dita, e se ne va zompettando sulle Converse immacolate.
Gabriele spara mezzo sorriso e si addormenta di colpo.
E io resto a interrogarmi sul nesso tra il «per cui adesso me ne vado» e la propensione a collassare del ragazzo.
Passa mezz’ora. Un’ora. Anna mi parla del nipote che fa il liceo. Dei professori del nipote. Delle materie letterarie secondo il nipote. Cerca argomenti che sa essermi consoni, per dovere di ospitalità, per cortesia. Non mi dispiace questa donna modesta che sa di essere tale, e dopo un po’ si alza dalle ginocchia di Gabriele, pietrificato in un sonno da fiaba, e torna a sedere accanto al down, che evidentemente è il suo preferito. Dal canto mio mi sforzo di non farle pesare la nostra diversità. Tra noi un labile tappeto di parole pregnanti, univoche e semplici. Sul tappeto i ragazzi attorno al tavolo, affidati alla nostra ignoranza, alla nostra capacità di improvvisare e al nostro buon cuore. Il cielo dietro le sbarre è bianco. Luce stanca, che non scalda.
Osservo i ragazzi a uno ad uno. Leonardo che colora tenendo la punta della lingua fra i denti. La bambina che infila ossessivamente dei chiodini su una tavoletta traforata. La ragazza cavallo che cerchia concentrata tutti i puntini delle i sulla pagina di una rivista. Un Gargamella taciturno che riempie un foglio bianco con un tratteggio fitto. Ada che rovescia compulsivamente una scatola di colori a cera e dondolando la riempie di nuovo. E il down, che è indiscutibilmente il più simpatico, e adesso è sveglio come un barbagianni sul ramo a mezzanotte, e punta su di me i suoi occhietti allegri.
Anna segue la direzione del mio sguardo, per compiacermi va dietro al barbagianni e gli prende la faccia tra le mani.
«Lui è Sigismondo», fa, e stampa un bacio sulla bionda testa rotonda del paziente. Gli occhi di Sigismondo si dilatano di piacere. Annuisce con un grugnito. Noto che neanche lui ha il collo, o meglio ne ha pochissimo, e paradossalmente indossa una camicia dall’ampio colletto a punta.
«Non ha collo», scherzo con Anna, passandomi l’indice sotto il mento.
Anna ride. «Sarà per questo che ha la fissa delle collane», risponde, e le sue mani scendono ad aprire la camicia strappata, in un gesto che fatto da una bella donna sarebbe molto conturbante, e svela la decina di collane coloratissime, laccetti e catenine di foggia varia sul petto glabro di Sigismondo, che annuisce orgoglioso.
«È la mia». Un bisbiglio e un movimento dalla sedia di Gabriele.
Ancora!
Si è svegliato e mi guarda confuso con la testa piegata e un sopracciglio alzato. Ecco a chi somiglia: a Marty Feldman.
«È la mia?!» Mi chiede quasi, senza convinzione. E mi penetra con occhi insopportabilmente intensi. Gli vado vicino.
«Che cosa è la tua?» Gli chiedo posandogli una mano sul braccio.
«Il gioco». Risponde, e rotea il polso in una complicata stereotipia. «È la miaaa!!» E si inarca improvvisamente sulla sedia.
«Ohhh!!!» Lo ammonisce Anna dall’altra parte del tavolo. Gabriele ammutolisce e si riaffloscia.
«Come ti chiami?» Gli chiedo per prolungare il contatto. Non mi risponde. Di nuovo quel bagno nel celeste elettrico dei suoi occhi sporgenti. Nella sua follia. È come esporsi a un vento. Rabbrividisco.
«Ce l’hai la mamma?»
«Papà Gianni».
«Ce l’ha. Ce l’ha». Bercia Anna. «Solo che non se ne frega niente del figlio. Se non fosse per il padre, che lo viene a prendere, lo porta a spasso…»
Mi chiedo come si possa parlare così, di una simile tragedia, sulla testa dell’interessato. Ma Gabriele non fa una piega. Reclina ulteriormente il volto e approfondisce il sorriso sghembo.
«Papà Gianni?»
«Papà Gianni». Arrossisce d’affetto e svita il polso in una convulsa ripetizione della sua stereotipia.
«Dove ti porta a spasso?»
«Alla stazione. Mi compra il panino col prosciutto».
«Ti compra il panino?»
«E le sigarette». E si abbassa incurvandosi di scatto come un uccello. Avvicina la testa alla mia. Le nostre fronti si sfiorano. Chissà se ha i pidocchi.
«Quanti anni hai?»
Ride ancora. Poi si adombra. Forse, azzardo, non è abituato alla contentezza, gli fa paura.
«Ho paura». Dice infatti. Io annuisco.
«Non lo sa! Ha trentun anni!» Si intromette Anna, che inforcati degli occhialetti da presbite sfoglia una rivista nel silenzio dei ragazzi intenti alle loro ripetitive e inutili attività.
«Come me! Hai la mia età!»
«La mia età?»
«Non la tua. La mia!»
Ride di nuovo compiaciuto, prima di alzarsi di scatto, come se avesse visto un serpente.
Troppa felicità.
«Devo fare la cacca!» E schizza fuori dalla sedia con un’agilità da scimmia. Con uno scatto altrettanto bestiale Anna lo precede davanti alla porta. Colluttano un po’.
«Tu non devi andare al bagno. Vai a farti una sega!»
«Sìii. La seghina! La seghina!» Ammette con foga Gabriele.
Io mi precipito a separarli, chiedendomi perché mai ’sto disgraziato non dovrebbe farsi una sega, che lo calmerebbe pure… ma lui si divincola e involontariamente colpisce con violenza il naso di Anna. Lei si tampona con la manica del camice e gli assesta uno spintone.
«Vai dove cazzo ti pare!» Grida arresa.
«La seghina». Bisbiglia Gabriele per giustificarsi, strisciando mogio verso il bagno.
Resto a guardare la sua schiena curva che si infila in una porta di ferro. Anna mi chiede di tenerlo d’occhio. Annuisco senza voltarmi. Dietro di me si raddensano un silenzio indignato e la perplessità dei ragazzi. Probabilmente Anna si sarebbe aspettata un intervento diverso e risolutivo da un uomo. Una cosa tipo afferri il matto lo sbatti in una sedia e incombi finché non passa la crisi.
Cazzo me ne frega delle sue aspettative…
Il cellulare vibra nella tasca dei miei jeans, lo estraggo che è ancora illuminato. C’è un sms di Luisa. Tutto il mio essere è risucchiato dal minuscolo schermo fosforescente.
Esco in corridoio e leggo:
Ciao Massimo. Non dovevo dirti quella cosa sull’infedeltà di Paola. In realtà è solo una voce che mi è giunta all’orecchio. Sarebbe troppo facile che tu la lasciassi per questo. Allora io diventerei un ripiego. La casa è molto bella. Alla periferia di Vercelli. C’è qualcosa delle atmosfere di Pupi Avati. Stai bene.
Mi viene da piangere. Per non dare spettacolo di me, dopo la prova fallita agli occhi rusticani e impietosi di Anna, accampo la prima scusa che mi viene: «Vado a controllare che fa Gabriele in bagno». Grido dal corridoio.

Sta seduto sul water. Il pene semieretto pinzato tra il pollice e l’indice. Un nastro di luce da una finestrella in alto illumina la punta delle sue scarpe spellate, la fisarmonica dei pantaloni abbassati, le ginocchia ossute.
«Non mi esce», mi fa con occhi imploranti. Non so che rispondere. Probabilmente gli psicofarmaci gli danno un’anorgasmia.
«Povero Gabriele», gli dico. «Sei talmente disabituato a star bene, a una parola gentile, che ti atterrisci o ti arrapi. E poi non riesci neanche a venirtene…»
Lui mi guarda, il pene che si affloscia nella bustina di pelle tesa tra le dita, e non capisce.
Sente la mia compassione però, perché si commuove. E io provo la netta sconvolgente sensazione che non ci sia più scampo, per noi.


Pomeriggio

Ho bisogno di camminare. Da Margie non ritorno. C’è qualcosa che mi disturba, se ripenso ai nostri discorsi di ieri. Qualcosa che… tornerà a galla come un morto annegato, uno di questi giorni, lo so. Ma adesso non voglio correre il rischio di ricordare. Vado al mare.
Fa un caldo… La gente è in costume, fa il bagno.
Io passeggio sulla riva con i sandali in mano. Capire quanto sia esposto Gabriele alle proprie emozioni mi ha ricordato come stavo messo io due anni fa. Persino mentre assumevo la paroxetina, per rintuzzare gli attacchi di panico, mi bastava leggere una frase ad effetto, ammirare una foto in un giornale, per sentirmi in pericolo. Avevo sviluppato un’iper reattività percettiva e sensoriale, una sorta di allergia psichica alla realtà. Tutto mi arrivava amplificato, i dettagli mi sconvolgevano, e non riconoscevo più neanche i luoghi che abitavo. Era questo l’aspetto più terrificante della mia depressione: guardarmi attorno e sentire che la casa, il vicolo, il viale e tutto il resto erano come lo scenario di un altro materiale. Percepirmi come un ologramma già proiettato in una dimensione intermedia terribilmente simile alla morte.
Margie mi aveva praticamente trascinato da uno psicologo, un analista freudiano con la bocca larga, la pelata opaca e due occhi sfavillanti di intelligenza. Uno di quelli che Elisa Rovello avrebbe sicuramente trovato irresistibilmente affascinanti, e sbattuto in un racconto. «Per te ci vuole un freudiano», aveva sentenziato. «Un giovane cerebrale come te non può praticare altre strade».
E aveva ragione: l’analista mi salvò la vita.
Ma fu Paola che mi rese la gioia.
La conobbi che stava sostituendo Pino, il mio amico e medico. Si era appena laureata ed era la ragazza del figlio del dottore. Io andai a farmi riprescrivere il Daparox e la trovai seduta dietro la scrivania che avevo ormai interiorizzato come un’espansione del fisico longilineo di Pino, e questo impatto, questa stranezza, mi scaraventarono in una insicurezza che mi disarmò ed espose completamente. Lei mi conosceva. Leggeva il mensile e le riviste per le quali scrivo. Seguiva addirittura una mia trasmissione su una tivù locale. Mi trovava brillante e carino, e me lo disse.
Io trovavo lei una strafiga tettona rassicurante e impalmabile, ma non lo dissi.
Tre sere dopo scopavamo.
Fu lei a prendere l’iniziativa. Ma fui io a persuaderla a vivere assieme. Lavorai a questo progetto come un castoro, rosicchiando le sue resistenze, manipolandola, insinuandomi nella sua psiche semplificata dalla formazione scientifica.
Paola era lusingata dall’essersi accaparrata un giovane intellettuale rampante, ed io ero rassicurato dalla sua competenza. Ma le dinamiche nelle coppie sono sempre filacciose e contaminate, e se tra noi ha funzionato così a lungo è perché entrambi avevamo bisogno di posteggiare in un ménage sufficientemente gratificante, in attesa di evolvere. I farmaci resettarono la biochimica del mio cervello, ripresi a pubblicare più di prima, e lasciai l’analista rassicurandolo sul mio futuro prossimo, avevo trovato un modo più piacevole ed efficace di stare in equilibrio: scrivere racconti!
Firmandola con uno pseudonimo spedii una cosetta a puntate a una rivista, che fu prontamente pubblicata. Era di questi tempi… settembre… ottobre…
Socchiudo gli occhi sul celeste fondente del mare. I gabbiani perlustrano l’acqua volando in formazione. Di tanto in tanto degli uccelli si abbassano e afferrano col becco un pesce che nuota in superficie. All’apparenza è una normale bella giornata di settembre. Ma qualche scompiglio sta accadendo tra cielo e mare, se i branchi affiorano e i gabbiani si tuffano numerosi a ghermirli. Una carneficina che rulla in sordina dietro i miei pensieri…
A un tratto ricordo quello che non volevo riaffiorasse!
Per quel poco che mi resta!
Non si riferiva al denaro. Sta male! Margie è malata.
Piombo a sedere sulla sabbia…
Le resta poco da vivere!
…e scoppio in un pianto irrefrenabile.

© novembre 2009 Caterina Falconi