Francesca Violi, Un anno a Casale Nuovo

Ciò che resta sulla neve


Il sole basso fa scintillare la distesa di neve e accende i colori dei tappeti. Prima una vista del genere mi avrebbe incantato... Avrei scattato una foto dopo l'altra, facendo a gara di definizioni fantastiche con Guido: è un aeroporto per tappeti volanti chiuso per il maltempo… no, un'installazione di Hadiya Ali… no, è solo un sogno della nostra casa!
Invece sto qui davanti alla finestra con lo stomaco chiuso. Mi stringo nel golf e scaldo il viso sul vapore profumato che sale dalla tazza; prima una guancia, poi l'altra. Ha smesso da poco di nevicare: stamattina ci siamo svegliati che fuori era tutto bianco, e veniva giù ancora forte; la casa sembrava ancora più isolata e silenziosa. Guido ha telefonato all'agenzia che avrebbe lavorato da casa. In verità è rimasto tutto il tempo sul divano. Mi sembra di non averlo mai visto che così, disteso sulla schiena con una rivista tra le mani, i polsi magri che sbucano dalle maniche slabbrate dell'eterno maglione blu.
Per pranzo c'era la burrata e l'ha assaggiata appena. Ma quando è uscito il sole si è alzato di scatto e ha dichiarato che ecco, avrebbe finalmente fatto la cosa dei tappeti! E così li ha portati fuori uno per uno e li ha stesi a faccia in giù sulla neve fresca. Accosciato come un penitente, senza giacca, senza guanti, ora picchietta ritmicamente il retro del gabbeh azzurro. Pare, ha scoperto da poco, che sia un metodo di pulizia tradizionale molto efficace. La polvere rimane attaccata alla neve.
So che rimarrà fuori coi tappeti finché non li avrà ripassati tutti e nove con la stessa, ossessiva cura. A quel punto sarà praticamente semicongelato, e starà facendo buio: allora partirà la nostra routine serale. Un paio di vodka tonic belli carichi, cenare mezzi storditi e con scarso appetito, leggere sul divano bevendo vino. Io che mi alzo e dico: vado a letto; lui che rimane sveglio fino a tardi a straziarsi di musica in cuffia o, più spesso, mi segue e ci corichiamo insieme. Sarà una di quelle notti che si sta ognuno coi vuoti suoi, o mi stringerà come ci si aggrappa a un salvagente? I corpi hanno una memoria spietata e il mio, quando aderisce alle ossa di Guido, si accorge subito se qualcosa è cambiato dall'ultima volta. Un crinale leggermente più in rilievo, una sporgenza più affilata, l'assottigliarsi dello strato di carne sopra una certa cresta, innescano subito una cascata di quanti: quanti chili ha perso, da quanti giorni non cuciniamo un pasto caldo, quante bottiglie nella raccolta del vetro questa settimana; da quanti mesi sto ben attenta a non sfiorarlo tra le gambe, neanche per sbaglio, per non sperimentare una volta di più la sicura assenza di un fremito, di un segno qualsiasi di vita.
A volte ho persino pensato che sarebbe stato meglio se non l'avesse lasciata, che continuasse a stare con tutte e due: in questo modo è qui, ma non è più intero. Si è strappato un pezzo, malamente, e dal buco continua a sgocciolare via tutto quello che ci puoi mettere dentro.
Il primo tappeto è stato il gabbeh: «Il regalo di compleanno per la nostra casa»; poi l'anno dopo abbiamo preso un kilim.
Al terzo, un bakhtiari che infatti di tacito accordo abbiamo recentemente esiliato nella stanza degli ospiti, lui stava già con lei. Io non sospettavo: studiavo i fiori stilizzati di quel giardino di lana e volevo avere un bambino, addirittura! Poi Guido ha smesso di toccarmi, e presto avrei scoperto tutto.
Il ritmo degli acquisti è aumentato. Più l'amava, più la desiderava, più i tappeti si facevano particolari e preziosi. Era sempre lui a proporre di prenderne uno nuovo, come per ribadire che non abbandonava me e la nostra casa, che pur dilaniato, risucchiato via da una forza superiore, sapeva (sperava) che prima o poi sarebbe tornato tutto a posto.
L'ha lasciata dopo quasi tre anni di strage. Dopo due mafrash, l'armeno dal vello lungo, un curioso vaghireh turco, un cinese blu e panna, e il piccolo tibetano antico con la tigre che teniamo ai piedi del letto.
Lei se n'è andata da qualche parte in nord Europa; noi possiamo tornare a vivere: almeno questo è il piano.
A maggio faremo un viaggio in Pakistan. Tra l'altro ci sono questi tappeti di guerra afghani, dove al posto dei motivi tradizionali sono raffigurati kalashnikov, elicotteri, carri armati. Ci piacerebbe averne uno.
Sono sicura che questo strazio finirà. Ma a quel punto, cosa sarà rimasto?
«Ho finito!» mi urla Guido dall'ingresso. «Vieni giù a darmi una mano?» In mano ho la tazza ancora piena, fredda.
«Arrivo».
Il sole è tramontato. Sulla neve azzurra restano i nove rettangoli più scuri, ombre fatte di polvere, pelucchi, scaglie di pelle e gli altri minuscoli detriti della vita domestica.
«Dài, scendi! Vieni a vedere come sono belli così puliti!»
Appoggio la tazza sul comodino ed esco dalla stanza quasi correndo.

© marzo 2010 Francesca Violi