Francesca Violi, Un anno a Casale Nuovo

Dopo la corsa


Lo sciabordio del fiume. Un lampione lontano si accende sfarfallando.
Battono l'asfalto all'unisono le mie suole e le sue; e questo è un buon segno, mi dico speranzosa.
Imbocchiamo la curva: nessuno in vista. Il percorso è quasi sommerso dalle acacie. È stata un'impressione o proprio qui l'ultima volta mi ha sfiorato la mano? Corro, in attesa di qualcosa, ma la sua andatura, la nostra, resta inesorabilmente regolare: tum tum, tum tum, ogni passo in avanti una possibilità in meno. Tum tum.
Il grido di un uccello, forse un fagiano.
Una bicicletta ci supera sibilando, e ormai siamo fuori dal folto: ecco la radura brulicante di gente, il chiosco, il parcheggio, e le gambe mi si fanno pesanti.
Lo lascio andare via così anche stavolta? Torno all'insalatona che mi aspetta in frigo? Il songino, il crocchiare dei finocchi, ogni tanto la sorpresa di un gheriglio di noce. E domani sera di nuovo qui a correre avanti e indietro, a farmi mangiare dalle zanzare sperando di incontrarlo per caso.
La voce se ne esce praticamente da sola: «Che sete, ti va di bere qualcosa?»; poi subito aggiungo: «Se non hai fretta di... Cioè, se non devi andare...» Se non devi andare da quella tua troietta, insomma. Non l'ho mai vista, ma la immagino bella come lui; e altrettanto giovane, ovviamente.
«Uhm, no, non ho fretta» risponde. «Poi Isa non c'è in questi giorni».
La scarica di adrenalina in petto cerca di esplodere su per la gola in una risata: mi controllo invece e dichiaro con convinzione che ho proprio voglia di un bell'aperitivo.

Le patatine sono un po' molli. Per via dell'umidità.
Come sempre, parliamo soprattutto di lavoro. Gioco in casa: brillante, spiritosa, competente (comunque di che altro potremmo parlare?), spettegolo un po' dei soci, infilo un aneddoto succoso su un cliente, poi mi concentro sul settore progettazione, dove sta lui, che infatti annuisce interessato.
Nell'angolo destro della bocca ha una briciola di patatina. Immagino di leccarla via. Di infilargli la lingua tra le labbra salate, e passarla lentamente da una parte all'altra. Sento un calore in fondo alla pancia, poi tra le gambe.
Distolgo lo sguardo e ingoio un sorso di mojito.

Le zanzare mi hanno divorato i polpacci, e lui si è allontanato per telefonare, indovina a chi.
I bicchieri sono quasi vuoti e mi gira un po' la testa: devo pensare in fretta, prima che la situazione mi scappi di mano. Ne ordino altri due?
O lo invito a cena. A casa.
Potrebbe dire di no, e allora fine.
Però.
Secondo me gli piaccio, almeno un po': o sarebbe già andato via. E poi si vede che non è innamorato della sua ragazza.
Di sicuro il fatto del lavoro... Be', se fossi un uomo sarebbe normalissimo. È attratto dalle donne di polso? Mi ammira? Sotto sotto spera in una spinta? Sono sicura che non lo sa bene neanche lui. È chiaro che non ci fidanziamo mica. Però potrei passare una bella serata, tanto per cambiare.
Ma mi conosco.
Mi vedo, domani in ditta cercare tutte le scuse per passare da progettazione.
Seduta alla scrivania, la bocca asciutta, rievocare i dettagli più caldi della nottata.
Inventariare le banali affettuosità che si possono scambiare per qualcosa di più di un post-scopata civile (mi ha chiamato tesoro, e quella carezza…), ripassare e perfezionare la lista davanti alla macchinetta del caffè (ci siamo addormentati abbracciati…) sperando in un sms o in uno sguardo.
E domani sera, al più tardi dopodomani, sarò qui sperando di rivederlo.
Mi torna in mente all'improvviso l'anatroccolo. Da quanto tempo non ci pensavo? Eravamo proprio qui vicino, io e papà, dove c'era il laghetto di pesca sportiva. Ci andavamo tutti i sabati: mi aveva comprato una piccola canna da pesca e una cassettina. Adoravo accompagnarlo; infilavo da sola i bigattini sull'amo e ne ero molto fiera. Anche delle mie prede: alborelle e minuscoli persici spinosi, impossibili da slamare, che a sera davo in pasto alle anatre o ai gatti. Quella volta era caldo, le anatre avevano i piccoli: uno accorreva ogni volta che lanciavo la lenza in acqua. Ho cominciato a stuzzicarlo, apposta. Papà era al baracchino. Sapevo che a un certo punto l'anatroccolo avrebbe finito col beccare il galleggiante, o l'esca, e che non sarebbe stata una bella cosa. Finché è rimasto attaccato. La canna vibrava e si piegava forte, non come coi pesciolini a cui ero abituata: l'anatroccolo strillava disperato, sbatteva le ali. Alla fine è tornato papà e l'ha tirato a riva. Aveva l'amo conficcato all'interno del becco, sotto la lingua. Manovrando per liberarlo, tra una bestemmia e l'altra, papà continuava a ripetere: «Mai visto una roba del genere. Ma come ha fatto...»
Io stavo zitta. Parecchie bestemmie dopo l'anatroccolo è stato liberato, ed è filato dai suoi fratelli.
Tempo qualche settimana ho smesso di andare al laghetto.
La consapevolezza è una dote sopravvalutata.
Sta tornando al tavolo, io scolo il ghiaccio rimasto nel bicchiere e mi alzo di slancio: «Senti, io ho una fame, devo mangiare qualcosa, e poi le zanzare! Abito qua dietro, ti offro una pasta al pesto, pesto vero, eh, me lo porta ogni mese un'amica da Oneglia».
Pago gli aperitivi.
Camminiamo verso il parcheggio e lui telefona di nuovo; a sua madre, mi pare.
«In due minuti siamo arrivati», dico salendo in auto.
Quando i fari della sua Yaris mi raggiungono alzo il volume dello stereo.

© maggio 2010 Francesca Violi