Francesca Violi, Un anno a Casale Nuovo

La Casetta dei Sogni


Carlotta vuole installare la Casetta dei Sogni nel mio giardino. Finora ero riuscito a scantonare, a eludere le sue mozioni: ma non ero preparato a un attacco frontale proprio oggi, qui nel portico.
«Papà», mi ha detto schiaffando sul tavolo il catalogo dei premi, «abbiamo quasi finito la raccolta punti. Cami non vede l'ora di giocare con la Casetta!»
Ha aperto l'opuscolo e l'ha schiacciato giù, vincendone la naturale resistenza, in modo che rimanesse ben squadernato davanti a me: «Non parla d'altro, sai?»
Ho guardato in silenzio l'oggetto dei desideri della mia nipotina: una casa di plastica, pianta quadrata, un metro e mezzo di lato. Le facciate sono gialle, scanalate a simulare un motivo di mattoni faccia a vista; ognuna ha una finestra con ante rosse, e il tetto a due falde è pure rosso, stampato-coppi, con comignolo. Unica eccentricità un oblò a cuore sulla porta color lavanda.
«Ce l'hai la concessione edilizia?» ho scherzato (mia figlia lavora all'ufficio tecnico comunale. È geometra). Ma poi, tornando serio: «Mi sa che devo dirti di no».
«No?»
«Non nel mio giardino. Not in my backyard, sai?», ho aggiunto, per sdrammatizzare, con ovvio riferimento al fenomeno per cui le popolazioni sono ostili a vedere insediato nel proprio territorio un servizio di riconosciuta utilità comune ma di sgradevole presenza, tipo una discarica. Carlotta, però, come sua madre, ha un senso dell'umorismo molto limitato.
«No? » ha ripetuto.
«Dài, su, questo oggetto...» dico, indicando il catalogo. «Già non c'è siepe abbastanza alta da nascondere le palazzine di Mariotti, là, che saranno anche ecocompatibili ma... Comunque non ho lottato per quarant'anni contro gli stereotipi architettonici per vedermi tutti i giorni dalla finestra la villetta di...» di Barbie Geometra. «...di Barbie».
Che Carlotta mi abbia lasciato finire una frase così lunga è un pessimo segno. Sul suo volto sta avanzando un fronte freddo di odio misto disprezzo: le palpebre iniziano a sbattere sempre più rapidamente, poi le guance sbiancano; gli angoli della bocca si piegano all'ingiù.
«E come, di grazia, avresti lottato contro gli stereotipi architettonici?» Parla senza quasi staccare le labbra. « Forse coi tuoi progetti visionari che nessuno costruirà mai?»
Questa non è Carlotta: è Camilla. Camilla sua madre, non sua figlia (io ero contrario a questa omonimia postuma: mi sembrava di gravare quella bimba nuova nuova di tutto il nostro dolore ancora fresco). Quando sua madre era viva, Carlotta la vedeva soffrire per il mio scarso senso della realtà, e si schierava dalla sua parte, mai sfiorata dal dubbio che anch'io stessi male sentendomi dare del fallito. E dopo la morte di Camilla (madre), sembra essersi assunta l'incarico di portarne avanti le battaglie contro di me. La sua esistenza è praticamente una critica alla mia.
Dalla nascita di Cami, però, le cose tra noi erano migliorate: la nanerottola mi adora, e io, tranne rare eccezioni, sono in suo potere.
La nonnità mi ha fatto acquistare diversi punti agli occhi di mia figlia, ma è soprattutto lei stessa che è cambiata: sembra aver sviluppato una più profonda comprensione e accettazione del mondo in generale. Finora avevo beneficiato di questa indulgenza plenaria, e mi ritenevo ormai relativamente al sicuro. Invece mi ritrovo qui, con le orecchie in fiamme, ad alzare la voce nel tentativo di parare i colpi.
«E questa casa? La casa dove sei cresciuta, chi l'ha pro-»
«Sì, infatti...Il solo committente che sia mai stato alla tua altezza: te stesso!»
«E allora, se fosse? Al mondo non esistono mica solo i mattoni! C'è anche il pensiero, il sape-»
«Il sapere, il sapere, ma certo!» Carlotta fa una smorfia schifata. «Il tuo amato sapere!»
Seguono: efficace demolizione di tutti i miei motivi d'orgoglio (pubblicazioni, insegnamento, il mio gruppo di lavoro in facoltà) e rigiramento del coltello nella piaga della mia mancata assunzione a professore ordinario.
Non riesco che a scuotere la testa, in una parodia di incredulità, finché intravedo una possibile via d'uscita: «Insomma, dài, lo dico soprattutto per la Cami» (non è vero) «non voglio che si avvicini allo spazio in modo così banale. Far-»
«Papà, Camilla ha solo cinque anni... A lei piace la Casetta dei Sogni, sai cosa gliene frega se per te è banale!»
«Ma ascoltami, no? Senti: faremo un bel progetto e la costruiremo insieme, io e lei! Una stupenda capanna sul ciliegio! Non è...»
«Guarda che lei ci vuole giocare adesso, con la casetta, non fra due anni».
«Come tra due anni... Perché?»
«Madonna, papà, dài... Persino per la tomba della mamma, undici mesi per farle mettere quella tua lapide, o... scultura... O come la vuoi chiamare».
«Questo non è... Voglio dire, lo sai benissimo che la colpa è del marmista: non voleva fare le lavorazioni che io...»
Mi interrompo da solo: dagli occhi un po' sporgenti di Carlotta (di Camilla madre, di Camilla figlia) sfuggono dei grappoli di lacrime.
Rimaniamo diversi secondi così; l'unico rumore sono le pagine del catalogo, girate dalla brezza.
Poi le è suonato il cellulare.
Col palmo si spazzava via il bagnato dalle guance congestionate, e intanto parlava nel telefono di questa riunione fuori programma.
Mi ha a malapena salutato.
Il catalogo è rimasto sul tavolo, dove il vento pian piano l'ha sfogliato tutto all'incontrario, fino alla prima pagina.

© giugno 2010 Francesca Violi