Francesca Violi, Un anno a Casale Nuovo

La lezione


Ti sfilo la cannuccia dalle labbra e un po' di succo ti sgocciola lungo il mento, finendo sulla bavaglia.
Prima di iniziare a rassettare te e il letto (le lenzuola a fiorellini di quando eri bambina, chi avrebbe mai pensato) cambio canale che tra poco inizia il Meteo Cinque.
«Vediamo se arriva la perturbazione che dicevano!»
Non credo ti piaccia molto la TV: nel tuo appartamento non l'avevi neppure. Ma quando esco dalla stanza mi sembra meno mostruoso lasciarti in compagnia di movimenti e voci, piuttosto che nel tuo cubo di silenzio totale. Nel tempo che sono qui, invece, i programmi mi danno qualche spunto di conversazione, se così si possono chiamare le frasi che ti dico ad alta voce. E anche una scusa per distogliere lo sguardo dalla tua faccia.
Quella palpebra, ad esempio, difficile capire se è stato il capriccio dei tuoi nervi sfasati a farla tremare o un risentimento nei miei confronti che non trova altra via d'uscita.
Quanto devi odiarmi, lo sai solo tu. Litigavamo sempre. Su tutto, ma specialmente proprio su queste cose: per la moglie di Sandro, che sono anni che la straziano di chemio e radio e ormai è una specie di scheletro dolorante, e io dicevo, perché accanirsi, non è vita questa, né per lei né per lui. O il padre della Nilde, che non sa neanche più in che secolo siamo e scambia sua figlia per sua sorella da giovane, meglio morire che ridursi così. E tu guai, mi mangiavi la faccia, Chi sei tu per giudicare queste cose, mi urlavi, La vita è fatta anche di sofferenza, la verità è che tu hai avuto troppa fortuna, non hai mai passato un giorno in ospedale. Infatti, dicevo io, se capita a me una roba del genere, per una malattia o con la vecchiaia, sparatemi; sparatemi, se succede a me.
E invece è successo a te. Forse non ti ricordavi del cantiere sullo stradone, ma comunque andavi troppo veloce; avevi anche bevuto. Hai fatto tutto da sola, non puoi dare la colpa a nessuno: eppure sono sicura che in fondo sei convinta che meriterei di esserci io al posto tuo. Doveva toccare a te, mamma, mi diresti se potessi parlare, Allora sì che vedremmo quanto sei coraggiosa.
Alla fine siamo io e te, sole in questa casa dove sei cresciuta, dove tuo padre e io, come più volte ti è piaciuto sputarmi in faccia, abbiamo vissuto da estranei per anni prima di renderci conto che forse era il caso di divorziare. Complimenti, proprio una bell'esempio di famiglia mi avete dato, dicevi, Vivere sotto lo stesso tetto, ognuno per i fatti suoi, giusto la sera tutti e tre insieme, imbambolati dalla televisione.
E anche se non so, se nessuno sa, quanto esattamente puoi sentire e provare e pensare, io credo che dentro di te ci sia come un ruggito continuo, muto, per questa beffa che, oltre ad aver cancellato tutte le tue speranze, ti condanna a trascorrere i giorni e gli anni senza fondo della vita che ti resta in questa casa che disprezzavi, da cui sei scappata appena hai potuto. E per di più con me: anzi, al posto mio.
Forse è questa disperazione, troppo immensa per essere contenuta nel tuo corpo che diventa ogni giorno più piccolo man mano che l'immobilità ti smangia via muscoli e ossa, che a volte vedo scappare fuori dalle tue palpebre storte.
O è una scintilla di soddisfazione, l'unica che ti resta? Dirti che in fondo tra tutte le lezioni che potevi darmi questa è sicuramente la più efficace.
Davvero ti preferirei morta?
Non abbiamo mai avuto granché in comune noi due, ma adesso, giurerei, ci chiediamo le stesse cose. Sempre che tu ti possa chiedere qualcosa.
Davvero ti preferirei morta?, mi domando mille volte al giorno. E se sì, per mettere fine allo strazio di chi?

© luglio 2010 Francesca Violi