Francesca Violi, Un anno a Casale Nuovo

Vigilia


Le puzza l'alito, alla Yulka: poi dicono dei vecchi. Le sa di sigarette di contrabbando, e di cavolo. Di quei mangiari del suo paese che delle volte cerca di rifilarmi. «Questo è piatto preferito di mio nipotino!» Vuole far puzzare l'alito anche a me, vuole.
Gian è quasi al casello e tra poco arriva. Con su il paltò e il fazzoletto la Yulka ha spalancato le tende e mi ha sistemato davanti al finestrone del giardino, tra la dracena e la stella di natale. Fuori fa buio.
«Allora vado. Buon Natale, signora».
Faccio di sì con la testa.
Il caco, ricoperto di lucine azzurre, appare e scompare a tempo di tachicardia; il nespolo lo stesso ma in rosso, e con un ritmo sfalsato. Il resto del giardino è ancora peggio: diventeresti matto a vederlo. È Gian che ha detto alla Yulka di «mettere su qualche addobbo»: allora lei è andata dai cinesi e ha comprato quattro borsoni di luminarie. «Che allegria, eh? A mio nipotino piacerebbe tanto!»
Eccola che passa con la sua pedalata lenta. La mia vecchia Bianchi chiede pietà sotto a quel culone.
Nelle altre case della via le finestre sono illuminate, ma tutte con le loro brave tende e tendine: che dietro uno immagina per forza delle scene di famiglie riunite, col profumo di cucina, i nonni in poltrona e i nipotini urlanti. Magari anche un caminetto, come nella pubblicità del panettone. L'unico in vetrina come me è Armando, di sentinella alla portafinestra del terrazzo. Aspetta la Vera, che persino oggi a quanto pare è in giro a trafficare. Io invece stavo sempre a casa con te, no? Anche prima di finire così, dico. Per me la mia vita era dove c'eri tu. E infatti adesso non esco mai, perché se c'è un posto dove rimane ancora un po' di te, è qua. Anche al cimitero, scusa, in undici mesi mi sono fatta portare solo tre o quattro volte. Che comunque i cimiteri anche prima non ti sono mai piaciuti. Invece ti piaceva questa casa, il tuo giardino. Le tue cose. Non ho lasciato buttare via niente, è ancora tutto qui, ogni cosa al suo posto.
Sono arrivati. Gian parcheggia davanti a casa. Per prima scende la Rita: è l'ultima novità, tu non hai fatto in tempo a conoscerla. Sembra brava. Ma anche le altre erano brave, le altre che ha portato a casa dopo il divorzio. Tutte brave, ma poi... Ah, c'è anche il ragazzino! Non avevo capito che veniva anche lui. Con nostro figlio non si capisce mai bene quello che succede. Camminano a passettini per non scivolare sul vialetto ghiacciato; in fila indiana, carichi di borse, sacchetti, contenitori di pietanze. Gian mi saluta con la mano libera, poi indica il giardino illuminato, e con un gran sorriso alza il pollice. Io faccio di sì con la testa.

Le lenzuola non si vogliono scaldare. Potrei suonare, far venire Gian per la termocoperta, ma non ne ho voglia, e anche loro ormai devono essere a letto.
C'è un grande silenzio.
La tapparella è traforata di luci colorate. Stelle bianche e rosse e blu e gialle e azzurre. Si accendono, si spengono, formano dei motivi, dei merletti elettrici...
La cena è stata un po' penosa per tutti, credo. C'è stato uno sforzo di sorrisi, di cordialità, ma le facce erano legnose per tutte le cose di cui non si poteva parlare e le domande che non si potevano fare. Per quanti Natali ancora? ad esempio, ce lo chiedevamo tutti, ognuno per motivi diversi. Poi Gian ogni tanto cercava di convincermi a parlare. Mi ha anche sgridato dicendo che il mio è un capriccio. Cosa ne vuol sapere.
Il ragazzino, Niccolò, era seduto al tuo posto. Ha i capelli rossi, e non somiglia per niente a sua madre, e naturalmente neanche a Gian, né a nessuno della nostra famiglia. Per questo vederlo seduto lì... Forse lui si chiedeva dove passerà il Natale venturo: con suo padre? Col prossimo fidanzato della mamma? O ancora in questa casa che puzza di cavolo e di vecchia? Io invece avrei voluto chiedergli dov'era il Natale scorso. Un anno fa non sapevamo neanche che esistesse... E lui non sapeva di noi. Un anno fa c'eri tu sulla tua sedia, quella con la pelle più consumata; io ormai con le mie ruote, ma sempre di fronte a te: come sempre. E invece stasera, stessi piatti coi fiori blu, stessa tovaglia ricamata da tua sorella, persino la stessa sedia... Solo che sopra c'era lui.
Perché questo scambio assurdo? Che senso hanno i piatti, la tovaglia?
«Dov'eri l'anno scorso?»
Stavo quasi per domandarglielo, ma poi mi sono ingoiata tutto con l'ultimo goccio di rosso.
Alla fine Gian ha deciso che ho bevuto troppo e quindi non potevo prendere il sonnifero. Secondo me anche per farmela pagare, perché non ho detto una parola nonostante le sue preghiere.
Comunque volendo di sonniferi ci sono ancora quelli che usavi tu, una scatola quasi piena nel tuo comodino.
A forza di fissarle, le luci hanno cominciato a confondersi un po', a sfuocarsi, a fondersi insieme, come una tenda magica nel buio. È bello guardarle.
Mi viene da pensare alla Yulka, addormentata nella sua stanzetta in affitto che non vedrò mai, o forse a fumare in compagnia di altre come lei, venute qui per mantenere i figli e i figli dei figli. Pensieri da vino. E mi viene anche da pensare che forse dopotutto ti piacerebbe il giardino addobbato così.

© dicembre 2009 Francesca Violi