Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


Il professore e la figlia di Yemanjà



1965-1992
Diameli aveva trascorso l'infanzia in un appartamento al pianterreno nel centralissimo quartiere di Cayo Hueso, ai piedi dell'università dell'Avana. Nel piccolo salotto cieco sua nonna fumava un sigaro dopo l'altro per coprire il perenne odore di cucina cinese, dal momento che accanto a loro abitava una famiglia originaria di Hong Kong che aveva dovuto lasciare il quartiere cinese a causa di una storia d'amore finita a coltellate.


1965-1992
Diameli aveva trascorso l'infanzia in un appartamento al pianterreno nel centralissimo quartiere di Cayo Hueso, ai piedi dell'università dell'Avana. Nel piccolo salotto cieco sua nonna fumava un sigaro dopo l'altro per coprire il perenne odore di cucina cinese, dal momento che accanto a loro abitava una famiglia originaria di Hong Kong che aveva dovuto lasciare il quartiere cinese a causa di una storia d'amore finita a coltellate.
Da bambina Diameli si svegliava nel cuore della notte e si accorgeva che i suoi genitori non erano nella stanza da letto in cui dormivano tutti insieme, loro nel lettone e lei con la nonna nel lettino. Per rassicurarsi di non essere stata abbandonata, o forse per rassegnarsi, aveva scoperto dove guardare: si affacciava alla finestra, attenta a nascondere dietro alla tenda la sua inconfondibile capigliatura, ed eccoli lì che si accoppiavano alla maniera dei cani sotto il banano del cortile. Una volta alzando lo sguardo intravide almeno due paia d'occhi che dal palazzo di fronte si posavano sul rito perfettamente muto dei suoi genitori, e mentre si concentrava per accecare quegli usurpatori di nudità genitoriale sentì sua nonna ordinarle mezza addormentata di tornare a letto. Allora strisciò di nuovo sotto al lenzuolo e si addormentò prima di sentire la porta sul retro che cigolava e quei due, tornati estranei, che riconquistavano ciascuno il suo lato del materasso. Quel materasso, a forza di sdraiarcisi sopra così lontani fra loro, aveva preso la forma di un sopracciglio, e Diameli immaginava che una volta o l'altra sarebbero rotolati sul pavimento contemporaneamente, ognuno dalla sua parte, in un'esplosione di la puta de tu madre, che era quello che sua madre gridava quando si scottava il polso con l'olio bollente dei chicharrones nell'unica malandata padella che possedevano.
Diameli passava le giornate in compagnia della nonna, una pertica yoruba con la pelle così scura da mandare riflessi bluastri e un cespuglio di capelli bianchi come il latte, che diceva di essersi lavata per l'ultima volta prima della rivoluzione del 1959, ma che Diameli trovava ogni giorno più profumati.
Molto più tardi avrebbe capito che il loro odore era quello delle cerimonie di santería, di cui sua nonna rimaneva seguace a dispetto del figlio e della nuora che, fedeli alla Rivoluzione, o comunque intimoriti dalla determinazione con cui quest'ultima si faceva garante delle verità del mondo, le avevano proibito di praticare, definendola con disprezzo "eredità tribali", come d'altronde faceva la televisione di Stato.
In cambio della promessa – regolarmente infranta – di non partecipare più ai riti della santería, la vecchia aveva preteso che i due non si immischiassero nella sua decennale amicizia col babalawo di Cayo Hueso, che abitava nel palazzo di fronte e che, non avendo un telefono, si faceva lasciare i messaggi dei suoi discepoli proprio presso la nonna di Diameli. Questa lo riceveva ogni giorno nel tardo pomeriggio per fumare un sigaro insieme, fargli l'elenco di chi lo aveva cercato per liberarsi di qualche fattura, e commentare i progressi e gli arretramenti di quel governo di comunisti bianchi – per lo più, ammettevano bonariamente, brave persone. Quando suo figlio si lamentava di quanto fosse fuori luogo che sua madre, vedova, ricevesse uno stregone da sola in casa, lei rispondeva che non lo riceveva affatto da sola, ma in compagnia della piccola Diameli, che a quell'ora faceva i compiti con uno zelo magistrale; e così dicendo le strizzava l'occhio. Le aveva già spiegato qualcosa che la bambina aveva messo in tasca senza capire bene, e cioè che al vecchio babalawo non piacevano le donne, ma gli uomini, ma essendo protetto dal grande Ogun non ci sarebbero state conseguenze cattive per questo suo incomprensibile gusto.
C'erano anche altri segreti fra nonna e nipote. Di sabato pomeriggio, quando i suoi genitori si concedevano un sonno pomeridiano per recuperare le energie spese durante la settimana, di giorno a lavorare, e la notte a rimettersi in pari sotto al banano del giardino, la vecchia lasciava che Diameli uscisse da sola per le strade dove risuonavano i tamburi e i canti delle cerimonie di santería. Attratta da quel richiamo ancestrale, la bambina si avvicinava alle finestre dei pianterreni, ma non era abbastanza alta per vedere qualcosa. Da dentro, qualcuno si accorgeva di quei riccioli che sporgevano dal davanzale e faceva capolino per tirarla dentro e metterla a sedere su una seggiola di legno. Ogni volta, dopo aver assistito a quegli spettacoli indimenticabili, per nulla inquietata dalle donne che cadevano in trance e dalla presenza di un potere che era luminoso e buio al tempo stesso, Diameli veniva riempita delle leccornie che i santeri avevano portato per fare offerte ai santi, e trattata come una piccola figlia di Yemanjà, per via dei vestitini azzurri che la nonna non mancava di infilarle nel silenzio della siesta, facendoci passare a fatica la strabiliante capigliatura a forma di conchiglia, che secondo la nonna era un equivocabile segno di appartenenza alla dea del mare.
Col passare degli anni, la libidine notturna dei suoi genitori, silenziosa quanto pubblica, andò riempiendo la casa di fratellini chiassosi e urlanti. Un giorno in cui il caldo metteva a dura prova i suoi nervi e l’ennesima goccia bollente le aveva scottato il polso, sua madre salutò il mezzogiorno gridando che erano diventati troppi, e costrinse in capo a un anno tutta la famiglia a trasferirsi in una casa più grande nel quartiere popolare di BuenaVista. Lì il padre di Diameli continuò a fare il postino, rubando di tanto in tanto una cartolina con la statua di John Lennon da aggiungere alla sua collezione, mentre la madre si trascinava da una vicina all'altra con la nidiata di figli al seguito per spettegolare delle cose buone e lamentarsi di quelle cattive.
Ma Buenavista non era Cayo Hueso. Le passeggiate segrete di Diameli nel sabato delle cerimonie finirono bruscamente, e mentre i suoi dormivano la siesta, a lei e alla nonna non restava altro da fare che impazzire di monotonia davanti all'unico canale della televisione cubana. Il babalawo non veniva più a trovarle ogni pomeriggio, ma solo una domenica al mese, e in quell'occasione non c'era spazio per le confidenze e le risate complici, a causa della madre di Diameli che ronzava loro attorno con fare arcigno.
Una volta, dopo che il cerimoniere se ne fu andato, la nonna chiamò Diameli sul balcone e le intimò di finire il sigaro che stava fumando. Lei si sforzò di fumare in fretta nel timore che la madre le scoprisse, e impallidì per la nausea violenta che le provocava. Alcuni pezzi di tabacco le si posarono sul fondo della gola come faceva il sale del Caribe quando senza volerlo beveva un po' della sua acqua, perché la barca di un pescatore aveva disturbato la sua quiete mentre era sospesa a fissare il cielo con l'abisso sotto di sé.
Stanotte muoio, disse sua nonna all'improvviso, fissando con placida malinconia la distesa di palazzoni tutti uguali davanti a loro.
Diameli sostenne il peso della notizia senza replicare, cercando di frenare il tremolio del proprio labbro inferiore.
Ma voglio che tu sappia che non muoio di tristezza né di malattia, aggiunse la vecchia strizzandole l'occhio. Muoio semplicemente di noia.
Con la perdita della sua parente preferita e con l'arrivo di un'altra raffica di fratelli, la qualità della vita di Diameli precipitò. Passava a casa meno tempo che poteva, trascorrendo le giornate nelle biblioteche pubbliche a studiare, circondata da studenti ben più vecchi di lei che si divertivano ad ammiccare a quella piccola secchiona con una conchiglia di riccioli in testa. Una volta, fra due scaffali nella parte più nascosta della biblioteca, Diameli scoprì un tizio che si muoveva tutto solo a un ritmo che lei aveva visto ballare solo dai cani e dai suoi genitori.
Fin dagli anni dorati a Cayo Hueso, quando Diameli guardava le studentesse coi libri sottobraccio e i baci pronti sulla bocca incamminarsi lungo la salita di San Lazaro verso la scalinata dell'università, aveva sognato di diventare una di loro. La più brillante tra loro. Quando finì il liceo a pieni voti e gli insegnanti convinsero i genitori a lasciarle percorrere la strada che aveva scelto, Diameli fu libera di iscriversi alla facoltà di antropologia, e da quel giorno dedicò ogni grammo delle sue energie allo studio.
Quando fu al terzo anno, i suoi cominciarono a preoccuparsi di non aver mai visto un uomo ronzarle attorno. In realtà, con quella strabiliante capigliatura e quegli occhi profondi dietro agli occhiali leggeri, Diameli era piena di pretendenti di cui si accorgeva a malapena. Quando sua madre le presentò il figlio di certi amici di famiglia, uno studente di medicina grande come un armadio e gentile come suo padre, Diameli intravide se non altro la possibilità di essere lasciata in pace, e di abbandonare finalmente quella casa che detestava.
Si frequentarono qualche mese, durante il quale Diameli fu iniziata ai piaceri del sesso, in teoria, ma di fatto alla delusione del coito senza eccitazione. Talvolta, mentre si augurava che la montagna umana sopra di lei franasse velocemente per lasciarla sola a leggere un libro, si sentiva così fuori posto che per non farsi prendere dalla malinconia non le rimaneva altro che chiudere gli occhi e ripassare qualche lezione per gli esami di antropologia.
Ciononostante era ormai decisa a regalarsi a quell'uomo che prometteva di portarla a vivere altrove, non proprio a Cayo Hueso ma almeno di nuovo in centro città, a pochi isolati dal babalawo che, ormai anziano, avrebbe senz'altro apprezzato di essere accudito dalla nipote della sua vecchia amica.
Mancavano ormai poche settimane alle nozze, quando Diameli iniziò un corso sul ruolo della Chiesa cattolica nella storia di Cuba, tenuto da quel professore coi capelli sempre unti, la barba incolta e le dita coperte d'inchiostro, che lei tante volte aveva visto camminare su e giù per i corridoi della facoltà parlando da solo. E che, anche se era piuttosto gobbo e i trent'anni più di lei si leggevano impietosi nella ragnatela di rughe che gli attraversava la faccia, a Diameli era sempre sembrato più bello di tutti i suoi compagni di corso, più bello del suo fidanzato, più bello del babalawo amico di nonna, inspiegabilmente più bello di chiunque.
Ma Diameli, che aveva caparbiamente tenuto l'amore lontano dalla sua vita, non capì cosa fosse finché non seguì la prima lezione del professore. In quell'aula universitaria si sciolse letteralmente nelle mutande di cotone acquistate per mezzo dollaro su una bancarella di Marianhao, per il modo assurdo in cui Ernesto gesticolava e per le risatine eccitate, un po' da psicopatico, con cui accompagnava il culmine delle proprie spiegazioni. Ne fu così emozionata che avrebbe piantato una matita in mezzo agli occhi delle compagne che ridevano di lui, e soprattutto in mezzo a quelli della moglie del professore, una contabile del Balletto Nazionale che, secondo chiacchiere di corridoio, se la faceva con la metà dei ballerini.
Tornò a casa malferma sulle gambe. Il destino volle che proprio quel giorno il suo fidanzato si facesse trovare in compagnia di sua madre per dirle che avevano appena organizzato il viaggio di nozze nella Germania dell'Est: uno zio del futuro sposo era un pezzo grosso del partito, e non ci sarebbero stati problemi per i visti.
Diameli si infuriò per non essere stata nemmeno consultata, montò una scena che rimase negli annali e nelle orecchie dell'intero condominio, e concluse dichiarando che quella era la goccia che faceva traboccare il vaso. Lei non si sposava per diventare il bagaglio a mano di nessuno. Si ritirò in camera sua sbattendo la porta, e mentre sua madre gridava tutti gli improperi del suo repertorio e suo padre offriva una debole e tardiva opera di mediazione, Diameli abbracciava il cuscino invocando Yemanjà affinché la aiutasse a sopportare l'agonia dell'amore.


1937-1992
Anche se a Diameli faceva l'effetto dell'ultimo uomo sulla terra, Ernesto più semplicemente era l'ultimo erede di una famiglia dalla storia rocambolesca.
Il suo bisnonno materno era un cinese fuggito all'inizio del secolo da una violenta rivolta secessionista nella Cina del presidente Sun Yat-Sen. Dopo aver visto massacrare parenti e amici, era riuscito a imbarcarsi per i tropici e sbarcare all'Avana, dove aveva trovato un posto al sole nel fiorente quartiere cinese, inventandosi un lavoro da intermediario nel commercio con Singapore e sposando una bella mulatta. Una volta strappato il passaporto cinese, si ribattezzò Teleforo Malón e si considerò cubano d'adozione.
Quando la moglie morì durante il parto della seconda figlia, Teleforo affidò la neonata a conoscenti della defunta fuori l'Avana, e lasciò la primogenita di sette anni, Maria Luisa, alle cure di due domestiche afrocubane.
Dall'educazione afro-cubana che la Maria Luisa piccola ricevette furono in seguito ricondotte due doti soprannaturali che avrebbero avuto ripercussioni significative sull'avvenire della famiglia: la preveggenza e la telepatia.
La nonna del futuro antropologo Ernesto, infatti, era un'indovina. Anni più tardi, quando la loro casa venne dotata di un telefono, lei si dilettava a indovinare chi fosse ancora prima che l'apparecchio iniziasse a suonare. Il suo spettatore preferito era proprio il giovane nipote, che si divertiva come se fosse un gioco e non gli importava di scovare il trucco come si sforzavano di fare gli altri adulti.
Nel repertorio di Maria Luisa si annoveravano anche doti più proficue, come quella di azzeccare le quotazioni in borsa della canna da zucchero con settimane di anticipo e soprattutto, non meno di una volta al mese, i numeri vincenti della lotteria.
Quegli occhi a mandorla incastonati in un corpo creolo contribuivano a farla apparire a tutti gli effetti una strega: Teleforo cercò di tenere nascosti quei poteri che temeva avrebbero finito per metterla in pericolo e, ancora ragazzina, la consegnò in moglie a un certo Enrique, un intellettuale discendente di spagnoli – che asseriva, carte alla mano, di essere lontano parente del condottiero Hernan Cortés, nientemeno.
A differenza del suocero, per Enrique, che desiderava in vita sua dedicarsi parecchio alla filosofia e ben poco al lavoro di commerciante, le doti miracolose di Maria Luisa, e la sua sempre più evidente incapacità di concepire figli, furono tutt'altro che un problema, ma piuttosto una soluzione alla sua patologica inerzia.
Per evitare che il marito scialacquasse interamente la ricchezza che lei stessa procurava grazie al gioco d'azzardo, Maria Luisa convinse il consorte ad adottare una piccola figlia di nessuno, che aveva già trascorso i primi mesi di vita presso le suore della chiesa più vicina. Sul finire degli anni ʼ30 questa figlia adottiva, dopo aver ceduto alle moine di un meccanico di automobili americane, diede alla luce il piccolo Ernesto nella casa dove il neonato avrebbe trascorso tutta la sua vita: una villetta coloniale nel quartiere di Kohly, nella periferia est dell'Avana, a pochi passi dal ponte Almendares.
Poiché sua madre aveva appena sedici anni quando Ernesto nacque, il bimbo fu allevato soprattutto dai nonni. Enrique, felice di avere finalmente un altro uomo in casa col quale condividere i suoi ragionamenti e le sue tribolazioni riguardo alla specie umana, lo abituò fin da piccolo a sentirsi parlare come un adulto e a ricevere proposte poco adatte alla sua età. Il rampollo sapeva a malapena leggere e scrivere quando gli venne regalato un pianoforte, che venne piazzato vicino all'ingresso, dove rimase decennio dopo decennio, assai raramente destinato al suo utilizzo originario, poiché la madre di Ernesto inorridiva all'idea che suo figlio potesse diventare omosessuale, e dopo averlo visto strimpellare un paio di volte decise di interrompere la carriera artistica del figlio.
D'altra parte il destino aveva in serbo ben altro per lui. Aveva appena undici anni quando il nonno decise di portarlo con sé in un lungo viaggio in nave e poi in treno fino alle Cascate del Niagara, che a quanto se ne sapeva fino a quel momento erano, fra le varie dimostrazioni dell'esistenza di Dio, la più incontrovertibile.
Nonno Enrique, nello spiegare questo dettaglio al nipote, aveva voluto solo dare un'idea, benché approssimativa, della bellezza cui andavano incontro. Era un ateo convinto, lettore di Voltaire e di più recenti dissacratori delle superstizioni umane. Ma Ernesto lo prese sul serio, così sul serio che la visione della cascata fu per lui un'epifania. Travolto dalla fede, decise quale sarebbe stato lo scopo della sua vita, ma attese il ritorno all'Avana per comunicare a tutta la famiglia che da grande si sarebbe fatto prete per guidare le persone all'incontro con Dio.
A nulla valsero gli sforzi della nonna strega e del nonno ateo per strapparlo a quella vocazione. A diciassette anni Ernesto veniva regolarmente inserito nella scuola dei gesuiti, dove qualche anno prima aveva studiato anche un certo Fidel Castro, e dove Ernesto si preparò ad andare come missionario in Cina per chiudere il cerchio della storia inaugurata da Teleforo Malón.
Il destino però aveva tutt'altri progetti per lui. La vocazione monastica infatti non gli impedì di appassionarsi alle vicende che in quegli anni sconvolgevano il suo paese. Nel 1953, quando Fidel e altri ribelli assaltarono il carcere della Moncada per liberarne i prigionieri, e fallirono miseramente finendo per essere tutti arrestati a loro volta, Ernesto si unì alla campagna studentesca che chiedeva che fosse loro risparmiata la fucilazione. Senza ancora chiedersi se la passione politica potesse andare a braccetto con la sua professione di fede, ma sempre più convinto della necessità di cacciare il dittatore filoamericano Fulgencio Batista, Ernesto entrò in un gruppo clandestino rivoluzionario, e nel 1956 partecipò ad un brancaleonico tentativo di conquistare il palazzo presidenziale; per fortuna sua e del resto di questa storia, l'auto sulla quale viaggiava assieme ad altri cinque combattenti si fermò a metà strada, e chissà cosa pensarono i residenti della zona guardando nel cuore della notte cinque imbranati piangere di frustrazione davanti a un motore fumante. L'azione cui avrebbero dovuto prendere parte, intanto, era stata scoperta sul nascere e aveva portato alla morte di tutti gli insorgenti. Nel corso di quella lunga notte di passione, comunque, Ernesto rinunciò a fare il prete e decise che avrebbe seguito un'altra strada per avvicinarsi alla Verità.
Nel 1959, l'anno della rivoluzione castrista, Ernesto aveva da poco iniziato la scuola di giornalismo. Anche se l'ascesa del socialismo aveva privato la sua famiglia dei beni immobiliari che si era conquistata grazie alle premonizioni di Maria Luisa, lui divenne un convinto sostenitore di Castro e rivoluzionario militante. Quando nel 1962 si laureò come il più brillante studente del suo corso, il capo di Prensa Latina, un'agenzia latinoamericana di informazione nata proprio per volere di Fidel, lo assunse per occuparsi delle relazioni tra il governo cubano e la chiesa.
Fece anche il corrispondente da varie parti del mondo. Nel ʼ63 conobbe la Russia del Kgb e ne tornò disorientato e deluso; nel ʼ64 il Brasile della Nuova Repubblica, da cui dovette andarsene a causa del golpe militare. L'anno successivo seguì le elezioni in Cile, dove un certo Salvador Allende veniva sconfitto per l'ennesima volta grazie ai milioni di dollari con cui la Cia aveva finanziato la campagna elettorale del suo avversario. E più vagava fra movimenti rivoluzionari e sistemi socialisti, più diventava un fan della rivoluzione nel suo paese, un'isola a tutti gli effetti; esperienza diversa da tutte le altre.
Solo una cosa continuava ad allontanarlo senza rimedio dal sistema che si andava consolidando a Cuba, ed era la fede in Dio. Ernesto non immaginava che una questione così privata potesse arrivare a mettere in discussione la sua fedeltà alla causa socialista. Invece, prima venne esonerato dal posto di redattore sui rapporti tra governo e Chiesa, e infine gli vennero fatte le scarpe anche come inviato internazionale.
Riuscì a rimediare una collaborazione come corrispondente di una radio messicana. Viveva da solo nella grande casa di Kohly dove era cresciuto, l'unica in cui sarebbe mai stato capace di vivere, e dove sua nonna decenni prima indovinava chi faceva squillare il telefono. Sopportava con indifferenza le ironie dei suoi rivali sul fatto che molto di rado lo si era visto in compagnia di una donna, e per anni passò quasi tutto il suo tempo a leggere, a scrivere furiosamente a macchina articoli e saggi del cui risultato non era mai soddisfatto, ad annaffiare i fiori del giardino e a riparare il tetto sempre più fatiscente.
Il vento girò di nuovo nel 1972, quando Fidel Castro si interessò – non esattamente con simpatia – alla Teologia della liberazione che si diffondeva come un incendio per tutta l'America Latina, e decise di creare un gruppo di studio sul cattolicesimo militante anche a Cuba. Ovviamente Ernesto fu il primo candidato a farne parte, e ottenne la cattedra di Storia della Chiesa nell’America Latina presso l'università dell'Avana. In quel periodo sposò Josefina, un'aspirante ballerina classica che aveva conosciuto in una notte di pioggia fuori dal Teatro Nacional e che aveva accidentalmente messo incinta circa tre ore dopo averle offerto di dividere l'ombrello fino alla fermata dell'autobus. Josefina perse quel bambino e gli altri cinque che provarono a crescerle nella pancia, ma nulla la esasperò quanto la consapevolezza che non avrebbe mai fatto strada con la danza. Nei primi anni ʼ80 divenne la contabile del Balletto nazionale, dove si mormora che perse la testa per una delle primedonne della compagnia, un bellissimo omosessuale con pochi capelli ma dalle mani enormi.
Ernesto, che sopportava a fatica le lamentele quotidiane di Josefina sulla crudeltà della vita, rinunciando a ricordarle che non era la fortuna a esserle mancata bensì il talento, si era ormai abituato all'idea di essere il classico uomo incappato in un matrimonio inutile, e rimaneva fuori casa quasi tutto il giorno per dedicarsi alle cose che aveva sempre amato: informarsi dell'attualità, insegnare rudimenti di teologia ai giovani marxisti che gli capitavano tra le mani, e nutrire il suo interesse più recente, quello per il sincretismo tra cattolicesimo e santería yoruba, materia sulla quale all'inizio degli anni ʼ90 riuscì a creare un gruppo di ricerca, a cui si unì fin da subito una brillante mulatta con una curiosa capigliatura a forma di conchiglia.


2011
Diameli trascina la sua valigia fuori dalla casa di Kohly, dopo aver ricavato a calci un passaggio fra le cataste di libri e le riviste impolverate. Pochi minuti prima, mentre vomitava per la tensione appoggiata al portasciugamani arrugginito del bagno, ha percepito gli affannati passi di Ernesto attorno a sé. Ha smesso di insultarla, finalmente, ed è entrato nella fase dell'ansia. Nel giro di qualche minuto subentrerà una stolida rassegnazione.
Così è stato ogni volta che lei se n'è andata da quella casa: almeno tre volte in diciassette anni di matrimonio. Sciacquandosi la bocca e asciugandosi con un foglio di giornale, Diameli immagina di trovarlo seduto sulla vecchia sedia a dondolo della veranda, quella da cui sua nonna indovinava chi da lì a poco avrebbe fatto squillare il loro telefono. E lì infatti lo trova, immobile a fissare la strada attraverso le foglie del grande ficus del giardino, quello che usa sempre per spiegare agli ospiti come raggiungere la casa: «non si può sbagliare: si vedono fin dalla fermata dell'autobus le radici del nostro ficus spaccare il marciapiede». Così aveva detto anche a lei diciannove anni prima, quando Diameli, dopo aver raccolto tutto il suo coraggio e aver contrattato con Yemanjà tutta la notte affinché le desse la forza di sopportare l'agonia dell'amore, aveva speso una fortuna per un taxi collettivo, perché l'odore di umanità di autobus avrebbe finito per coprire la fragranza di zenzero con cui si era cosparsa, ed era sbarcata nel quartiere di Kohly con due libri e un quaderno di appunti sotto il braccio.
Ora impugna il trolley che ha comprato per il viaggio in Brasile dell’anno precedente, e passa accanto a Ernesto che si è seduto sulla sedia a dondolo e non la guarda più. Chissà se intuisce che questa volta è quella buona, che stavolta non tornerà. Ci sono alcuni dettagli significativi che rendono questo addio diverso dagli altri, poi rivelatisi degli arrivederci: le altre volte Diameli non aveva mai vomitato appena prima di prendere la porta, non aveva mai usato il trolley per portare via le sue cose – in effetti, l'ultima volta non lo possedeva ancora; le altre volte erano state prima del viaggio in Brasile, che aveva cambiato tutto; le altre volte non aveva mai scelto la via del silenzio, dell'indignazione strisciante con cui oggi se ne va. Aveva semmai gridato, infischiandosi dei vicini, tutti religiosamente bianchi, tutti intimamente infastiditi dalla presenza di una negra per di più santera nel loro quartiere chic, che era stato prima degli americani, poi dei russi e infine dei pezzi grossi dell'esercito. Soltanto una casa aveva ospitato i membri della stessa famiglia generazione dopo generazione, ed era proprio quella del professore un po' matto che – matto ma non scemo – si era sposato una capellona caffelatte di trent'anni più giovane piantando in asso una moglie di certo frigida, ma perfettamente inserita nella vita del quartiere e disposta a condividerne i pettegolezzi.
Forse però Enrique intuisce che stavolta è per sempre. Quando non sente più il rumore del trolley lungo la strada rimane seduto sulla sedia a dondolo fino all'imbrunire, in un equilibrio immobile che annulla la natura stessa della sedia, e poi rimane al buio, perché lui e Diameli un giorno avevano deciso che l'Ente Nazionale per l'Elettricità poteva andare all'inferno, tanto i libri si potevano leggere a lume di candela, e avevano smesso di pagare le bollette.
C'era stato il tempo delle lezioni a due voci, che li avevano resi famosi in tutta l'università. Venivano da tutte le facoltà ad ascoltarli, per il gusto di assistere allo spettacolo di due menti brillanti che si davano battaglia, e attraverso quella loro tenzone insegnavano l'arte della dialettica come una mente sola non avrebbe mai saputo fare. Tesi, antitesi; la lezione finiva allo scadere dell'orario previsto, e quando anche gli ultimi seguaci abbandonavano l'aula, loro due erano ancora lì a cercare la sintesi della loro diatriba.
Ernesto era fiero di lei, delle battute sagaci con cui lo interrompeva nel mezzo del ragionamento per correggergli il tiro. Si irritava, naturalmente; ma ciò lo rendeva intimamente orgoglioso della propria scelta, e dell'ostinazione con cui l'aveva tenuta al di sopra dell'accusa infamante di essere il solito uomo di mezza età che si fa la studentessa bella e discreta. Diameli era bella, ma tutt'altro che discreta: era una gatta che soffiava, una gatta da pelare, e diverse volte Ernesto, che già camminava su un filo sottile per la sua ostinata professione di fede, dovette rispondere ai piani alti delle opinioni di sua moglie.
Negli anni in cui lei fu la sua più stretta collaboratrice, comunque, riuscì a dimostrare che lei valeva – forse non quanto lui, d'accordo – ma almeno quanto il resto dei cattedratici di antropologia. Questa convinzione alimentava la sua voglia di lei quando si ritrovavano da soli nella casa di Kohly a scandalizzare i vicini con il loro amore chiassoso, quell'amore che si faceva beffe di trent'anni di differenza. Quell'amore di cui lui aveva sempre tenuto saldamente le redini.
In quale momento il suo orgoglio mutò in invidia, e la dedizione di Diameli si trasformò nella strisciante accusa di averle tarpato le ali?
Quando le interruzioni di Diameli durante le lezioni si fecero rabbiose, cattive, Ernesto finse di non accorgersene. Coglieva da lontano i suoi cambiamenti – le letture femministe, le ostinate rivendicazioni sulla sua negritudine, come se la percentuale bianca del suo sangue, e il suo splendido colorito marrone chiaro non fossero un dato di fatto – le sue allusioni sempre più taglienti su quanto lui la ostacolasse nella sua carriera di ricercatrice, perché non la lasciava collaborare con altri professori, più giovani, aggiungeva, più al passo coi tempi. E finiva criticandolo perché, per quanto il regime lo avesse relegato ai margini dell'intellighenzia cubana per via della sua fede, lui il regime non aveva mai smesso di difenderlo, e continuava a definirsi un rivoluzionario militante, ancora, cinquant'anni dopo, e nonostante tutto. «La tua generazione è stata molto egoista con la generazione dei vostri genitori» diceva Diameli. «E vigliacca con quella dei vostri figli», che poi era la sua.
Non appena Ernesto raggiunse l'età pensionabile, l'università gli tolse quella cattedra che gli aveva concesso per un lungo periodo storcendo il naso. La pensione dei professori universitari a Cuba non si differenzia granché da quella di un qualsiasi insegnante, e a Ernesto bastava a malapena per mantenere una connessione internet e caricare la pipa del tabacco di Pinar del Río. Anche se era qualcosa che avevano sempre messo in conto ridendo, quando arrivò il momento visse con umiliazione il farsi mantenere da Diameli.
A lei un giorno, dopo averglielo negato per anni senza fornire spiegazione alcuna, il governo concesse il visto per andare in Brasile a finire la sua tesi di ricerca, il progetto a cui Diameli aveva dedicato quindici anni di studio. Ernesto non se lo aspettava. Ormai dava per scontato che non sarebbe mai accaduto, e sentì nel giro di una notte fiorire dentro di sé il timore che lei avrebbe definitivamente spiccato il volo senza di lui; e che forse quello che gli faceva sibilando era davvero il suo ritratto più definitivo, un intellettuale squattrinato di settant'anni con una fama di dissidente a metà.
Diameli ormai si comportava come se dormisse col proprio nemico. Eppure Ernesto era sicuro che fossero stati sempre d'accordo sulla sua carriera, sull'evitare gravidanze che le avrebbero definitivamente sbarrato la strada già ostacolata dalle sue opinioni, e persino sul rimanere a vivere a Kohly, nonostante il quadro raccapricciante del vicinato. Cosa doveva fargli pagare quella donna?
Il suo timore si trasformò in paura quando il mese che Diameli doveva trascorrere in Brasile passò, giorno dopo giorno, senza che una sola volta lei facesse squillare il telefono con cui la nonna di Ernesto giocava all'indovina.
Finché un pomeriggio vicino all'imbrunire, Ernesto se ne stava seduto in veranda quando la vide scendere da un taxi dell'aeroporto, scaricare il trolley ed entrare in casa salutandolo con noncuranza come se fosse il portinaio. Quando le chiese, aggressivo, perché non ne avesse approfittato per rimanere in Brasile, visto che odiava tanto Cuba, lei rispose che non l'aveva fatto perché non ne avevano mai parlato. E quando cercò di capire perché non avesse mai chiamato, lei gli ricordò che a parte il vitto e l'alloggio tutte le spese erano a carico suo, e che quindi aveva fatto la fame a Bahia; altro che chiamate intercontinentali.
Nonostante fosse tornata, o forse proprio per questo, Ernesto la punì come poteva nei mesi che seguirono. Bocciò tutte le bozze che Diameli produceva, si fece canzonatorio sulle sue nuove convinzioni negre e femministe, chiamò “robetta da ciarlatani” il suo percorso di affiliazione a Yemanjà, e infine, quando l'università dell'Avana rifiutò di pubblicare la sua ricerca, Ernesto sostenne che la ragione del sabotaggio era la scarsa qualità dei contenuti e non, come sapeva bene, il loro carattere scomodo per la cultura imperante nell'isola.
Con questa mossa il piano su cui stavano scivolando finì per inclinarsi del tutto, e li lasciò cadere in picchiata verso la fine.

Quando squilla il telefono, Ernesto si alza sentendo una fitta di artrite nel ginocchio destro. Rientra in casa inciampando, perché il sentiero che si è creata Diameli per far passare il trolley ha modificato la geografia di cumuli di carta stampata che conosceva a memoria. Riesce a rispondere appena prima che all'altro capo riattacchino, e accetta con indolenza la visita per l'indomani di una giornalista italiana che vuole parlare con lui, il massimo esperto in materia, della prossima venuta di Ratzinger a Cuba.
Conclude la telefonata istruendo la giornalista sulle radici del ficus che spaccano il marciapiede davanti a casa, poi va in cucina a mangiare un po' di riso freddo scondito, grattando quello bruciacchiato in fondo alla pentola. Prima di andare a letto si siede sullo sgabello del vecchio pianoforte, che nessuno ha mai più suonato e che lui negli anni ha trasformato in un altare di fiori secchi, foto ingiallite, pagine svolazzanti della Bibbia e una caricatura di Diameli fatta da un loro amico pittore.

Diameli cerca di prendere sonno sdraiata accanto a sua madre, in un piccolo appartamento di Cayo Hueso dove la vecchia è tornata dopo esser rimasta vedova di marito e orfana di figli, tutti regolarmente sposati e fedifraghi. Ha cominciato a rimproverare Diameli appena l'ha vista comparire all'inizio della strada con la valigia al seguito: dopo essersi opposta per diciassette anni al matrimonio con un vecchio bianco, non sopporta l'idea che la figlia se ne separi proprio quando non dovrebbe mancare molto ad avere tutta per sé, e magari per lei, quella bellissima casa a Kohly.
Mentre sua madre russa alitando nella stanza lo stolido e inevitabile materialismo con cui ha attraversato la vita intera, Diameli abbraccia il cuscino invocando Yemanjà affinché la aiuti a sopportare l'agonia della separazione, senza piangere, attenta a non svegliare sua madre.
Come ha fatto ogni volta che il peso della propria inquietudine è stata sul punto di schiacciarla, come ha fatto anche all'aeroporto di Bahia mentre decideva di tornare nell'unica patria che gli era stata concessa, chiude gli occhi e sente l'odore nei capelli bianchi di sua nonna, e li accarezza fino all'alba.

© agosto 2012 Serena Corsi