Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


L'equivalente africano di una balla di fieno


Un paio di settimane prima di partire per il Mozambico sono andata in treno, destinazione provincia di Forlì, a incontrare i Fusaroli Casadei. Dal finestrino l’Emilia si trasformava inesorabilmente in Romagna, e la pianura diventava tutta una balla di fieno. La campagna è bella in questa stagione, quando l’estate è ormai finita ma ancora non sono arrivate le nebbie autunnali.
Alla stazione di Forlimpopoli mi viene a prendere Antonio, detto Gaetano, figlio di Umberto Fusaroli e di Marisa. Ha degli occhiali da sole da killer che mi lasciano un po’ perplessa, ma quando se li toglie svela una paciosa aria romagnola. Fa il pilota per l’Alitalia, e questi sono i giorni in cui l'azienda sembra stia per fallire. Mentre guida mi spiega i punti della trattativa: mi sembra che abbiano ragione loro, i piloti, a non volerla accettare. Comunque sull’intera vicenda mi riprometto di leggere il Manifesto di domani.

I Fusaroli Casadei se ne andarono dall’Italia all’inizio degli anni sessant’anni, delusi dalla piega che avevano preso le cose dopo la Liberazione. Andarono da un vecchio amico che viveva in quella che allora si chiamava Rhodesia (oggi Zimbabwe), governata da Ian Smith, un ex mercenario inglese che aveva fondato il suo impero sull’ideologia razzista. Da lì Umberto prese contatti col Frelimo – il Fronte di Liberazione del Mozambico, che a ovest confina con la Rhodesia – e, lavorando come traduttore per il governo di Smith, raccolse preziose informazioni utili al Frelimo. Poco prima che il cerchio della polizia rhodesiana si chiudesse su di lui, un collega inglese che gli si era affezionato lo avvertì che entro poche ore sarebbe stato arrestato e fucilato. Umberto caricò sulla Volkswagen i suoi libri e il suo fucile da caccia, salutò la moglie Marisa e scappò sgommando verso il confine con lo Zambia. Passò la frontiera alle primi luci dell’alba, sfondando – letteralmente – il blocco dei rhodesiani.
Fu bloccato alcuni chilometri dopo dalla polizia dello Zambia: convinse le autorità a non rispedirlo in Rhodesia, ma piuttosto a incarcerarlo a Lusaka, capitale dello Zambia. Qui trovò un ufficiale che parlava qualche parola di italiano, e Umberto lo pregò di chiamare Marisa per fargli sapere dove si trovava e cosa avrebbe dovuto fare: partire alla volta dell’Italia, dove la donna lasciò il piccolo Antonio e convinse Enrica, la sorella di Umberto, a seguirla in Africa per cercare di liberare il fratello. Le due si recarono prima in Tanzania, dove si trovavano la maggior parte dei leader del Frelimo mozambicano in esilio. L’idea era che il Frelimo intercedesse presso l’autorità dello Zambia per far liberare Umberto. Giunte a Dar es Saalam, le due romagnole furono ricevute dal generale guerrigliero Chissano, che vent'anni più tardi sarebbe stato il secondo presidente del Mozambico democratico. Marisa racconta che, quando Chissano entrò, Enrica si girò verso di lei con gli occhi fuori dalle orbite, esclamando in dialetto: «Marisa, ma saranno tutti così belli i negri?»
Chissano diede loro una lettera di raccomandazione e le due partirono alla volta di Lusaka. Giunte al carcere, chiesero di incontrare Umberto Fusaroli. I carcerieri negarono che si trovasse lì. Marisa si scaldò così tanto, col poco inglese che conosceva, da intimorire o intenerire i due soldati di guardia, che alla fine la accompagnarono dal direttore del carcere. Nonostante la tragicità della situazione, o forse in sua conseguenza, Enrica scoppiò a ridere in faccia all’ufficiale, che era grande e grosso, perché le sembrava che avesse modi da frocio. Dovette rifugiarsi in bagno per calmare la ridarella, mentre Marisa si spendeva per convincerli a restituire suo marito.
Alla fine le portarono a incontrare Umberto, che in tutto quel tempo non aveva avuto contatti con l’esterno e che, vedendo comparire moglie e sorella, svenne sul posto.
All’aeroporto Umberto si dispiacque di dover lasciare nello Zambia il suo fucile da caccia, che affidò a un impiegato dell’aeroporto, certo di non rivederlo mai più. Anni dopo invece Samora Machel, eroe della liberazione mozambicana e primo presidente del Mozambico libero, sarebbe sceso da un aereo proveniente dallo Zambia col fucile di Fusaroli in mano. «Ehi, Fusaroli! Guarda un po’ cos’ho trovato in Zambia!» Come aveva fatto? Chi lo sa. Uomini così non ci sono più, assicura Marisa.
Una volta in Tanzania, il Frelimo trovò a Marisa un lavoro come cuoca, in modo da mantenere lei stessa e il figlio Antonio mentre Umberto diventava a tutti gli effetti guerrigliero del fronte. La sua esperienza come partigiano dei Gap gli fu indispensabile: «Dobbiamo essere come pulci sulla pancia dell’elefante», diceva ai suoi. Intanto i membri della Frelimo in Tanzania frequentavano il ristorante di Marisa e si facevano passare la paura dei proiettili mangiando le sue tagliatelle.
Nel ’74 la rivoluzione dei garofani in Portogallo mise fine al regime e quindi alla guerra civile: il potere coloniale crollò come un castello di carte. Umberto, Marisa e Samora Machel, trio inseparabile, appresero della fine del colonialismo dalla radio.
E così un’armata brancaleone raffazzonata alla bell’e meglio formò il nuovo governo del Mozambico. Samora presidente, un portoghese dissidente diplomato in ragioneria a capo della Banca centrale, Umberto Fusaroli ministro del turismo… E dietro le quinte, le tagliatelle e i cappelletti di Marisa. Che nel raccontarmi questi episodi si abbandona alla lingua di allora: «Per un periodo vivemmo in una Machamba… come si dice in italiano Machamba? Ah sì: fattoria».
Il paese era allo sbando. I portoghesi si erano portati via persino le matite. Avevano rubato tutto quello che c’era da rubare, e siccome non potevano portare via i palazzi, avevano colato cemento nelle tubature. Ma si era vinta una scommessa con la storia e adesso c’era da ritirare l’ingombrante premio. Toccò a Marisa allestire il primo ricevimento diplomatico del presidente Machel, che durante i preparativi, vedendola salire su una scala a pioli la rimproverò: «Scendi subito di lì! Che succede se ti fai male? Che facciamo noi senza di te?» Quella sera il piccolo Antonio, stanco di aspettare l’inizio della cena di gala, sgattaiolò in cucina e si strafogò di cosce di pollo. Samora lo scoprì, gli porse la mano per stringergliela e disse: «Complimenti: già ti piacciono le gambe!»
Marisa ripete: «Non ce ne son mica più di uomini così». Infatti l’hanno ammazzato. Sì: sul volo 1771 da Lusaka a Maputo, in un giorno di ottobre del 1986. Si ipotizza che non sia stato un incidente dovuto alla vodka bevuta dal pilota russo, come scrissero i media occidentali, ma un sofisticato complotto ideato dal Sudafrica dell’apartheid con la complicità di alcuni membri corrotti del governo di Samora.
Per Umberto e Marisa, la morte di Samora fu «un colpo da cui non ci siamo mai più ripresi», ma non un fulmine a ciel sereno. Pochi anni prima, Umberto aveva lavorato nel controspionaggio sudafricano, facendo il doppio gioco per ottenere informazioni da riferire a Samora. I due sapevano bene che nel governo dilagava la corruzione, e i tentativi di arginarla avevano il gusto amaro di una battaglia contro i mulini a vento. «L’ultima volta che l’ho visto, tremava come una foglia» sospira Marisa. Umberto comunque non rinunciò a combattere in solitario la sua guerra contro i corrotti: diventò procuratore antimafia e si trasformò nell’incubo di una delle più potenti famiglie mafiose del paese.
È per questo che nella primavera del 1991 un commando lo aspettava davanti al cancello di casa per crivellare la sua jeep di pallottole. Tre colpi lo raggiunsero, un proiettile gli sfiorò la giugulare: quando Marisa arrivò in ospedale, lui era così coperto di sangue che gli infermieri dovettero buttargli secchiate d’acqua addosso per trovare i buchi dei proiettili. Nonostante tutto era ancora cosciente, e vedendola esclamò: «Cosa urli? La Marisa che conosco io non urla. Corri nel mio ufficio e prendi i documenti della cartella grigia». In trance, lei ubbidì. Poi tornò in ospedale preparata al peggio. Ma lui era ancora lì, vivo, ricucito e incazzato nero.
Pochi giorni dopo si presentò al suo capezzale un ragazzo, raccontandogli di essere stato assoldato come suo killer ma di essersi rifiutato perché una sua cugina aveva lavorato per anni come impiegata nell’ufficio di Fusaroli. Era disposto a denunciare i mandanti. Umberto preparò una conferenza stampa a casa sua: quando arrivarono i giornalisti, lui uscì di casa per andare a prendere il ragazzo che doveva testimoniare. Di nuovo, a un incrocio di Maputo, la sua auto fu crivellata di colpi. Erano passati quarantacinque giorni dall’attentato precedente. Di nuovo Marisa corse all’ospedale convinta che fosse la fine. Ma al suo arrivo Umberto era già fuori pericolo e le chiese di andare a casa col testimone e di tenere la conferenza stampa al posto suo. Marisa si presentò ai giornalisti comprensibilmente fuori di testa, trascinando il testimone – leggermente ferito nell’agguato – che rendette la sua deposizione in diretta televisiva.
A questo punto del racconto a Marisa viene da sorridere. Forse sta rivedendo la se stessa di diciassette anni prima, o forse quella di trent’anni prima, quella che accendeva fuochi nella savana di Beira per cucinare cappelletti alla delegazione di Reggio Emilia che portava aiuti via nave al Mozambico socialista di Samora Machel.
Marisa accarezza il Chihuahua mestruato, e conclude come se niente fosse: «Comunque, le storie più incredibili non sono su di me, ma sugli animali. Le cose che ho visto fare agli animali… ci vorrebbe un libro».
Altro che grandi uomini, grandi idee e grandi sogni. Al sogno di un Mozambico libero, Umberto e Marisa hanno rinunciato infine nel 1997, tornando a vivere a Bertinoro, in provincia di Forlì. Così Umberto riassumeva la sua esperienza: «In vita mia ho vinto tutte le guerre di liberazione che ho combattuto… e perso tutte le paci seguenti». È morto per non aver rispettato la precedenza a un incrocio, a ottantaquattro anni, il 21 settembre 2007.

Torno a visitare Marisa Fusaroli Casadei dopo il mio rientro dal Mozambico, a febbraio. Mi alzo che è ancora buio per prendere il treno delle sei, e l’alba sulla campagna emiliana che lentamente si trasforma in romagnola illumina le case sventrate lungo la ferrovia, simili alle vecchie case coloniche dei portoghesi abbandonate nella savana mozambicana fra Chokwue e Chiqualaquala.
Alla stazione di Forlimpopoli Marisa viene a prendermi con Mohamed, il marito della sua amica marocchina Majouba. Anni prima Majouba aveva lavorato per Marisa come donna delle pulizie, e anche se poi aveva trovato un altro lavoro, la sua famiglia era rimasta affezionata a Marisa, e quando lei aveva bisogno di un passaggio, era Mohamed che la scarrozzava. «Hanno tre figlie bellissime» dice Marisa mentre risaliamo i tornanti della collina di Bertinoro.
Mentre li aspettavo davanti alla stazione, mi ero lasciata affascinare dalla fabbrica abbandonata alla mia sinistra. «Era uno zuccherificio» mi dice Mohamed. «Uno dei più importanti d’Italia. Qualche anno fa una direttiva dell’Unione Europea ha imposto all’Italia di chiudere alcuni stabilimenti per diminuire la produzione di zucchero, fra cui questo di Forlimpopoli».
«Tutti i campi che vedi erano coltivati a barbabietola da zucchero» continua Marisa, con il solito chihuahua che le si arrampica sul collo. «Sono figlia di contadini, contadina nel sangue per sempre. Anche noi coltivavamo barbabietole, che dopo il raccolto mio padre portava allo stabilimento». Mi immagino Marisa cantare fra le piante di barbabietola le melodie che ho sentito nei campi di Chokwue, ma in dialetto romagnolo anziché in shangane.
«Questo cane non la smette mai di mordicchiarmi» dice. E Mohamed commenta: «È perché ti vuole bene». Mi dà la sensazione di uno scambio di battute che si ripete varie volte al giorno.
A casa, mi siedo sulla stessa poltrona dell’altra volta. È una giornata di sole che va e viene. Sotto di noi, ai piedi della collina di Bertinoro, si vede l’immensa distesa della pianura padana. Casa nostra, ci piaccia o non ci piaccia. «Mi sono ricordata una cosa» dice sedendosi sulla sua poltrona. «Il padre di Umberto, quello che fu fucilato dai fascisti nel ’43 insieme a suo fratello... Quando aveva solo nove anni se ne andò in America a lavorare in un cantiere. E sai cosa si costruiva in quel cantiere? Una delle ville della famiglia Roosevelt. Antonio raccontava che il futuro presidente Roosevelt, che ogni tanto passava dal cantiere, invitava il ragazzino a bere un bicchier d’acqua. Gli diceva lunghe frasi di cui Antonio capiva solo la parola “boy”, come lo chiamava il Roosevelt. Ma gli sembrava un uomo simpatico. Forse è per questo che Antonio non divenne un anarchico come suo fratello Gaetano, ma un repubblicano. E Umberto, figlio dell’uno e nipote dell’altro, né anarchico né repubblicano: comunista. Andò in montagna per unirsi alla guerriglia partigiana a diciassette anni non ancora compiuti. Seppe della fucilazione del padre e dello zio con molti giorni di ritardo».
Fa una pausa mentre accarezza il cane. Deve aver ascoltato così tante volte certi racconti da sentirli come se li avesse vissuti. «Invece l’Enrica, ti ricordi dell’Enrica, la sorella di Umberto?»
«È quella con cui eri andata in Zambia a tirare Umberto fuori dal carcere, e lei aveva avuto una crisi isterica davanti al direttore».
Marisa sorride. «Proprio lei. Be’, aveva sedici anni la notte in cui vennero a prendere suo padre. I fascisti lo tirarono giù da letto. L’Enrica si appese alle gambe di suo padre mentre lo portavano fuori. Fu trascinata anche lei fino alla strada. Urlava come una pazza e non mollava. Le diedero dei calci finché non mollò la presa, e la lasciarono lì a terra».
Non dico niente. Marisa riprende il filo da un po’ più indietro. «Insomma, coi soldi guadagnati in America i fratelli tornarono a Bertinoro all’inizio degli anni ’30 e aprirono un piccolo emporio. Quei negozietti in cui si vendeva di tutto, che adesso non ci sono più. Dopo aver fucilato Antonio e Gaetano, i fascisti requisirono il negozio. Alle vedove sai cosa restituirono? Una scatola intera di “pagherò”. I poveracci di Bertinoro all’emporio lasciavano conti infiniti da pagare. I Fusaroli non sapevano dir di no a nessuno».
Ci spostiamo sul tavolo per sfogliare tre enormi album di foto. Un viaggio nel tempo e nel mondo. Marisa da giovane è stata una donna bellissima. Vacillo un po’ prima di azzardarmi a chiederle: «Ma non ti hanno mai detto che assomigliavi a Sophia Loren?» Lei gongola per un momento. «Sì, me lo dicevano», ma poi si imbarazza e cambia argomento. Mi immagino questa donna bellissima a dirigere la mensa di una raffineria nel sud della Tanzania, dar da mangiare cappelletti a operai e ribelli mozambicani in esilio, impastare e lavare pentole, fare conti e tenere a bada le avance con la sua lingua tagliente, la costante preoccupazione per il suo uomo sempre coinvolto in qualche lotta di liberazione.
Ci sono anche molte foto che la ritraggono con Samora Machel e la moglie Graça, che oggi è sposata con Nelson Mandela. Nella foto più divertente c’è Marisa che ride in compagnia di una bianca piuttosto anziana. «Violet» spiega lei. «Un’inglese militante del partito comunista sudafricano, in esilio in Tanzania. Era già piuttosto anzianotta quando la conobbi, e un po’ arteriosclerotica, a volte cercava di picchiarmi senza motivo. Secondo me era matta schianta anche senza l’arterio. Mi faceva un ridere…»
Arriva l’ora di pranzo: mi insegna a fare i passatelli in brodo. Vengono buonissimi. Mi chiede un po’ di me, dei miei viaggi. Nella sua vita di giramondo sui generis, un rimpianto ce l’ha: non esser mai stata in Brasile. «Del resto se andavo in Brasile mi innamoravo di un brasiliano e non andava mica bene». A proposito di Brasile, finiamo di mangiare in tempo per l’inizio della sua telenovela preferita: Terra Nostra, sui migranti italiani nel sud del Brasile all’inizio del novecento. Suona il campanello: è Zara, la figlia maggiore di Mohamed e Majouba. Viene sempre a guardare Terra Nostra con Marisa. Ha dieci anni e da grande vuole fare la pediatra. È lei che poi mi accompagna alla fermata dell’autobus per la stazione di Forlimpopoli, ma prima insiste perché passi in tabaccheria a comprare il biglietto.
Mentre l’autobus scende la collina e io guardo i campi dove una volta si coltivava barbabietola, penso a Antonio e Gaetano Fusaroli, ancora ragazzini, migranti in America. Penso a Mohamed che mi spiega le direttive europee sullo zucchero e a Majouba che vuol bene a Marisa perché è stata più amica che datrice di lavoro. Poi penso al decreto legge sulla sicurezza approvato dal governo pochi giorni fa. Ne avevo parlato con Marisa. «Marisa, non ti sembra che stiano tornando?» Le avevo chiesto. Mi aveva guardata da un mondo lontano: «Sono già qui», aveva mormorato.
Ma in casa sua, dove Zara va e viene per guardare una telenovela, arriveranno troppo tardi.

© marzo 2012 Serena Corsi