Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


La bambina lunga un secolo


A volte gli automobilisti valenciani, quando si fermano ai semafori della città rivolti a sud-ovest, si incantano ad ammirare il monte Aitana, il più imponente del País Valenciano, al punto che quando scatta il verde talvolta è necessario un colpo di clacson per riscuoterli dall'ipnosi suggerita dalla bellezza della montagna, così distante dal clima urbano e costiero della città. Sarà per questo che Aitana è diventato, se pur raramente, un nome di bambina: un auspicio di incanto e di resistenza alle intemperie.
Di certo l'anziana Balbina non si aspettava che un giorno una montagna valenciana avrebbe dato il nome a una sua bisnipote. Balbina viene infatti dalla parte opposta della Spagna, la Galizia, da un'insignificante, almeno all'apparenza, cittadina incastonata tra montagne ruvide e boschi di castagno. La cittadina si chiama Villablino, ed è quel genere di comunità dove tutti vivono benissimo senza sorprese.
Anche Balbina non deviò di un centimetro dalla via che all’epoca era considerata retta. Si fidanzò presto col dinoccolato Daniel, che già nel liceo maschile si era distinto per gli ottimi voti e per un tempo sorprendente nei cento metri ostacoli. Quando la portava al cinematografo non le teneva nemmeno la mano, nel timore che qualcuno andasse a riferirlo agli integerrimi genitori di lei, mandando all'aria il suo piano di nozze. La riportava a casa quando ancora gli altri approfittavano dei titoli di coda per rubarsi un casto abbraccio al buio, e dalla casa della fidanzata si allontanava tenendosi saldo sulla testa un cappello che lo invecchiava e lo faceva sembrare, se possibile, ancora più alto. In quelle occasioni, mentre si scioglieva la lunga treccia castana, Balbina dalla finestra lo guardava allontanarsi e provava un'indefinibile tenerezza per la sua aria perennemente assorta e severa. Una tenerezza a cui non le importava dare un nome, e in virtù della quale accettò di mutuare dal futuro marito anche le rigide opinioni politiche.
Si era infatti nel primo decennio di franchismo e il giovane Daniel non si accontentava di un'adesione formale al regime. Il suo era un fascismo viscerale, privo di tentennamenti, esteticamente comparabile al suo saltare gli ostacoli senza abbatterne alcuno, o alla meticolosità con cui al cinema si faceva assorbire dalla trama di un film muto pur di non dedicare troppa attenzione alla fidanzata al suo fianco.
Se l'intera Villablino non fosse stata in quegli anni già compattamente schierata, Daniel sarebbe diventato un abile e fedele picchiatore. E quando venne il momento fece la sua parte, esercitando un controllo autorevole sui giovani abitanti, in qualità di maestro dell'unica scuola elementare.
Si sposarono d'inverno, perché a Daniel non interessava che il paese festeggiasse per le strade la loro unione. L'autunno successivo Balbina già faticava a chinarsi al di là del pancione per raccogliere le castagne nel bosco che li proteggeva dalle valanghe.
Elena fu la prima di quattro. Poi vennero i gemelli Daniel e Jesús, che furono contemporanei per poco: a soli quattro anni Jesús cadde per le scale, andò a dormire in lacrime e con la testa dolorante, e non si svegliò mai più. Questo lutto imperdonabile fu la croce della lunga vita di Balbina, e si è trasmesso negli occhi della sua discendenza femminile sotto forma di uno sguardo impercettibilmente malinconico.
Per un po' alla spezzata Balbina costò persino occuparsi della minuscola Maria Victoria, l'ultima dei quattro, che all'epoca aveva pochi mesi portati a fatica attraverso un autunno straordinariamente piovoso. In una foto di allora, venata di piegature, il piccolo Jesús siede accanto a una minuscola Maria Victoria su un tappeto di foglie che immaginiamo gialle e arancioni, autunnali.
Nonostante Balbina fosse convinta che la morte inspiegabile di Jesús avrebbe fermato il tempo, vennero gli anni '60. La Spagna di Franco era in ritardo sul resto di un'Europa nel pieno del boom economico: i tecnocrati del regime avevano appena affidato il paese al liberismo, i cui effetti iniziarono a manifestarsi dapprima nelle città, lasciando milioni di spagnoli che vivevano lontano da asfalto e cemento in una bolla di beata ignoranza. Si può immaginare dunque quanto la vita a Villablino, un paese protetto da valli di castagni, assomigliasse a una bolla nella bolla, una parentesi di cocciuto passato nella nuova narrazione che avanzava.
Elena, la figlia maggiore di Balbina e Daniel, che qualcosa doveva aver intuito sul mondo che ammiccava dall'altra parte delle montagne, si fidanzò per corrispondenza con il rampollo dell'unica famiglia benestante di Villablino, che si era trasferito dall'altra parte del paese, a Valencia, per lavorare come ingegnere. Appena lui fu abbastanza libero dal lavoro da permettersi il lungo viaggio, tornò a Villablino, sposò Elena, le cui mani toccava per la prima volta, e se la portò a Valencia.
Ma Daniel e Balbina, che pure erano felici per aver sistemato così bene la primogenita, si sentirono orfani di un figlio per la seconda volta. Sarà per questo che non suscitò in loro l'entusiasmo dovuto l'idea dell'inquieta adolescente Maria Victoria di farsi suora di clausura il prima possibile.
Fin da ragazzina Maria Victoria perdeva tempo in lunghe passeggiate per il bosco raccogliendo castagne, frutti, fuscelli per far partire il fuoco e, su ordinazione di Balbina, funghi e piante medicinali. Già che c'era, chiacchierava con Dio. Godeva dell'intermittente silenzio del bosco, almeno quanto le sue compagne godevano del passaggio degli imbrillantinati esponenti del liceo maschile, in cortile per la ginnastica mattutina.
Tant'è che un giorno d'inverno, mentre l'insegnante di aritmetica controllava l'ubbidienza dei numeri col naso a quattro centimetri dalla lavagna, Maria Victoria aiutò la sua compagna di banco a calarsi dalla finestra del primo piano per raggiungere il fidanzatino, che si stava allenando a pallone coi compagni. Maria Victoria osservò i passi lasciati dall'amica nella neve intonsa, distanziati dall'eccitazione della corsa, e provò una gioia così limpida per l'amica, così priva di invidia, che sentì spazzato via dentro di sé ogni dubbio residuo riguardo la sua vocazione. Quel pomeriggio stesso ne parlò a Balbina e Daniel.
Balbina si preparò, come sempre, ad accettare la decisione di Daniel in un modo non dissimile da quello con cui acconsentiva alle decisioni di Dio. Ma Daniel, cogliendo di sottecchi la sofferenza della moglie, decise di prendere tempo e impose alla figlia di laurearsi, prima di fare una scelta così importante. In ogni caso una suora laureata si sarebbe resa ancora più utile al servizio del Signore.
«Allora studierò medicina, così prima di entrare in clausura mi manderanno a lavorare in Africa», buttò lì con fare minaccioso Maria Victoria, mostrando così una piccola crepa nella sua volontà di uscire dal mondo per esaurirsi nel dialogo con Dio.
Daniel decise di giocarsi il tutto per tutto e di mandarla a studiare a Valencia, dove la figlia maggiore Elena viveva in una casa dotata di carta da parati a fiori, pavimento a scacchi, televisione e stanza per gli ospiti. Sperava che l'atmosfera di città e l'aria di mare avrebbero ridimensionato la vocazione di Maria Victoria per la vita consacrata, o che almeno l'avrebbero rimandata a un'età più consona.
Alla fine degli anni '60, dopo tre anni di medicina trascorsi nell'anonimato delle aule universitarie, dove non sappiamo se Maria Victoria si era lasciata contagiare dalla serpeggiante opposizione a un regime ormai in agonia, la nostra si ritrovò tirocinante all'ospedale di Valencia, a bucherellare braccia e a inseguire nei corridoi dottori arroganti che puzzavano di profumo e con una macchia di caffè sulla gobba del naso.
Ma fu proprio in corsia che avvenne l'incontro che avrebbe cambiato il corso della sua vita.
Un giorno sentì un alterco provenire dalla stanza di un paziente. Entrò di corsa, pensando a un'emergenza, e vi trovò un'infermiera poco più vecchia di lei che insultava un tizio ingessato nella brandina. «Fascista che non sei altro!» Urlava lei, violacea.
«Comunista puttana, ti faccio arrestare», replicava lui, meno rosso di lei e meno incline allo strillo. L'infermiera passò accanto a Maria Victoria e uscì dalla stanza.
«Io non l'ho toccata» disse il tizio a Maria Victoria, con un imbarazzo eloquente.
Maria Victoria ritrovò l'infermiera che fumava da sola, sporgendosi dalla finestra della guardiola. «Non mi denuncerà» le disse, scrollando la cenere sul davanzale. «Dovrebbe difendersi per l'ennesima volta da un'accusa di molestie. Quel tipo è un fascista di merda».
Quell’infermiera era Maria del Carmen, conosciuta in tutto l'ospedale come la Pasionaria: con un'incoscienza di cui più tardi si sarebbe rimproverata, Maria del Carmen non nascondeva a nessuno le sue idee politiche e la sua avversione per il franchismo.
Per Maria Victoria quella era la prima nota stonata, o forse di colore, da quando era arrivata a Valencia, dato che per i primi anni si era limitata a frequentare le amicizie ad hoc che le aveva procurato sua sorella Elena, e a stare sui libri per ottenere al più presto la laurea che le avrebbe permesso di andare in Africa come missionaria.
Ma con la Pasionaria iniziò a condividere ben più che qualche sigaretta fumata alla finestra della guardiola. Carmen le insegnò i segreti per entrare nelle grazie dei medici più sopportabili e per sottrarsi a quelli più snob e antipatici («di destra», riassumeva ingenuamente lei). Le mostrò come gli equilibri politici della nazione si ripetessero, uguali e vergognosi, nei corridoi dell'ospedale. La invitò, come se si trattasse di una serata a carte, a una riunione della JOC, la Gioventù Operaia Cattolica, l'ala sinistra e sessantottina della Chiesa, organizzata come opposizione alla dittatura. E alla fine di una di queste riunioni, nella quale Maria Victoria si era avventurata a prendere la parola lasciando di stucco i militanti più consumati, le presentò il suo schivo e baffuto fratello Francisco, detto Paco. I due non parlarono che pochi minuti, nel corso dei quali lui manifestò il caratteraccio con cui cercava di dissimulare un'imbranataggine di fondo. Ma il frettoloso saluto lasciò nel cuore di Maria Victoria un'indefinibile tenerezza, a cui lei esitò ben poco a dare il nome di amore, e con la quale cancellò per sempre i programmi legati alla vocazione monastica, dando una nuova direzione alla passione che metteva in tutto ciò che faceva.
Non si trattava solo di Paco, ma anche e soprattutto della rivoluzione; o dei modi da copione dei leader della sommossa, così sicuri di sé, così curiosamente speculari a quelli di suo padre Daniel, il fascista; e della certezza incrollabile con cui Carmen la rassicurava sul fatto che, una volta liberati dalla dittatura di Franco, avrebbero potuto liberarsi da quella degli uomini sulle donne. Si trattava di tutto questo, e Victoria si sentiva viva come non era mai stata. Accumulò sonno arretrato per il resto della vita.
Nel 1974 il generale Franco si ammalò e fu sostituito ad interim da re Juan Carlos. Si riprese dopo poco tempo, sufficiente a concedere un assaggio di libertà a un popolo malato da oltre tre decenni di dittatura. A metà di quell'anno Maria Victoria si gettò a capofitto in un gruppo clandestino di azione diretta, in cui adottò il nome di battaglia di Paloma, “colomba”. Quando non era di turno in ospedale, lo era in un commando di sabotaggio; e nei rari sprazzi tra un'attività e l'altra, rinunciava volentieri al sonno per contare da distanza ravvicinata le briciole nei baffi di Paco. Nel pieno del tumulto, nell'apice della passione per Paco e delle notti in bianco, della doppia vita di tirocinante dottoressa e militante clandestina, per una settimana di fila Maria Victoria non solo dimenticò di telefonare ai suoi genitori per ripeter loro che andava tutto bene, ma anche di prendere la pillola anticoncezionale.
Nove mesi dopo, nell'ospedale di Valencia dove ogni giorno la Pasionaria Maria del Carmen metteva in imbarazzo la direzione sanitaria, nasceva Helena, la figlia di Paco e Maria Victoria, una bambina dai grandi occhi neri e una curiosa voglia a forma d'Africa culla coscia sinistra.
Grazie a lei sappiamo cose interessanti anche su Gabriel, il prete e militante popolare che accettò di sposare in fretta e furia i due futuri genitori, più che altro per tenere su il morale dei due galiziani Daniel e Balbina, nel frattempo informati e scioccati dal precipitare degli eventi politici e famigliari. Al momento delle nozze Gabriel intratteneva già una relazione con la Pasionaria Maria del Carmen, e durante la messa riparatrice i due evitarono accuratamente di guardarsi. Ma di lì a poco, scatenando a sua volta il panico in famiglia, Gabriel lasciò gli abiti monastici e, tra i sospiri invidiosi di tutte le giovani aderenti alla Gioventù Cattolica, sposò la Pasionaria.
Per il resto della loro vita il Gabriel e la Pasionaria si dedicarono principalmente alla difesa dello Stato laico e a un anticlericalismo convinto. Gabriel non gettò via la tonaca, ma la conservò per i carnevali a venire, dando luogo a uno episodio che entrò subito nell'album di famiglia: quando nel 1985 papa Wojtila visitò Valencia, il padre di Gabriel, convinto che i figli della coppia dovessero comunque ricevere un'educazione cattolica, portò il nipote Guillermino a vedere il Santo Padre, perché la sacralità dell'evento avrebbe influito beneficamente sul piccolo. Il quale però, vedendosi circondato da preti, cominciò a strillare: «Sono vestiti come papà! Come papà!», e il nonno dovette portarselo via con la coda tra le gambe, fulminato dagli astanti.
Si era a quel punto nei primi, ingenui e instabili anni di democrazia spagnola. Il 23 febbraio 1981 una parte dell'esercito occupò il parlamento agli ordini del generale di estrema destra Antonio Tejero. L'unica città in cui il golpe assediò le strade, invadendole a suon di carri armati, fu la nostalgica Valencia, tuttora roccaforte di destra.
Maria Victoria e Paco, noti militanti di sinistra, si organizzarono in fretta: lei con la piccola Helena in auto verso la Galizia dei genitori, lui nascosto in casa di qualche amico insospettabile. Lei lo abbracciò con forza prima di partire sgommando con Helena addormentata nel sedile posteriore; lui si illuse che quell'abbraccio e quella situazione estrema potessero stendere le pieghe formate dagli anni, dal suo caratteraccio, dai litigi senza sosta. A Maria Victoria, al contrario, quell'abbraccio impacciato e tardivo fece capire che le loro strade si erano già divise, qualunque cosa accadesse da quella notte in poi. Ma non era il momento per pensarci. Guidò tutta la notte immaginando angosciata cosa ne sarebbe stato del paese che stavano cercando di costruire; di tutti loro che si erano esposti così tanto, dei figli che ormai avevano messo al mondo.
Arrivò in Galizia che era giorno fatto. La piccola Helena cominciava a fare domande sul perché non erano tornate a casa a dormire e su dov'era papà, e Maria Victoria rispondeva sempre più nervosa, resa inquieta dalla calma surreale, identica a quella di sempre, dei paesini sulla strada per Villablino, dove scrutare i volti indifferenti dei passanti alla ricerca di indizi su quello che stava succedendo alla nazione, era un esercizio vano.
Parcheggiò davanti alla casa della sua infanzia poco prima dell'ora di pranzo. Scese dall'auto prendendo la bambina in braccio, anche se Helena già camminava perfettamente, come se dovesse correre a metterla al riparo da un fulmine, o da una bomba.
E sua madre Balbina, che non l'aspettava, aprì la porta e si precipitò incontro all'abbraccio della figlia, e per una volta l'accolse prima ancora della nipote, perché sapeva che Maria Victoria era spaventata, mentre Helena solo stupita dalle convulse e incomprensibili decisioni degli adulti.
E così straordinario era quel momento, che a Helena rimasero impresse nella memoria le parole della nonna: «È appena finita, mi hija. Li hanno arrestati. Siamo ancora in democrazia».
Anche nonno Daniel, che a stento parlava con la figlia dopo la gravidanza inattesa e la virata a sinistra, uscì ad abbracciarle, serio e altero come sempre, compostamente felice che le due non avessero passato quella notte da brivido a Valencia, compostamente sollevato dal fatto che una nuova dittatura non avesse eretto un muro insormontabile tra sé e la figlia minore. Quella che da ragazzina voleva farsi suora.
Maria Victoria decise di non rovinare quel pranzo di tregua rivelando che aveva appena deciso di divorziare. Ma dopo aver messo a letto Helena e aver pianto al telefono con l'amica Carmen, un po' per la felicità di quello che non era successo alla Spagna, e un po' per la tristezza di quello che stava per succedere a lei, decise di andare a fare una passeggiata nel bosco dove da bambina raccoglieva castagne, quello che proteggeva la sua casa dalle valanghe nei lunghi inverni galiziani.
In seguito si rese conto che in quel pomeriggio, passeggiando nel bosco, si era concluso un capitolo della sua vita, come una cerniera che si apriva dando un senso a ciò che era trascorso, ma anche alla sua voglia di pensare a un futuro organizzato secondo regole nuove. La militante di sinistra e la moglie paziente avevano ormai fatto la loro parte.
“Camminare in montagna, ed Helena, sono le cose che mi danno più gioia al mondo”, pensò mentre si toglieva le scarpe sulla porta di casa. Dentro, suo padre dormiva sulla poltrona. Balbina rigovernava in cucina. «Mamma», le chiese senza pensare, «come fai a sopportarlo ancora?»
Balbina sussultò. «Mi hija, ma che domande fai?»
Maria Victoria si pentì, sorrise, rimediò come poteva. «Scusa».
«È mio marito» tagliò corto Balbina.
Non intendeva semplicemente dire che ormai era suo marito. Era un po' come se sua madre si fosse offesa per la critica, mossa da un'altra donna, al proprio gusto in fatto di uomini.
Quando Victoria gli chiese il divorzio, Paco decise che l'avrebbe odiata per sempre e non le rivolse mai più la parola, se non per ciò che riguardava strettamente la gestione di Helena. E quando la figlia fu abbastanza grande da amministrare da sola la relazione coi due, Paco tagliò del tutto la comunicazione con l'ex moglie.
Insomma a partire dal 1992, anno delle olimpiadi di Barcellona e diciassettesimo nella vita di Helena, i due non si videro né si parlarono più fino al 2010, quando si incontrarono all'ospedale di Valencia per stringere la manina della nipotina Aitana e per scambiarsi un altro abbraccio tardivo e impacciato, mentre Helena, dal letto zuppo di sudore, si chiedeva, vedendoli di nuovo insieme, con quale sforzo di immaginazione quei due potessero essersi amati.

Ma torniamo agli anni '80. In realtà, sentimentalmente parlando, Paco avrebbe avuto ben poco di cui lamentarsi. Appena un anno dopo il divorzio da Maria Victoria si era fidanzato con l'arredatrice Maritere che, secondo le dichiarazioni di Helena, era una delle donne più festaiole dell'emisfero boreale, la sintesi dei diversi cliché sulle incontenibili donne spagnole. Era lei a trascinare nella movida valenciana l'adolescente Helena, la ragazzina con una sola treccia ricciuta.
L'inarrestabile Maritere amò Paco fino a che non fu evidente che, a forza di vivere in mondi diversi, quello che abitavano insieme si era ridotto a niente. Dopo più di un quindicennio (secondo Helena, la testimone dai grandi occhi neri che pure lo adora, non è facile spiegare perché donne meravigliose siano rimaste anni, decenni accanto a Paco) lei ormai lo ascoltava litigare da solo, in quel suo eterno brontolare che un tempo aveva trovato affascinante.
Soprattutto temeva di finire risucchiata come lui in una rassegnazione depressa da reduce. Lei non voleva odiare la Spagna che la circondava. Certo, i loro sogni di ragazzi non assomigliavano affatto al Partido Popular di Aznar ora al governo, né avevano a che fare con quegli imbroglioni degli anni '90 che col loro cemento avevano rosicchiato chilometri all'adorata campagna, e nemmeno con l'invasione di droghe sintetiche grazie alle quali Valencia era diventata porto preferito delle mafie del Mediterraneo; ma Maritere si sentiva ancora troppo viva per rinchiudersi a maledire tutti da lontano.
Un giorno dell'inverno 1998 si fece trovare intenta a mettere le sue cose in una valigia. Aveva pensato a lungo alle parole con cui dire a Paco che se ne andava, ma in fondo lui non era il tipo che si ferma ad ascoltare un discorso d'addio, quindi tanto valeva improvvisare.
Paco la aiutò a traslocare, ma a modo suo: non appena si fu allontanata con le prime cose stipate nella sua familiare blu metallizzata disseminata di cicche di sigaretta, trascinò tutti i mobili di Maritere in mezzo alla strada. Maritere non fece in tempo a tornare a recuperarli che i vicini, drogati dal boom immobiliare in corso, se n'erano già portati via la metà.
Lei e Paco non parlarono mai più dei mobili, né di nient'altro: Maritere prese il posto di Victoria nel personale cassetto dell'odio di Paco, che sprofondò finalmente nella depressione che lo aspettava al varco da diversi anni. Con masochistica soddisfazione si arrese al fatto che non si sarebbe mai più innamorato in vita sua. D'altra parte era ancora meno probabile che una donna si innamorasse di lui: un cinquantenne che usciva di casa solo per necessità, e che quando lo faceva si comportava da misantropo senza filtri. Per fortuna la sorte non ha altro da fare che sconvolgere i nostri piani, soprattutto quando tendono alla piattezza di una vita insopportabile.
L'unica donna che poteva innamorarsi di Paco in queste condizioni era una che lo aveva amato in tempi migliori. Il telefono di Paco squillò mentre era sul divano a fumare la nona sigaretta della mattinata e a crogiolarsi ascoltando un malinconico disco di León Gieco. Sbuffando, sollevò la cornetta convinto che fosse Helena, che lo chiamava ogni santo giorno per spingerlo a uscire di casa, per fare qualcosa, anche solo una passeggiata...
«Francisco?»
«Sì. Chi parla?»
«Sono Mercedes Barrul. Ti ricordi?»
Paco aveva conosciuto una sola Mercedes Barrul. Ma non la vedeva da quasi quarant'anni.
Era stata la sua fidanzatina quando ne aveva diciassette. Si erano lasciati perché il padre di lei l'aveva mandata a Madrid all’università, per nulla convinto da quel ragazzino con velleità ribelli che la sua Mercedes s'era messa a frequentare. Lui, che non era riuscito a convincerla a rimanere a costo di tagliare i ponti con la famiglia, ferito nell'orgoglio e abbandonato nei fatti non aveva poi risposto a nessuna delle sue lettere.
Quando Mercedes aveva fatto ritorno a Valencia, diversi anni dopo, la dittatura era quasi finita e il futuro di Paco aveva assunto la forma della figlia Helena. Mercedes sapeva che Paco stava attraversando “un periodo difficile” (usò proprio queste parole, come niente fosse, rischiando che la comunicazione si interrompesse all’improvviso), e insomma pensava che sarebbe stato carino rivedersi, bere un caffè insieme, riassumersi quattro decenni (usò proprio queste parole, come si trattasse di raccontarsi una vacanza che guarda caso era durata tutta la vita).
A Paco sembrò follia pura. Pensava già a quello che avrebbe detto a quella stronza impicciona di sua figlia. Tuttavia un barlume di educazione era ancora vivo in lui, e anziché troncare bruscamente fece per accampare scuse, per scoprire che Mercedes era rimasta testarda al limite del capriccioso, come da ragazzina. Probabilmente era addirittura peggiorata.
E infatti in capo a un'ora eccola lì, che suonava il suo campanello mentre lui svuotava in fretta e furia i posacenere.
Per un po' fu una cauta amicizia. Questo almeno era il parere dello scettico Paco parlando con il suo confessore più spietato, l'amore più duraturo, l'amica invincibile: la figlia Helena, che intanto aveva ventiquattro anni, e grandi occhioni neri, una voglia a forma d'Africa sulla coscia sinistra e un amore alle prime armi per la fotografia.
Un giorno lui le disse: «Sai, ora questa Mercedes, che tipa!, mi ha regalato un libro... ma non so se lo leggerò, sembra piuttosto lungo».
«Che libro è?» Chiese lei, distrattamente.
«Uno di Marquez. L'amore ai tempi del colera».
Helena spalancò gli occhioni, prese fiato, aprì la bocca, poi la richiuse.
Alla fine disse solo: «Leggilo, papà».
Da quel momento smise di preoccuparsi per lui.
Ora, ultrasessantenni, Paco e Mercedes coltivano insieme le famose arance di Valencia. E ogni volta che lui mugugna, lei pensa a quel ragazzino moro che con le lacrime agli occhi aveva cercato di convincerla a rimanere; quel ragazzino che per la prima e ultima volta in vita sua aveva implorato a una donna di restare al suo fianco.

Nel frattempo Maria Victoria, la quasi suora, la tirocinante medico, la militante, la madre di Helena dai grandi occhi neri, aveva sostituito la passione per la politica con quella per la montagna. Dopo la passeggiata nel bosco della sua infanzia, non aveva più smesso di respirare il mondo dall'alto. E come era stato per tutte le passioni della sua vita, si era tuffata anche in questa senza mezze misure.
Diversi anni dopo il divorzio da Paco cominciò a uscire con un aviatore inglese, a cui si dedicò piuttosto distrattamente, tutta presa dai preparativi della spedizione spagnola sull'Everest del 1992, anno delle olimpiadi di Barcellona. Rimase nel campo base per due mesi, affidando a chi scendeva a valle le lettere da spedire via fax alla figlia, la diciassettenne Helena. Nelle lettere però non raccontava delle vette raggiunte grazie alla travolgente passione esplosa tra lei e Moises, un altro alpinista della spedizione, madrileno e più giovane di lei di nove anni.
Con il ritorno in Spagna, all'aviatore inglese venne dato il benservito, ma la convivenza con Moises venne comunque rimandata, perché ormai si era in autunno inoltrato e di lì a poco i due Adamo ed Eva di Villablino, Balbina e Daniel, sarebbero venuti a godersi il tiepido inverno valenciano. E anche se erano passati più di dieci anni dalla separazione fra Maria Victoria e Paco, i due non erano pronti per essere messi a parte della presenza di un nuovo concubino. Così il povero e assai innamorato Moises si trovò un lavoro a Valencia, ma dovette andarsene a vivere in una stanza in affitto.
Victoria ogni notte aspettava che gli anziani genitori andassero a letto per uscire di nascosto e restare con lui fino all'alba. Una volta, al rientro, fu sorpresa da Balbina che infornava una torta. «Sei stata a scalare una montagna?» Le chiese la madre, con un'ombra di ironia ma senza traccia di disapprovazione. Nessuna delle due aggiunse altro.
Da allora Victoria prese a uscire di casa subito dopo cena, quando Balbina e Daniel erano ancora svegli e la giovane Helena si preparava a distribuire volantini o indire manifestazioni per l'indipendenza della Catalunya. Ma forse è proprio grazie a quel breve e intenso periodo di adolescenziale clandestinità che l'amore fra i due dura ancora oggi.
D'altra parte, per dirla con le parole di Helena, è vero che non ci sono molti uomini che si innamorano e poi rimangono tutta la vita appresso a una donna di dieci anni più vecchia; ma ci sono ancora meno donne che scalano l'Everest.

Helena, figlia di Paco e di Maria Victoria e della loro lotta contro la dittatura, è di una generosità disarmante. Di quella generosità furibonda che hanno ogni tanto le persone di sinistra (quelle di destra ce ne avranno pure, di generosità; ma di altro tipo).
È di questa generosità sempre in piena che si innamorò il giornalista militante Joan, nella primavera del 2005, quando la conobbe a un incontro nazionale di periodici di movimento, a Barcellona. Era un periodo convulso per chiunque si occupasse di politica: solo un anno prima Al Qaeda aveva messo in ginocchio Madrid con una serie di bombe sui treni dei pendolari, e la Spagna viveva l’inizio dell'epoca Zapatero, nella sua fase nascente, immacolata, ingenua.
Helena era venuta a Barcellona in rappresentanza di un settimanale di Valencia che navigava nelle tempestate acque del dissidio interno. Era già fidanzata e si fermò a Barcellona solo pochi giorni, ma Joan, di solito posato e irriducibilmente razionale, dopo averla conosciuta non riuscì più a pensare ad altro e nelle settimane a venire mandò in stampa diversi articoli pieni di errori e punteggiati di H.
A maggio riuscì a convincere un amico di ritorno da un viaggio in Andalusia a passare da Valencia, e per quella notte chiese ospitalità a Helena. I tre risero e chiacchierarono tutta le sera, vagando per Benimaclet, il quartiere bohemièn della città. Quando rincasarono l'amico si addormentò provvidenzialmente sul divano, e i nostri si ritrovarono a dormire nello stesso letto.
Helena, ostentando buona fede e sicurezza di sé, si sdraiò sul fianco rivolta verso Joan. Lui rimase per un po' immobile a fissare quelle palpebre chiuse a saracinesca, poi riuscì ad agguantarle la mano e la tenne avvolta con la sua per tutta la notte, senza aggiungere altri gesti a quelli che Daniel non aveva mai azzardato con Balbina.
Il giorno dopo Helena spense con sollievo la sveglia che finalmente si decideva a suonare, e lo salutò con una freddezza che mascherava piuttosto bene un maremoto interiore. Raccontò poi di aver passato la notte a chiedersi cosa significava quella mano intorno alla sua, dominando il senso di colpa verso il fidanzato che lavorava nella vicina Alicante, ma incapace di sciogliersi da quell'abbraccio di sole falangi.
Joan tornò in una Barcellona che trovò insipida, in una primavera giallastra che fino a quel momento aveva saputo di autunno. Dandosi per vinto, Joan si fece coraggio tornando a scrivere, sul suo giornale militante, dei cambiamenti epocali che stavano contagiando vari paesi dell'America Latina, e cominciò a sognare di andare alla fine dell'anno in Bolivia, per seguire le elezioni presidenziali che vedevano candidato il cocalero indigeno Evo Morales.
Una settimana dopo quella notte di mani intrecciate, Joan trovò Helena che lo aspettava davanti alla porta della redazione, a Barcellona. Lei aveva il fiatone come se avesse corso, un modo come un altro per non farsi uscire il cuore dagli occhi. Lo salutò, seria e tranquilla, come se non avesse percorso più di trecento chilometri per incontrarlo, come se fosse arrivata fin lì per parlare di politica, dei matrimoni gay, dell'ultimo comunicato dell'Eta, di...
Si arrese, lasciò cadere lo zaino e lo abbracciò così stretto da togliergli il respiro. Lui rimase per lunghi secondi immobile con le braccia lungo i fianchi e gli occhiali storti impigliati nei riccioli di Helena, a contare i fiocchi di polline che nuotavano nell'aria.
Quella stessa notte decisero di considerarsi già sposati, e il giorno dopo annunciarono a parenti e amici che si preparavano al viaggio di nozze in Bolivia, dove giunsero a dicembre per seguire la travolgente vittoria di Evo Morales, il primo presidente indigeno nella storia dei paesi andini...
Lui scriveva, lei scattava foto. Ed è così che continuarono a fare negli anni seguenti in diverse parti del mondo, fino alla fine del 2008, quando decisero di trasferirsi a Johannesburg per fare i corrispondenti free lance da un Sudafrica che si preparava a ospitare i mondiali di calcio del 2010. Lì conobbero un'aspirante giornalista italiana che li intenerì col suo entusiasmo e la sua passione per la giustizia, così simile alla loro.

Nel settembre di quell'anno controverso di mondiali di calcio, esattamente due mesi dopo la dolorosa sconfitta del Ghana nei quarti di finale contro un cinico Uruguay, è venuta al mondo Aitana. Aitana come il nome di una montagna valenciana, bisnipote della galiziana Balbina che, rimasta vedova al giro di boa del millennio, si era trasferita definitivamente a Valencia dalla figlia Maria Victoria e dal genero Moises, che adorava e che a volte, per sbaglio, chiamava Jesús, come il suo bambino caduto dalla bicicletta, che era andato a letto con la testa dolorante e che non si era mai più svegliato.
Balbina non si perde una messa da novantatré anni, a costo di alzarsi e tornare a sedersi davanti alla televisione, in obbedienza a un rito che si svolge via cavo; eppure va al matrimonio civile dei vicini gay portando una gigantesca torta alle castagne fatta da lei, la stessa che offre quando i due la invitano a pranzo. Alle elezioni nazionali continua a votare Partido Popular, per abitudine e fedeltà al marito morto, ma a quelle locali vota Izquierda Unida perché vi è candidato, appunto, uno degli adorati vicini gay.
Quasi completamente sorda, dialoga più che altro per intuizione. Si fa mettere la piccola Aitana sulle ginocchia e si vede bene che le due, separate da un secolo saturo di eventi, si guardano negli occhi e si capiscono perfettamente.

Le notizie più recenti dicono che Balbina quest'anno punta a morire. Da qualche tempo perde cinque chili all'anno, e siccome ora ne pesa trentacinque, in realtà di anni gliene resterebbero sette. Ma, dico, una vecchia che muore scomparendo cinque chili all'anno, fino all'ultimo grammo... non c'era già, da qualche parte, García Márquez, in questa storia?

© ottobre 2011 Serena Corsi