Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


La marea di São Luís


Sul lungomare di São Luís, la capitale del Marañhao brasiliano, per scendere nell’acqua invece di un molo o di una banchina ci sono una manciata di gradini. Sono solo tre quelli che si vedono quando la marea è alta; sono più di una decina invece quelli che bisogna percorrere per arrivare a lambire il fango lasciato dall'oceano che si ritira e lascia sguarnita la baia.
Lì si capisce perché per i locali non esistono i concetti di alta o bassa marea, bensì solo quelli di marea che riempie e marea che svuota: due fenomeni che è impossibile cogliere come momenti separati l'uno dall'altro.
Tra il punto più basso raggiunto dall'acqua e quello più alto c'è una delle differenze più grandi che si registrano al mondo: stando seduti su quei gradini a contemplare la baia, l'alta marea dà un senso di potenza, talvolta di euforia. La bassa marea ha un effetto simmetricamente opposto: dà un senso di desolazione che toglie l’aria dai polmoni. Infonde stanchezza e malinconia, e sarebbe capace di spazzare via qualunque speranza anche da un pensiero ostinatamente ottimista.
Sensazioni così distanti possono essere avvertite nell'arco di poche ore. Questo, e la conformazione della costa, hanno fatto della baia di San Marco una trappola per i pirati e i conquistatori, che non sono mai riusciti ad espugnare la città arrivando dal mare. Alle stranezze della geografia terrestre si sommano poi la vicinanza all'equatore e l'influenza di una luna a portata di mano, tutte caratteristiche che rendono São Luís una città completamente folle, una risacca di energia da cui scappare o da cui lasciarsi portare, costi quel che costi.

La ragazza italiana si trovava a São Luís già da un paio di mesi quando arrivò alla pousada un nuovo ospite che portava con sé un piccolo zaino di vestiti e una grossa valigia piena di libri.
Lei non aveva mai visto nessuno viaggiare con tutti quei libri. Eppure di viaggiatori ne aveva ormai incontrati di ogni tipo: quelli che hanno viaggiato così tanto che si portano dietro il cipiglio presuntuoso di non avere più nulla da imparare; quelli che hanno viaggiato così poco che in realtà pensano solo alla fine del viaggio, all’umore che susciterà negli altri il loro ritorno a casa; e quelli che hanno viaggiato abbastanza e si perdono ore e ore a sfiorare con lo sguardo cartine geografiche dei luoghi che hanno conosciuto.
Il fatto è che più tempo si impiega ad attraversare un posto, più tempo si può trascorrere a guardarlo, dopo, tatuato sulla cartina come dentro di sé. A meno che quel posto non sia quello di partenza, quello che in un’altra vita si era chiamato casa.
Quando Elizeo, il viaggiatore che portava con sé tutti quei libri, passava accanto all'enorme cartina del Brasile appesa nel salotto della pensione di São Luís, i suoi occhi non vi si soffermavano mai. Fu così che la ragazza italiana intuì da dove veniva: da quel Brasile immenso e magico in cui ora entrambi si trovavano. Era per questo che, a differenza degli stranieri di ogni altra coordinata, Elizeo passando davanti alla cartina guardava sempre altrove, come fanno le persone quando non sono sicure di voler incontrare il proprio sguardo in uno specchio. Preferiva starsene appoggiato per lunghi minuti a una finestra che dava sul passaggio pedonale dove si trovava anche il mercato, cuore storico della città.
Una sera la ragazza italiana fu incuriosita dal suo starsene immobile al davanzale a quell'ora un po' anonima, quella che nelle città brasiliane precede l'odore di riso e fagioli che sottintende la cena, l’ora che introduce il rito collettivo della telenovela serale, che una volta conclusa in un’apoteosi di suspense dà finalmente diritto alla festa, o al sonno, o all'amore in qualsiasi forma purché sia. Quell'ora lui stava a godersela dalla finestra, spettatore del brulichio di persone due piani più sotto. Quanto a lei, aveva bisogno di un po' di terraferma, perché se le stranezze di São Luís travolgono il viaggiatore distratto e lo fanno fuggire, nondimeno lambiscono quello attento, abituato e persino attratto dagli avvenimenti insoliti. In pochi mesi era già stata ospite di un carpentiere con una paralisi facciale che costruiva case senza porte; aveva conosciuto un poeta calvo e sempre ubriaco che spuntava dagli angoli più disparati offrendole bicchieri d'acqua o di cachaça come se fosse la stessa cosa; aveva scambiato opinioni con diverse coetanee che svendevano le proprie serate a vecchi irlandesi, per di più innamorandosene perdutamente e maledicendo le loro mogli; era inciampata in un libro che le era letteralmente piovuto dal cielo, precipitando dal nulla sul selciato della strada dove stava camminando. E ora aveva bisogno di chiudere fuori dalla porta tutti quei personaggi in cerca d'autore, alcuni dei quali, se non bastasse, sembrava avessero il brutto vizio di leggerle nel pensiero.
Così quella sera ricordò la montagna di libri che aveva intravisto nella stanza di Elizeo una volta che Raimundo, il proprietario della pousada, stava cambiando le lenzuola: cullò per un istante la speranza di parlare di letteratura con qualcuno per una notte intera, di prendere una boccata d’aria dalle stranezze di São Luís, e senza pensarci due volte fu lei a fare il primo passo invitandolo a mangiare dalla vecchia sul molo, quella che, avvolta in un turbante d’unto e di fumo di braciere, non faceva nulla per non sembrare una strega mentre serviva riso e spiedini all'aperto a pochi passi dai gradini che scendevano nel mare.
Elizeo si girò e sorrise, grato della sua intraprendenza. Scesero le scale insieme, lei trottando giù per i gradini, lui più lento, senza mai perdere il contatto con il corrimano arrugginito.
Divenne immediatamente un'abitudine. Di quelle abitudini che si formano in viaggio, che in pochi giorni si consolidano come se stessero ripetendosi da anni. Di giorno, ciascuno alle sue vicissitudini, prigioniero o cacciatore delle stranezze e della seduzione della città, dei suoi mercati di amache e di gamberi secchi, del suo odore di pesce, frutta tropicale e spazzatura, dei riflessi delle mattonelle di azulejos lasciate dai colonialisti portoghesi, del respiro collettivo dettato dalla marea. Dopo il tramonto invece si ritrovavano seduti sui gradini del lungomare per consumare il riso con la farofa e gli spiedini di pollo della strega, con la scatolina di cartone unta appoggiata alle ginocchia: poi, dopo aver oltrepassato sulla strada del ritorno le bancarelle d’artigianato e dolci stucchevoli, rientravano nella pousada e passavano ore stesi nel letto di lui. Senza sfiorarsi. Ciascuno dei due aveva solo voglia di stare un po' in compagnia, di avere il tempo di raccontare servendosi di parole scelte con cura dal mazzo di quelle possibili. Come se fosse una prova generale di quando avrebbero dovuto mettere mano ai propri ricordi per fare un po' d'ordine.
Oppure, sdraiati vicini, leggevano entrambi il proprio libro come una coppia sposata da tempo, in un silenzio del tutto privo di tensione. Si conoscevano da una manciata di ore, eppure in quelle ore lui aveva pianto spesso, e lei era riuscita a trattenersi sapendo che in viaggio capitano anche incontri in cui, decisamente, tocca all'altro piangere. Sia che parlassero, sia che stessero in silenzio, dalla brezza che entrava dalla finestra riconoscevano la fase della marea nella baia di S¬ãn Luís do Maranhão: quando era sufficiente a muovere le tende macchiate, e a drizzare un filo di pelle d'oca sui corpi vestiti al minimo, allora la marea stava crescendo. Quando era l'aria spessa della stanza a uscire dalla finestra, prosciugando il fiato che emettevano con le parole e coi sospiri, la marea si abbassava, lasciando nel canale di São Marcos un pantano di pesci agonizzanti e di gabbiani avvezzi a quella routine mortifera.
Lei ammise che quando era arrivato alla pensione, qualche giorno prima, l'aveva trovato subito bellissimo, ma nel modo contaminato in cui si trova bello qualcuno perché ci ricorda qualcun altro. In realtà non erano belli né Elizeo né il qualcun altro, ma lei in quei giorni aveva voglia di casa. Per questo, prima di trovare il coraggio di avvicinarsi, lo aveva fissato negli occhi tante volte, con la sensazione di dover rinvenire il punto di equilibrio del suo strabismo di venere. E si era incantata a osservare il movimento delle sue grandi mani. Forti e veloci a intrecciare collane d'argento. A soppesare pietre preziose. A legarsi i capelli riccioli in un batter d’occhio. A lavarsi con grosse manciate d'acqua il corpo piccolo e asciutto.
Lui non l'aveva vista bella, ma i guizzi del suo sguardo l'avevano incuriosito. E poi, per la prima volta dopo molto tempo, aveva bisogno di conforto. Di un'amica che non sapesse nulla di lui, eppure lo aiutasse a scalare la montagna di roccia liscia, senza appigli, dell'impresa che lo aspettava: ritornare a casa dopo dieci anni. O che gli dicesse, al contrario, che non ne aveva proprio il coraggio, che in fondo tra dieci anni e una vita intera non c'è tutta questa differenza; che da quel ritorno così a lungo rimandato aveva molto da perdere e poco da guadagnare.
Cinque giorni dopo l'arrivo di Elizeo, vennero l’ultima sera e l'ultima notte insieme. La prima ora, quella trascorsa sui gradini ad aspettare l'alta marea, fu come al solito un flusso di parole inarrestabile. Libri e filosofia. Luoghi del mondo e lingue. Storie e personaggi. Durante la seconda ora cominciarono a sorgere i primi ostacoli: distanze, certezze dell'uno che l’altro aveva rabbiosamente respinto. Alla fine della terza ora di quell'ultima notte insieme si erano capiti così bene che provavano una vaga, reciproca antipatia. Ma ancora di più avevano bisogno di essere ascoltati l'uno dall'altra.
Sulla strada del ritorno alla pensione lei si fermò sul marciapiede e confessò qualcosa che non aveva ancora detto: ammise di non aver risposto a una lettera molto importante. Ma lui, senza smettere di camminare, le ricordò che il silenzio è l'unica risposta esatta.

Elizeo le aveva raccontato di aver attraversato mezza America Latina con uno zaino pieno di libri, quasi tutti grandi classici. Perché porti con te questi libri?, chiese finalmente lei all'inizio dell'ultima notte.
Per farmi coraggio, rispose lui. I libri mi ricordano che la mia è solo una storia tra le tante.
La sua storia non era esattamente una tra le tante. Alla fine degli anni novanta era stato un rampollo della classe media brasiliana, con un futuro brillante nel campo della speculazione filosofica. Era sempre stato un ragazzo malinconico e piuttosto inquieto, e i suoi genitori furono molto felici che questa tendenza a rimuginare su tutto si stesse concretizzando in una carriera universitaria anziché in un appariscente tormento interiore da artista incompreso, o dio sa che altro. Così Elizeo nel 1997 era partito da San Paolo per una borsa di studio a L'Avana, a ventotto anni appena compiuti, entusiasta all'idea di trascorrerne almeno due anni a Cuba prima di concludere il prestigioso dottorato.
Come unica appendice a un futuro che si annunciava glorioso, lasciava dietro di sé una fidanzata storica – alcuni anni di tira e molla per poi decidere di non andare a vivere insieme, i genitori che si conoscevano e si trattavano già da consuoceri, gli amici che tifavano in silenzio per l'annuncio delle nozze – con la quale la travolgente passione degli inizi si era spenta da tempo, soppiantata da una solida ma noiosa intesa. Dentro di sé fantasticava di lasciarla dopo qualche mese di vita cubana, immaginandosi felicemente naufragato tra le braccia di una brillante dottoranda che gli gridasse nell'orecchio sconcezze in uno spagnolo dall'inconfondibile accento caraibico.
Le prime telefonate tra San Paolo e L'Avana già anticipavano la fine: un faticoso mettersi al corrente portato avanti come un dovere. Decollato dalla vita passata e sicuro di essere felicemente atterrato nella nuova, Elizeo cominciò quasi subito a sognare in cubano, e malgrado si fosse ripromesso di conquistare una brillante collega alla sua altezza dal punto di vista intellettuale, dopo pochi giorni stava già baciando come un forsennato una simpaticissima mulatta in una bettola di Cayo Hueso, il quartiere che sorge sotto l'università dell'Avana. Quando la mattina dopo rispose al telefono, ancora sbronzo e con la mulatta che miracolosamente aveva preferito dormire al suo fianco piuttosto che svignarsela nella notte col suo portafogli, la fidanzata a San Paolo gli disse che aveva appena scoperto di essere incinta.
Elizeo le rispose senza giri di parole che non ne voleva sapere, e fu freddo anche nel modo di salutarla. Poi scese a camminare per la calle San Lazaro, l'arteria che taglia in due Cayo Hueso e conduce fino all'enorme scalinata che porta all'università. Elizeo salì qualche decina di gradini e si sedette per guardare la città che doveva essere sua per i prossimi anni, e che in quella domenica mattina si stiracchiava per scuotersi di dosso le tracce del rum. Sotto di lui la città dava la sensazione di un'enorme baia urbana, in balia della risacca lasciata dalla marea alcolica della sera precedente. Si alzò preda dell'inquietudine, e ricominciò a camminare. Non sentiva dubbi dentro di sé, solo il vago fastidio di qualcosa che sporca progetti che avrebbero potuto realizzarsi restando incontaminati.
Tornò sulla calle San Lazaro, e la camminò per tutta la sua lunghezza. Attraversò l'avenida de Infanta, che aveva già deciso essere la più bella della città, e come al solito assaporò il modo in cui le colonne tagliavano la luce sotto i portici colorati. Lasciò alla propria destra l'Hermanos Ameijeiras, l'ospedale più grande della città, e schivò i cani randagi che rovistavano nell'immondizia radunata agli incroci delle strade. Lasciò strombazzare le auto anni cinquanta trasformate in taxi collettivi che lo invitavano a salire, superò l'hotel Deauville e la sua discoteca sotterranea, dove si era già procurato un paio di sbronze, attraversò San Nicolás e Galiano, dove si fermò a comprare un dolcetto al cocco da un volenteroso pasticcere domenicale. A un solo isolato alla sua sinistra percepiva lo scintillio del mare, che schiantava le sue onde sul muretto del Malecón. Di solito era sul lungomare che Elizeo faceva le sue passeggiate per liberarsi dai postumi della sera prima. Ma quella volta aveva deciso di ignorare il suo richiamo, e arrivò fino all'Avana Vecchia per le strade interne, scegliendo infine una bottega fuori dalla zona turistica per bersi una birra che lo aiutasse a liberarsi della risacca.
Tanto in qualche modo doveva finire, continuava a ripetersi.
Un bicchiere dopo l'altro, si fece pomeriggio. Uscì dalla bottega per trovare altrove un qualsiasi compagno di bevute. Ma quel giorno stranamente il mondo rimaneva alla larga. Così continuò a bere da solo finché fece buio, poi salì barcollando su un taxi collettivo che risaliva San Lazaro e tornò nella sua stanza, dove l'anonima mulatta gli aveva lasciato un biglietto sgrammaticato.
La mattina seguente si svegliò perfettamente lucido e senza il minimo mal di testa. Quella sera tornò a ubriacarsi, ma di nuovo, il giorno dopo, era più lucido che mai. Per due settimane si ubriacò ogni notte. Temeva che se fosse rimasto nella sua stanza la nostalgia lo avrebbe rapito e avrebbe finito per telefonare alla sua fidanzata, spendendo un patrimonio e giocandosi il futuro. Ma l'incredibile era che per quanto bevesse, il giorno dopo si svegliava senza un filo di risacca, sempre più lucido e brillante. L'ultima di quelle mattine si risvegliò da un incubo: la sua ex fidanzata era morta dissanguata dopo l'aborto clandestino. Angosciato, chiamò a casa di lei. La linea ronzava come avrebbe dovuto fare la sua testa. La madre, che fino a poche settimane prima lo considerava un figlio, gli rispose secca: «Mia figlia è a L'Avana da una settimana» e riagganciò.
Elizeo rimase a letto. Non si mosse finché lei non bussò alla porta.
«Preferivo aspettare la tua chiamata da qui», spiegò la ragazza. Lui pensò, confusamente, che qualcosa negli ultimi tempi doveva averla resa più bella. Cercò di sdraiarla sul letto, mentre lei sussurrava: «Hai vinto, ho abortito». Lui sentiva la voce di lei storpiata, piena di eco. Iniziava la risacca, una risacca accumulata in giorni e settimane, che ora saliva con un ritmo inesorabile di marea. Alla fine lei si rivestì, e guardandolo dritto negli occhi gli disse: ho già scopato con un altro. Non mi fai più niente. Buona vita.

La deriva fu breve e rapida, e lo portò dritto dritto all'ospedale psichiatrico dell'Avana, dove trascorse tre mesi. La crisi più acuta era ormai passata quando i suoi genitori scoprirono cosa gli era successo e mandarono sua sorella a riprenderlo. Ma Elizeo rifiutò di andarsene con lei.
Nella sua vita c'era molto spazio da riempire, dal momento che aveva deciso di cancellare tutto quello che aveva vissuto fino a quel momento. In questo spazio entrò una psichiatra di mezza età che lo tenne in terapia nei tre anni in cui Elizeo rimase a vivere a L'Avana per combattere i suoi demoni.
Lei era affascinata e intenerita da quel brasiliano tormentato che proclamava di non poter tornare a casa, di doverne trovare un'altra nel mondo. Lui trovava così tanto sollievo nelle domande e nelle risposte di lei che a un certo punto, quando decise di lasciare finalmente la città, si convinse di esserne sempre stato innamorato e cercò di conquistarla. Lei gli spiegò sorridendo che era perdutamente innamorata di suo marito, «uno più matto di te». E per dimostrarglielo se lo portò a pranzo a casa, dove Elizeo dopotutto si divertì ad ascoltare quest’uomo baffuto che cantava a squarciagola dei boleros per lei, mentre il figlio adolescente scrollava le spalle e scuoteva la testa imbarazzato.
Dopo il pranzo a casa di lei, Elizeo e la dottoressa camminarono per la città mano nella mano. Non c'era stato bisogno di spiegare perché sentivano il desiderio di salutarsi da soli, e istintivamente scelsero le strade secondarie che attraversavano il quartiere Nuovo Vedado per tornare a Cayo Hueso, dove Elizeo aveva ancora la sua stanza. Davanti alla porta, lui la salutò stringendola più forte che poteva e poi baciandole una mano in segno di gratitudine. «Non ha funzionato molto», ribatté la dottoressa, «se non ti sei convinto a tornare a casa». Lui ricambiò col suo sorriso malinconico, le rispose che avrebbe avuto sempre bisogno di lei e le promise che sarebbe tornato a L'Avana per vederla almeno una volta all'anno. Concluse dicendo che meritava un uomo che la amasse nel modo folle in cui l'amava suo marito. «Rimetti a posto la tua vita» rispose lei. «Hai tutte le carte in regola per farlo».
Tornando a casa dai suoi uomini, la dottoressa Yoani si accorse di guardare L'Avana con gli occhi di Elizeo.
Per la prima volta, trovò la sua città bella come solo uno straniero avrebbe potuto vederla.

Di lì a pochi giorni Elizeo sarebbe partito alla volta del Messico: in una spiaggia fuori L'Avana aveva conosciuto un colombiano che si occupava del commercio di pietre preziose, ne era diventato amico facendogli da Cicerone nella città che ormai conosceva come le sue tasche, e infine si era lasciato convincere a diventare suo socio.
Nella scelta e nella lavorazione delle pietre Elizeo si rivelò un autentico talento, e dopo qualche anno si mise a lavorare da solo: Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia, poi di nuovo Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia...
Colombia. Un giorno in un caffè di Bogotà, dove un cliente gli aveva dato buca, due ragazze attaccarono bottone con lui dicendo che l'avevano notato per «le mani belle come quelle di mio nonno José» – proprio così disse la più mora delle due, intrigandolo subito.
Le due condividevano un appartamento nel quartiere bohemién della città. Dopo due giorni di racconti sulle sue peripezie da commerciante di pietre preziose – non chiesero nulla del suo passato, e meglio così, altrimenti avrebbe mentito come faceva sempre: troppo complesso e doloroso raccontare cosa gli era successo a Cuba – Elizeo si trasferì da loro. Aveva un po' di denaro da parte e voleva goderselo con leggerezza in quella città che l’aveva sempre attratto coi suoi pericoli e le sue nefandezze.
Insieme crearono un limbo di serenità che lui non sospettava potesse attenderlo da qualche parte. Era almeno dieci anni più vecchio di loro, ma da tempo non si sentiva così a suo agio con qualcuno. C'era stata la dottoressa, ma lei non era certo una persona di cui prendersi cura, e a cui insegnare qualcosa: agli occhi delle due ragazze si rendeva conto di trovarsi sullo stesso piedistallo su cui lui a suo tempo aveva messo lei e la sua saggezza, e la tenerezza matura con cui lo guidava.
Doveva fermarsi poche settimane, ma passarono i mesi. I tre leggevano ad alta voce e parlavano fino all'alba. Cucinavano insieme. Alle ragazze capitavano uomini idioti dei quali lui ridendo diceva, all'una o all'altra, è un tonto; ma tu sei stronza. Si sentiva perfino abbastanza bene da chiamare sua madre una volta al mese, e non un paio di volte l'anno come si era abituato a fare – ne erano passati otto da quando era partito per L'Avana, e non era mai più tornato; quando per telefono lei gli chiedeva di spedirgli almeno una sua foto, lui diceva di sì e poi non lo faceva, e continuava a interromperla quando lei provava a dargli notizie delle persone che aveva lasciato tanto tempo prima a San Paolo.
Stava così bene che un giorno scrisse alla dottoressa per dirle che quella primavera non sarebbe tornato a trovarla, come aveva fatto, puntuale, ogni anno. Lei non gli chiese perché, o dov'era e con chi, ma rispose solo quello che gli aveva sempre risposto: è ora che torni a San Paolo, Elizeo.

Due anni più tardi, appoggiato sul davanzale di una pensione nel cuore di São Luís do Maranhão, Elizeo era ancora a pezzi per la fine della storia d'amore con una delle due colombiane, quella delle mani del nonno José, che l'aveva trascinato in una spirale di gelosia e possesso da cui sarebbero potuti uscire solo mettendo fra l'uno e l'altra qualcosa di grande e spaventoso come l'Amazzonia.
«Eppure io non sono sempre stato come mi vedi» disse lui alla ragazza italiana durante la quinta ora di quell'ultima notte, quando tutta l’aria era ormai uscita dalla stanza per spingere l’acqua della baia in mare aperto, prosciugando il fiato dei dormienti. «Io ho conosciuto il mondo, e sono stato felice».
Se non altro, tutto quel dolore lo aveva portato a decidere finalmente di tornare a casa. Ma per la strada più lunga: via terra, attraverso la foresta. Almeno fino a São Luís. Le raccontò che era stato un viaggio bellissimo, nuovo ogni giorno, guastato solo dai momenti in cui commetteva l'errore di entrare in un internet caffè per vedere se lei gli aveva scritto, e cosa gli aveva scritto, di chi proclamava di essersi innamorata, e quanto stava bene senza di lui.
Era arrivato a São Luís, l'ultima tappa, in un'alba di lunedì, con il centro vuoto in cui echeggiavano i suoi passi, la Pousada Internacional dall'altra parte della strada e un biglietto aereo per San Paolo da lì a cinque giorni che gli pulsava in tasca.
Eccolo lì. L'ultima stanza delle migliaia in cui aveva dormito, prima di tornare a casa dopo dieci anni. Si era buttato sul letto della camera in fondo al corridoio e poi, visto che il sonno non arrivava, si era messo a estrarre tutti i suoi libri dallo zaino, uno per uno, religiosamente. Era un rito che finiva sempre per rilassarlo. Ma ora c’era quel pensiero che non lasciava la sua testa, martellante, spaventoso: lo stavano aspettando. Tutti quelli che avevano conosciuto il primo Elizeo a San Paolo dovevano essere informati del suo imminente ritorno, dopo dieci anni di pellegrinaggi e nuove vite. Immaginava la notizia diffondersi veloce come quella di una morte. Manco solo io, si disse: lo sanno tutti tranne me, che sto tornando a casa.
Ho bisogno della mia dottoressa, ecco di cosa. Della mia dottoressa.
«Fammi una foto», disse alla ragazza italiana l'ultima ora di quella notte prima della partenza, all'improvviso. «Fammi una foto con la tua macchina digitale, che la spediamo via email a mia sorella».
«Perché, se domani la rivedi?» Si stupì lei.
«No, non domani. Né lei né nessun altro. Quando arrivo all’aeroporto di San Paolo, mi rimbarco direttamente per L'Avana. Ho deciso».
«Sarà terribile», disse lei d'istinto, «ti sembrerà di essere di nuovo sul volo di dieci anni fa, quando partivi per il dottorato».
Lui tacque.
«Bisogna tornare a casa almeno per dire addio», aggiunse ancora la ragazza italiana, brancolando nel buio, balbettando consigli troppo ingombranti per quella stanza stretta, e infine tacendo.
«Ma non è una questione di filosofia» mormorò piano Elizeo perdonando le parole avventate di lei. «È la mia vita».
Si addormentarono poco dopo. Intanto l’acqua, di ritorno dal suo viaggio nell’oceano, tornava fedele a riempire la baia, e l’aria salata a lambire le tende e ad accarezzare le lenzuola, conciliando sonno e sogni.

Si risvegliò nella stanza vuota. Al culmine della marea Elizeo si era alzato, aveva preso zaino e vestiti, e se n'era andato lasciando tutti i suoi libri lì con lei.
Ovunque avesse infine deciso di andare, c'era andato a mani vuote.

© febbraio 2012 Serena Corsi