Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


Non piangere per me, Argentina


Buenos Aires è una città autunnale, da foto in bianco e nero. Per quanto sia viva e avida di futuro, pare costantemente declinata al passato. È una questione, si direbbe, di vicinanza con un'epoca in cui si stava tutti come sugli alberi le foglie. Il vento dell'oceano assedia la città solo d'inverno, esaltando gli spifferi delle case, quasi tutte senza riscaldamento. Quando invece potrebbe dar loro sollievo dall'estate australe, che va da dicembre a febbraio, si aggroviglia a spirale sulla foce del Rio de la Plata, nelle cui acque venivano gettati i corpi degli oppositori al regime militare di Videla negli anni '70. Un curioso caso di castigo climatico.

Nell'estate straordinariamente calda fra il 2005 e il 2006 passeggiavo lungo i suoi marciapiedi, scavalcando le radici dei tigli che spaccavano l'asfalto. Marsupio penzoloni sul fianco sinistro, consultavo la cartina della città e compilavo liste di appuntamenti con persone coinvolte nella resistenza alla dittatura di trent'anni prima, sedendomi appena potevo in uno dei meravigliosi bar tipici della città: di quelli polverosi che fanno angolo, tappezzati di vecchi poster del Boca Junior, coi tavolini allineati lungo vetrate che danno sulla strada. Da quei tavolini si possono vedere le mani dei passanti, fuori, sfiorarsi per sbaglio.
Non era un momento qualunque per tornare sul tema della dittatura militare. La fine dell'estate avrebbe coinciso con l’immenso corteo del 24 marzo, a trent’anni esatti dal golpe del 1976 che aveva dato inizio a una delle più sanguinose dittature della storia.
Come buona parte del Sud America, l'Argentina negli anni '70 era stata il banco di prova del “Plan Condor”, il piano ordito dalla Cia di Henry Kissinger per fare tabula rasa di un'intera generazione di militanti di sinistra e scongiurare il pericolo socialista nel “cortile di casa” degli Stati Uniti. Ma in nessun altro luogo questo tritacarne funzionò così bene come nel paese del tango. Dal 24 marzo 1976, notte del golpe che mise fine al governo fantoccio di Isabelita Perón, al 1983, ultimo anno della dittatura, sparirono nel nulla trentamila persone. Quasi tutti ragazze e ragazzi intorno ai vent'anni.
Trent’anni dopo quella notte di marzo, prologo di un lungo autunno delle coscienze, io camminavo nel corteo ad memoriam insieme al collettivo dei figli dei desaparecidos, chiamati semplicemente Hijos, figli.
Molti dei ragazzi di Hijos, adottati dalle famiglie degli aguzzini che avevano imprigionato i loro genitori naturali, avevano scoperto la loro vera identità con decenni di ritardo, e ora urlavano a perdifiato la loro rabbia nei viali affollati di quella città che nonostante tutto amavano.
Gli Hijos si erano inventati un modo non violento per farsi giustizia, gli escrache (“sputtanamenti”): rintracciavano un ex torturare amnistiato dalla legge, circondavano la sua casa e distribuivano volantini con tanto di foto per spiegare il suo ruolo negli anni del regime. Visto che la legge argentina era piuttosto blanda riguardo ai fatti precedenti il 1983, il progetto di Hijos era che l’intero condominio in cui i torturatori vivevano diventasse il loro tribunale, costringendoli a restare confinati in casa dalla condanna morale dei vicini. Il motto era “Ni olvido ni perdón”, né oblio né perdono. Alla faccia del perdono cristiano suggerito da una Chiesa le cui gerarchie avevano suggellato un patto di morte coi capi di stato maggiore dell'esercito: “Iglesia, basura, vos sos la dictadura”. Chiesa, spazzatura: sei tu la dittatura, si scandiva quel 24 marzo lungo l'Avenida de Mayo, che collega la piazza del Congresso alla più celebre Plaza de Mayo, assiepata ogni giovedì pomeriggio dalle famose Madri, che avevano cercato i loro figli scomparsi per mesi, anni, poi per sempre.
Fra gli Hijos avanzava Eduardo, maestro elementare di professione, zapatista per adozione e speaker della radio la Tribu, storica radio comunitaria di Buenos Aires. Camminando al suo fianco mi venne da pensare che se fosse stato un animale sarebbe stato certamente un orso: per la quantità di peluria, per la statura imponente, ma soprattutto per la tenerezza verso i suoi e la simmetrica ruvidità verso tutti gli altri, di cui faceva un unico mazzo composto da fascisti, americani, bigotti.
Davanti al caffè Tortoni, il più chic della città, con i suoi infissi d'epoca e la sua anticaglia nobile, si fermò a estrarre dallo zaino l'inseparabile thermos di acqua calda. Eduardo infatti era anche un imbattibile bevitore di erba mate. Me ne offrì dicendo: “Ci sono solo due cose importanti nella vita. Una è il mate. E l’altra... non è così importante”.
Eduardo avrebbe potuto essere il papà dei suoi compagni di collettivo. Nel 1977, nel primo anno di dittatura militare, era già un noto attivista politico, nonostante i suoi vent'anni appena compiuti. A giugno di quell'anno si trovava in clandestinità a Mar del Plata, la sua città natale, a circa quattrocento chilometri da Buenos Aires. Durante l'incontro settimanale con il compagno che lo teneva aggiornato, impallidì nell'apprendere il messaggio che questi portava. “Hanno sequestrato tuo padre. Non ne abbiamo notizie da sei giorni”.
Gregorio, il padre di Eduardo, era un regista teatrale molto conosciuto. Nel 1971 aveva tenuto una rappresentazione nel teatro municipale di Mar del Plata per ben settecento spettatori, cosa che ancor oggi gli vale un'insegna di riconoscimento all'ingresso del teatro, oltre all'invidia imperitura dei moderni teatranti, che si accontentano di un decimo di pubblico.
Eduardo, dopo aver saputo del sequestro del padre partì su due piedi alla volta di Buenos Aires. Che mi prendano, si diceva, incosciente. Che mi prendano al suo posto, si ripeteva. Aveva l'insopportabile dubbio che avessero sequestrato suo padre per dare una lezione a lui, ben più apertamente coinvolto nella resistenza alla dittatura. Anni dopo si convinse che suo padre in realtà fosse un avversario politico molto più pericoloso di lui, a causa di quello che era capace di trasmettere nei suoi spettacoli.
Eduardo entrò in due commissariati di quartiere dove si diceva portassero i prigionieri politici. Un folle, in tempi in cui a stento le persone trovavano il coraggio di salutarsi per strada, nel dubbio che i loro cenni venissero scambiati per ammiccanti sovversivi.
Da un poliziotto piccolo e baffuto, che ancora oggi impila scartoffie in un ufficio pubblico, Eduardo si sentì dare questa risposta: “Gregorio Nachman... l'attore? Ah sì: comunista, frocio e pure ebreo”. Lui trattenne il fiato, sentì girare la testa. Ma il poliziotto si limitò a scrollare le spalle: “Da qui non è passato nessun Nachman. Sarà finito a Broadway”. E sorrise, mellifluo. Eduardo uscì con la pungente sensazione di essere arrivato troppo tardi nel posto giusto.
Nonostante il freddo che non dava pace, camminò a lungo per San Telmo, uno dei quartieri più belli di una città che si rifaceva il trucco per i mondiali di calcio che l'Argentina avrebbe ospitato l'anno successivo. Eduardo camminava per questa città sconosciuta, che un giorno sarebbe diventata la sua, dimenticando persino di rabbrividire se un'auto rallentava al suo fianco. In quel momento gli sarebbe sembrato giusto, adeguato, essere sequestrato a sua volta. Cominciava già dentro di lui a prendere corpo l'inguaribile colpa del sopravvissuto.
A notte fonda rientrò nella casa dei compagni che lo ospitavano. Si limitò a scuotere la testa alle domande di circostanza che gli venivano rivolte, e si buttò nel letto, certo che suo padre fosse morto. Si addormentò singhiozzando.
Ma è difficile convincersi della morte di qualcuno che si ama e che non si è potuto seppellire. Così la mattina dopo Eduardo era di nuovo pieno di speranze.
Sapeva che quel pomeriggio sarebbe arrivato in città un rappresentante della Croce Rossa Internazionale. Una visita formale, utile al regime per placare le voci dei dissidenti che all'estero bussavano alle porte delle istituzioni per denunciare quello che stava accadendo in Argentina.
Facendosi trovare all’uscita della conferenza che il rappresentante aveva appena tenuto, lo afferrò per la giacca e riuscì a dirgli questo: “Oggi pomeriggio andrò a chiedere notizie di mio padre nel quarto commissariato di San Telmo. Se alle cinque in punto non riceve una mia telefonata al suo albergo, venga a chiedere di me”.
Il mondo intero fingeva di non sapere cosa stava succedendo in Argentina, tanto che l’anno dopo vi si sarebbero celebrati i mondiali di calcio – naturalmente vinti dall’Argentina, che in finale batté l’Olanda, doppietta di Kempes, premiato da un generale Videla baffuto e in doppiopetto – mentre i prigionieri politici nei sotterranei del terrore sussultavano al ritmo alternato dei cori da stadio e delle scariche elettriche, finché perdevano i sensi sognando di essere sommersi da una montagna di coriandoli bianchi e azzurri come la bandiera nazionale.
Insomma, Eduardo aveva buoni motivi per temere che il tizio della Croce Rossa se ne infischiasse di lui e della sua storia. Eppure alle cinque e dieci di quel pomeriggio un’auto con le insegne dell'istituzione si fermò davanti al commissariato dove Eduardo era entrato qualche ora prima per dire che suo padre era stato arrestato illegalmente, e quindi per chiedere che fosse restituito vivo.
L’autista scese e domandò di lui, mostrando con discrezione il logo della Croce Rossa. In auto, il rappresentante fumava una pipa fingendosi interessato all'architettura ottocentesca, malinconica, del quartiere. Scese a bere un caffè cortado, metà latte e metà caffè, in uno dei tanti bar che fanno angolo su due strade, coi tavolini addossati alle vetrate, così che da fuori si possano vedere i fidanzati sfiorarsi le ginocchia sotto il tavolo.
Gli consegnarono Eduardo massacrato di botte, sì e no cosciente. L'autista guidò verso l'aeroporto Ezeiza attraversando l'immensa periferia della città, composta più che altro da villas miserias, le favelas argentine, dove i giovani militanti di sinistra andavano a insegnare a leggere e scrivere a quella gente che non aveva nemmeno diritto a un'istruzione. Attività che veniva considerata sovversiva e che comportava l’arresto, poi la tortura, e infine un tuffo di duemila metri nell'atlantico.
L'emissario della Croce Rossa affidò Eduardo al responsabile di una compagnia aerea brasiliana e se ne andò al proprio imbarco per la Svizzera, dove aspettò l'aereo guardando le foto delle sue due figlie, una identica a lui, l'altra alla moglie.
Il nostro invece si ritrovò su un volo per San Paolo, a guardare dal finestrino con la bocca piena di sangue, squadrato dagli altri passeggeri e ignorato il più possibile dalle hostess. Nella megalopoli visse esule per cinque anni, cercando inutilmente di avere notizie di suo padre. Finché la speranza non si distaccò da lui come una placenta: non del tutto, ma abbastanza da renderlo capace di rifarsi una vita.
Nel 1982 la dittatura era ormai in ginocchio, condannata a morte non da una riscossa popolare, ma dall'insana idea dei generali di dichiarare guerra all'Inghilterra per il possesso delle isole Falkland, al largo della Patagonia argentina. Nei discorsi della gente tornava a circolare, con un po’ di fiducia, la parola democrazia.
Nel 1983 Eduardo capì che non correva più rischi e tornò a lavorare a Buenos Aires come maestro elementare. Moltissime persone mancavano all'appello, le madri di Plaza de Mayo urlavano la loro angoscia al mondo intero, ma lui era deciso a ripiegarsi nel personale, convinto di aver pagato la sua parte, schiacciato dal peso di una sconfitta resa definitiva dalla fine della dittatura e dalla pacificazione vigliacca che ne era seguita.
Incontrò una donna più bella e più ottimista di lui, una che sembrava adatta a scrivere un finale positivo a una storia tragica, e la sposò rapidamente, deciso a far dei figli, come se per quadrare i conti bastasse mettere in circolazione del sangue nuovo.
In realtà non riusciva a leggere abbastanza rimpianto negli occhi di quelli che erano rimasti in silenzio per tutti quegli anni. “Algo habrán hecho”, era la frase che rimbalzava nei discorsi di chi aveva permesso che accadesse tutto ciò che era accaduto, girandosi dall’altra parte nei momenti opportuni. “Se sono stati arrestati, qualcosa avranno fatto”.
Ci sarebbero voluti decenni per cancellare l'idea che i ribelli alla dittatura fossero stati in qualche modo corresponsabili del clima di terrore, che se la fossero andata a cercare.
Anche a Eduardo ci vollero anni per cancellare l'idea di essere stato responsabile della scomparsa di suo padre. Sua moglie aspettava già la primogenita Paula quando lui le confessò che suo padre non era morto di malattia, come le aveva sempre raccontato, ma era uno dei trentamila desaparecidos del paese.
Fino ad allora se ne era vergognato profondamente, come se i geni della violenza e del dramma si potessero trasmettere ai figli. Sua moglie restò stupita, più che dal contenuto della rivelazione, dal suo ritardo. Ora diversi pezzi dell'uomo che aveva al suo fianco andavano finalmente al loro posto: Eduardo aveva sempre avuto l'aria di uno che, se anche di giorno riesce a sfuggire ai suoi fantasmi, paga il conto di notte, in un sonno sudaticcio e saturo di incubi.
Con l'emozione suscitata dalla nascita prima di Paula e poi di Alejo, Eduardo sentì tornare a galla anche il rancore che aveva trattenuto negli anni. Entrò in un tunnel di depressione che gli costò il divorzio dalla moglie, che non era riuscita a sopportare il carico di rabbia espresso da questo nuovo Eduardo, un estraneo invasato di politica, impellente creditore di giustizia.
Si chiudeva così il sipario sui maledetti anni '80. Un po’ alla volta la gente cominciò a trovare il coraggio di raccontare la verità su quello che era successo; dapprima col balbettio dei reduci ancora sotto shock, poi con l'ira di chi aveva subito un torto insopportabile. All'inizio degli anni '90, durante il primo tragicomico governo di Carlos Menem, un impresario in odore di mafia, nella società intorpidita tornarono a formicolare forme di vita e di resistenza.
Fu così che Eduardo incontrò altri figli di desaparecidos, molti dei quali poco più che ragazzini, e insieme nel 1995 fondarono un'associazione che si chiamò semplicemente Hijos, figli.
Da quando si sono trovati, quelli di Hijos si muovono sempre insieme, alla volta di una manifestazione o di un'escrache e, racconta Eduardo, c'è sempre qualche buontempone che alla domanda: “Possiamo andare? Manca qualcuno?” risponde: “Sì, mancano mio padre e mia madre!”. Li lega un'amara fratellanza, al punto da poter sorridere quando scherzano sul vuoto da cui sono nati.
Ancora oggi, quando la sua Fiat Uno si rompe e lui si ritrova su un autobus a Buenos Aires, magari il 189 che fa il giro intorno a Plaza de Mayo, Eduardo si sorprende a guardare dal finestrino, a cercare il volto di suo padre fra quelli dei passanti. Migliaia di sguardi, in quella città, fanno come lui. Anche quando sono convinti di pensare ad altro, fanno come lui. Anche quando si ripetono che la vita è andata avanti e la dittatura è finita, cercano il volto di un famigliare o di un amico in quello dei passanti.
Sarà per questo che, anche per chi viene da lontano e non ha vissuto quegli anni di macelleria, guardare dal finestrino di un autobus a Buenos Aires dà la sensazione di attraversare una lunga sequenza di foto in bianco e nero.
Un volto dopo l'altro, su fogli svolazzanti. Per chilometri e chilometri.

Pochi giorni dopo quel 24 marzo ero in una cabina telefonica all’angolo tra l’Avenida Corrientes e la 9 de Julio – la strada più larga del mondo, sostengono gli argentini – all’ombra dell’obelisco che compare in tutte le cartoline della città. Cercavo Merce, una documentarista di Mallorca con cui collaboravo e che mi aveva appena dato buca. Temevo che fosse per via della malattia di suo padre Esteban, e non mi sbagliavo.
Anche i genitori di Merce avevano ottenuto l’asilo politico a San Paolo alla fine degli anni settanta. Suppongo che avessero incrociato almeno una volta, a una riunione di esuli argentini o semplicemente su un marciapiede stracolmo di persone, un giovane di Mar del Plata robusto e leggermente strabico, barbuto e disorientato, che si sarebbe presentato come Eduardo Nachman, figlio di Gregorio, attore e regista teatrale sequestrato nel giugno del 1977.
A sentire questo nome loro si sarebbero emozionati moltissimo, e avrebbero raccontato di quella fuga d'amore che aveva fatto infuriare i loro genitori: all'epoca erano solo due liceali, con tanta voglia di vedere il mare, che avevano preso il treno per Mar del Plata, città costiera a circa quattro ore dalla capitale. L'avevano trovata però in piena bufera, forse proprio in conseguenza alla loro mattana. Perché valesse la pena aver fatto quel viaggio, e perché avessero un senso i ceffoni che li aspettavano al ritorno, decisero allora di andare a teatro, a vedere l'ultimo spettacolo di un regista che nella città costiera aveva riscosso un discreto successo.
Eduardo a quel punto della conversazione avrebbe chiesto loro di quale spettacolo si trattasse, ma Esteban non ricordava quasi nulla, erano passati anni e durante lo spettacolo lui era stato troppo impegnato a baciare forsennatamente la sua ragazza, l'unica che avesse mai avuto, e a proteggerla dalle gocce d'acqua che di tanto in tanto precipitavano dal soffitto sulla frangetta castana, un po' gonfia, di lei. Qualcuno alle loro spalle li aveva rimproverati dicendo loro che certe cose si fanno al cinema, non a teatro. “Allora domani cinema!” aveva sussurrato lui all'orecchio di lei.
Al termine di questo racconto i tre esuli sarebbero quindi rimasti in silenzio, ad assaporare un ricordo che sapeva di innocenza perduta, il confine prima dell'abisso.
Perché nel 1977, pochi anni dopo quei baci a teatro, la situazione era già ampiamente precipitata. Lei era incinta di Merce, e per poter mettere al mondo la piccola senza che finisse nelle mani dei vermi che nel frattempo avevano preso in pugno il paese, i due avevano solo una speranza: scappare da Buenos Aires.
Così avevano salutato i loro amici d'infanzia, che poi erano stati compagni di banco e infine di resistenza al regime, dicendo loro: “Vi ammazzeranno, se restate”, e questi scrollando le spalle avevano risposto semplicemente: “Andate a mettere al mondo questo figlio. Prepariamo un'Argentina migliore”.
Dopo un anno in Brasile, i suoi erano riusciti ad arrivare a Mallorca, in una Spagna fresca di democrazia. Negli anni '90 erano ancora lì, genitori di tre figlie adolescenti e consapevoli del fatto che la loro Argentina era uscita dalla dittatura per diventare un paese relativamente ricco ma quanto mai ingiusto, popolato di fantasmi e criminali in libertà.
L'esilio è una malattia così profonda che spesso chi ne soffre rinuncia persino a sentirsi ammalato. È un malizioso, anarchico motore di nostalgie che può rendere estranee tra loro le persone più intime, scaraventare in direzioni opposte anime gemelle, seminare indifferenza, antipatia. Troppo è il peso della storia collettiva sulle vicende personali.
Quella vita da esiliati che dapprima aveva cementato il loro amore, divenne il motivo del suo sgretolamento. Alle giovani figlie lui raccontava storie eroiche di resistenza alla dittatura che finivano sempre male. “Così cresceranno paranoiche, amareggiate come noi” diceva lei. “Per cosa ce ne siamo andati, allora?”
“Per cosa sono morti i nostri amici, allora?” Ribatteva lui.
Lei non gli avrebbe perdonato le sue provocazioni, lui la sua caparbietà di scegliere il presente a dispetto del passato.
Esteban si crogiolò nella sua vita spagnola fino al fatidico dicembre del 2001. Più precisamente al 19 dicembre 2001, giorno in cui l’economia argentina collassò e il sogno della Svizzera dell’America latina si infranse contro un muro di debiti. Troppo tardi per rimediare; il paese venne venduto ai migliori offerenti, e venne diffusa la notizia che i pesos dei risparmiatori si erano volatilizzati dalle banche. Da un giorno all’altro bisognava ricominciare tutto daccapo. Un’occasione che non capita quasi mai e di cui, potendosi permettere un po’ di saggezza, bisognerebbe in qualche modo essere grati: non prima però di aver messo a ferro e fuoco una città.
Da una televisione in un salotto di Mallorca, Esteban guardava bruciare la sua Buenos Aires, e si diceva che finalmente quella stronza bruciava come avrebbe dovuto fare venticinque anni prima. Finalmente.
Disse a sua moglie che il momento era arrivato: “L’esilio per me finisce oggi”, proclamò con un'epica verbale che non usava dai tempi del ciclostile clandestino di San Telmo, quello che mettevano in funzione in uno scantinato proprio sotto alle finestre del quinto commissariato, riuscendo sempre incredibilmente a non farsi scoprire.
Sua moglie lo strinse come non faceva da anni, perché Esteban era ancora, dopotutto, il padre delle sue figlie, e lei aveva dannatamente paura di quello che poteva succedere al paese, in Argentina. Ma non cercò di dissuaderlo.
Esteban si imbarcò sul primo volo disponibile, la vigilia di Natale del 2001. Quella notte lei, strappandosi pezzi di pelle dalla fatica, tirò fuori dallo scatolame in soffitta fotografie che non aveva mai più avuto il coraggio di guardare da quando era cominciata la seconda parte della sua vita, in un altro continente; e dopo averle guardate, chiudendo gli occhi si immaginò di rivedere con gli occhi di Esteban la città, quella città, la loro. E i tigli in fiore nella zona dell'università, e i marciapiedi spaccati dalle radici, e le insegne luminose dei cinema dell'Avenida Corrientes, e un suonatore di fisarmonica che cercava di mantenere l'equilibrio a bordo del 189, e i bar con le vetrate che davano sulla strada e gli sguardi assorti di chi da dentro guardava fuori, e le librerie di libri usati dove da studentessa si fermava ad annusare quelli più ingialliti, e i ragazzini con la maglia della nazionale che palleggiavano nella strada di casa, e il mate offerto da uno sconosciuto in biblioteca, e il tono petulante di sua madre, e il fottuto inno nazionale alla radio...
Esteban sbarcò in un paese in cui tutto doveva ricominciare. Erano passati ventiquattro anni dalla loro fuga, ma restava il fatto che più di metà della sua vita era trascorsa lì, in quella Buenos Aires che ora ritrovava orfana e disorientata, ma viva. Leggeva negli occhi della gente la caparbietà che allora era mancata, vi vedeva un rimedio tardivo ma comunque commovente.
Col suo curriculum europeo Esteban non faticò a trovare un lavoro pagato un sesto di quello che sarebbe stato pagato in Spagna; si unì a una delle assemblee di quartiere che spuntavano come funghi, entrò in un collettivo politico. Sia a casa che in auto la radio era sintonizzata su La Tribu, una radio comunitaria nata nel 1989, che diffondeva nell'etere, e in una comunità messa a dura prova, collera e speranza. Da quelle frequenze ogni venerdì pomeriggio un certo Eduardo, suo coetaneo, figlio di un teatrante desaparecido, gli ricordava che con i vermi c’erano ancora delle questioni in sospeso. Quella voce profonda e amica era la prova che la sua generazione non era stata completamente sconfitta, e ora ai pochi esemplari rimasti veniva concessa una nuova possibilità.
Telefonò a sua moglie a Mallorca e senza molti preamboli le disse che aveva deciso di rimanere a Buenos Aires, a pareggiare i conti con la sua città e con la sua nazione; con la sua vita, era il senso. Le disse che se voleva poteva venire anche lei: i risparmi spagnoli laggiù avevano un discreto valore. Non sapeva bene che risposta augurarsi, ma era suo dovere proporlo.
Lei declinò, greve, risparmiandogli quelle spiegazioni che avrebbero dato il via a un dialogo doloroso che nessuno dei due meritava. Con più leggerezza lo mandarono al diavolo le due figlie minori, ventenni con poco interesse per la politica e le cose del mondo, terrorizzate all’idea di salire su un aereo pochi mesi dopo l'undici settembre.
Solo Mercedes, detta Merce, che aveva vissuto da dentro la pancia di sua madre il dolore della fuga e dell’esilio, promise a suo padre che al più presto sarebbe andata a trovarlo. Parlando con lui si era accorta che a Buenos Aires suo padre era tornato a essere finalmente tutto intero.
Gli insegnò a usare la mail, poi skype, poi la webcam; si conobbero meglio così che quando vivevano nella stessa casa con vista sul mar Mediterraneo, e tutto era apparentemente in ordine, nel paese che avevano scelto e nelle loro vite.
E fu proprio a Merce che, qualche anno dopo, lui raccontò in un'imbarazzata mail di aver incontrato nel collettivo politico una donna coi capelli lunghi, mezzi neri e mezzi grigi, a casa della quale si sarebbe trasferito di lì a poco, nel cuore del quartiere popolare di Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo.
E fu sempre a Merce che scrisse un'altra lettera, ancora più tardi, per dirle che gli era stato diagnosticato un tumore. Allora Merce, che nel frattempo si avvicinava ai trent'anni e aveva trasformato la passione per i documentari in un mestiere, e che poco tempo prima era tornata nel paese in cui era nata – il Brasile – per girarne uno sul forum sociale di Porto Alegre, decise che era arrivato il momento di fare un documentario sulla città in cui era stata concepita e da cui era stata scacciata ancora prima di nascere. Sarebbe stato anche un modo per essere vicina a suo padre impegnandosi in qualcos’altro, per non asfissiarlo con la paura che, trent'anni dopo essere scappato dall'Argentina per sopravvivere, ci fosse tornato per morire.
Qualcuno le aveva parlato di una radio che trasmetteva dall’interno dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires: la radio si chiamava La Colifata, La Pazzerella, e Merce cominciò a frequentarla per conoscerne i pazienti-radioamatori e fare un film su di loro.
Ed è lì, in un sabato pomeriggio di trasmissioni in diretta, nel dicembre 2005, che io e Merce ci siamo conosciute: mi colpirono i suoi modi dolci eppure determinati, il suo umorismo vitale, le sue mani piccole e sicure che impugnavano come nulla fosse una telecamera enorme. Con i pazienti dell'ospedale era a suo agio come se li avesse conosciuti da sempre, e con loro poteva giocarsi la carta dell'accento argentino per evitare gli scherni che invece toccavano a me, inguaribilmente europea.
La malattia di Esteban però continuava a peggiorare. Niente e nessuno riuscì a convincerlo a tornare in Spagna a provare nuove cure. “Tornare?” Replicava lui. “Io sono già tornato”.
Merce invece, finiti i risparmi e concluso il documentario, si ritrovò di nuovo a Mallorca per lavorare ad altri progetti. In Spagna era arrivato l'autunno e in Argentina la primavera: sentiva suo padre tutti i giorni, nell'ora in cui in Europa si va a cena e laggiù la luce del pomeriggio inonda le stanze rivolte a ovest, come la camera da letto da cui Esteban con la webcam mostrava a Merce le lanterne antiche che di lì a poco si sarebbero accese di una luce giallognola, e i tigli fioriti nelle strade che avevano attraversato insieme tante volte negli ultimi mesi, e i gatti che scavalcavano le prepotenti radici esplose dai marciapiedi – gli innumerevoli e organizzatissimi gatti dalla città, capaci di sopravvivere ai periodi di magra anche in un quartiere come Boedo, ben lontano dal porto di Boca e dalle sue lische.
Arrivò a metà novembre da Buenos Aires la telefonata della donna di suo padre, quella coi capelli lunghi ormai completamente grigi. Che le disse: ci siamo. Venite qui.
Merce si trovava nello stesso salotto da cui, cinque anni prima, Esteban aveva guardato in televisione la rivolta di Buenos Aires. Si girò verso sua madre con la cornetta ancora in mano. Senza dirsi nulla oltre al necessario, madre e figlia accesero il computer e cercarono quattro posti, per loro e le sorelle di Merce, su un volo per Buenos Aires.
Così trascorsero le ultime settimane di Esteban: nella sua Buenos Aires, dove la primavera aveva ceduto il posto all'estate, grazie al vento dell’oceano che, per la prima volta dopo decenni, era finalmente riuscito a raggiungere la città e a rinfrescarla un po'. In una casa a pochi isolati dalla sede di Radio la Tribu, dove Eduardo, coetaneo e correligionario di Esteban, inveiva in diretta contro Bush. Nei momenti in cui Esteban non aveva bisogno di lei, sua moglie vagava per la città a cui aveva detto arrivederci trent’anni prima, e a cui avrebbe detto addio, stavolta senza rancore, di lì a poco, mentre la compagna di suo marito cucinava ravioli e infornava empanadas per tutte.
Merce mi scrisse che, pochi giorni prima di morire, lei e sua madre avevano portato Esteban sulla sedia a rotelle al mercato di Boedo, e lui le aveva convinte a rubare delle mele.
Un piano semplice e perfetto: loro gliele avevano nascoste in grembo e così, insospettabili e complici, i tre fuggiaschi del 1977 erano fuggiti ancora, più grandi e più scomposti di trent'anni prima, in quella loro città in bianco e nero.
E ridevano, ridevano così forte che nessuno, spostandosi sul marciapiede per non essere travolto, capiva cosa stesse succedendo.

© settembre 2011 Serena Corsi