Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


Paura di non morire


Nell’unica foto che ho di Erik, lui è accovacciato a terra e fuma una grossa canna, mentre la massa di capelli biondi e spettinati gli nasconde il volto, un po' come a una rockstar.
Quella foto non dice nulla di lui. In essa non c'è traccia delle costanti della sua vita: il giornalismo militante, l'entusiasmo per le rivoluzioni possibili che invariabilmente si concludono in sconfitte, l'amore per donne cazzute e puntualmente abbandonate, i viaggi iniziati bene e molto spesso finiti male. No, nell'unica foto che ho di lui, Erik sembra soltanto un tizio mingherlino troppo vestito per una giornata di nuvole e sole messicano.
Tuttavia, quando visitai per la prima e unica volta la sua casa di Copenhagen, scoprii che possedere una sua immagine era una rarità. Alle pareti infatti c'era un marasma di disegni, soprammobili assurdi, buffi e geniali feticci costruiti con materiale di scarto; ma nessuna foto di sé o di chiunque altro. In quella casa io, Filippo e Ilaria approdammo una mattina di ottobre del 2003, dopo aver attraversato in una notte l'Europa con tutti i mezzi di trasporto esistenti – aereo fino al nord della Germania, e da lì prima il treno, poi il traghetto, e infine taxi e autobus – nell'ansia di arrivare in tempo al capezzale del nostro amico. E questo perché qualche giorno prima Tania, una cara amica di Erik, ci aveva scritto che la sua malattia si era aggravata improvvisamente, e lei non sapeva se e quando avrebbe potuto rispondere alle nostre lettere.
Quando leggemmo quel messaggio, in Italia era la stagione in cui ci si sdraiava sui binari per fermare i treni carichi di armi in partenza per l'Iraq; in cui eravamo costretti ad alternare le ore di studio a quelle di lavoro per formare un gruzzoletto che ci desse modo di ripartire per l'America Latina – l'orizzonte per eccellenza, la terra dei sogni possibili. E proprio in America Latina avevamo conosciuto Erik: per la precisione nel Chiapas messicano, nella sede di Indymedia – uno dei primi esperimenti al mondo di giornalismo di movimento – di cui lui era coordinatore, redattore e despota assoluto.

Curiosamente, quello con Erik fu l'incontro più memorabile della nostra lunga permanenza nel Chiapas zapatista. E d’altra parte no tre, giovinastri avidi di buoni maestri, eravamo facili prede per un tipo come lui, che in quel momento incarnava la giusta mescolanza di mistero e rivoluzione, di impegno politico e di filosofia personale fondata su un inarrestabile vagabondare.
Erik, un cinquantenne danese freddoloso e testardamente puntuale nel caos messicano, viveva in Chiapas dalla fine degli anni ’90, ma grazie ai suoi trascorsi come inviato di un importante quotidiano danese, conosceva il resto del Centramerica come le sue tasche; parlava perfettamente lo spagnolo e per ogni paese in cui era stato aveva una storia incredibile da raccontare.
L'accompagnamento ideale alle sue storie era la tazza di cioccolata calda, densa e forte che consumavamo ogni pomeriggio per proteggerci dall'aria pungente dell'autunno chiapaneco, stravaccati sui divani consunti dell'ufficio di Indymedia. Dopo aver guardato per un po' il tramonto, che costringeva le luci di San Cristobal de Las Casas ad accendersi con la flemma tipica dei luoghi che hanno nel proprio dna il concetto di risparmio, Erik sbriciolava nella sua tazza un po' di peperoncino piccante, si accendeva uno spinello e cominciava a raccontare.
Prima del Messico, Erik era stato a lungo in Perù, dove si era trovato a seguire per il quotidiano danese il sequestro di centinaia di ostaggi da parte del movimento rivoluzionario dei Tupac Amaru, che nel dicembre del 1996 aveva fatto irruzione nella residenza dell'ambasciatore giapponese durante una serata di gala in onore dell'imperatore.
Erik era stato fra i primi giornalisti stranieri ad arrivare sul posto. Grazie a una vecchia conoscenza – uno spacciatore di erba che si faceva chiamare Gatto con gli Stivali, fratello di una domestica che lavorava nel lussuoso quartiere dove era in corso il maxi-sequestro – era riuscito a trovare una stanza a un prezzo decente a pochi metri in linea d'aria dalla casa dell'ambasciatore. Si trattava della dependance di una villa che i proprietari, da tempo residenti nel vecchio continente, erano felici di affittare a un europeo il cui scopo sarebbe stato, non v'era dubbio in merito, quello di coprire d'infamia i terroristi sequestratori Tupamaros.
Il sequestro durò circa quattro mesi, che Erik trascorse quasi interamente sulla strada davanti alla villa dell'ambasciatore, transennata dalla polizia: solo a tarda notte, e per poche ore, si concedeva il lusso di stendersi e di chiudere gli occhi nel letto della dependance.
Provocando il fastidio degli aristocratici proprietari, Erik fu tra i pochi giornalisti a scrivere più o meno tra le righe che il commando di sequestratori non era composto da semplici terroristi, ma da guerriglieri che chiedevano come riscatto la scarcerazione dei compagni che non si erano macchiati di fatti di sangue, aggiungendo che gli ostaggi (quasi tutti diplomatici, banchieri e politici) venivano trattati dai guerriglieri molto meglio di quanto accadesse a un prigioniero comune in un qualsiasi carcere della città.
Questi commenti gli costavano quotidiane discussioni al telefono con il direttore del quotidiano danese, che non gli risparmiava sterili manfrine sulla sensibilità dei lettori. Ma Erik sapeva di avere ragione, e non si stupiva nell’assistere alla liberazione, giorno dopo giorno, di piccoli gruppi di ostaggi, ciascuno dei quali affermava di essere stato trattato in maniera dignitosa e quotidianamente visitato da un medico della Croce Rossa.
Ma nei rari momenti in cui si concedeva una pausa di solitudine, dopo aver litigato al telefono coi redattori di Copenhagen ed essersi lavato in fretta, Erik per qualche minuto si concedeva il lusso di ascoltare il cattivo presentimento che gli rovistava il petto. Si sedeva alla scrivania, avvolto dall'asciugamano, e lasciava che i capelli biondi sgocciolassero sul pavimento, cercando di convincersi che la situazione si sarebbe presto sbloccata. Ma né il governo né i Tupac Amaru cedevano sui punti salienti della trattativa, ed era evidente che il passare del tempo non avrebbe giovato ai guerriglieri. Qualche punto debole, qualche distrazione figlia della stanchezza sarebbe prima o poi venuta a galla, e la polizia peruviana non si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione; Erik sapeva che gli uomini di Fujimori, il presidente che molto più tardi – troppo tardi – sarebbe stato condannato a venticinque anni di prigione per gravi violazioni dei diritti umani, non avrebbero usato con i guerriglieri gli stessi riguardi che i Tupamaros stavano riservando agli ostaggi.
Il massacro che Erik temeva si consumò, infine, il 20 aprile 1997. I reparti speciali peruviani scavarono un tunnel sotto alla residenza e colsero di sorpresa il commando sbucando all'improvviso nel giardino. Avevano l'ordine di non lasciare vivo nessuno: tra i guerriglieri trucidati c'erano due ragazze di sedici anni che Erik aveva conosciuto in un campo di addestramento sulla sierra andina, dove aveva cercato di intervistare i portavoce della guerriglia. Come molta gente delle Ande, le due ragazze sorridevano di rado, ma la fierezza che accendeva i loro sguardi le rendeva bellissime. E come molta gente delle Ande, avevano un parente o un amore morto per colpa del governo. Bellissime, e pronte a tutto per fare giustizia.
Al contrario di molti suoi colleghi, nei giorni successivi al blitz Erik non si fermò a Lima per fare la cronaca delle celebrazioni e delle polemiche che ne seguirono. Ancor prima che i flash illuminassero i sacchi neri dei cadaveri caricati su furgoni che assomigliavano a quelli della spazzatura, il danese mise le sue cose in una valigia e chiamò un taxi per l'aeroporto.
Tornò in Danimarca con le viscere contorte, e pagine di appunti e di rabbia che gli svolazzavano negli occhi.
Ma dopo il fiume di sangue dei guerriglieri, un'altra pozzanghera vermiglia lo aspettava. L'amico a cui lasciava la sua casa quando era lontano si era sparato due giorni prima del suo ritorno, nella sua cucina. Era troppo tardi per il funerale, ma nessuno aveva ancora lavato via il sangue dal pavimento. Inginocchiato a terra accanto a un secchio, con la spugna in mano, Erik si immaginò il suo amico mentre cercava di scacciare la paura di usare un fucile contro di sé, nelle stesse ore in cui due ragazze peruviane dormivano abbracciate ai loro mitra sperando di saperli usare se fosse stato necessario; e l'uno si scaldava come poteva nell'inverno danese, e le altre rimpiangevano il fresco della sierra ora che erano intrappolate nell'afa di Lima. Ad Erik era toccato sopravvivere a tutti loro, con l'implicito onere di raccoglierne le ingombranti testimonianze.
Strizzando la spugna nel secchio si disse che quello era il suo modo per seppellire il suo amico, per seppellire quelle ragazze, e per ammettere a se stesso che aveva appena perso due battaglie molto importanti, ma che la guerra non era finita. Per la seconda volta in poche ore non si concesse di versare una lacrima, ma quelli che lo conoscevano si accorsero che era invecchiato di molti anni in un giorno solo.
La mattina che seguì a quella lunga notte, il direttore del suo giornale lo chiamò. Aveva una voce strana. La polizia peruviana aveva appena spiccato un mandato d'arresto internazionale contro Erik, sostenendo che la stanza affittata a suo nome nei pressi della residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima era servita a membri clandestini dei Tupac Amaru per controllare le mosse di esercito e polizia.
Era una montatura? Arrivato a questo punto dei suoi racconti, Erik scrollava le spalle e sorrideva, enigmatico. E, senza rispondere al quesito, partiva per la tangente con un'altra storia: di quella volta che era andato in un carcere peruviano a intervistare un leader della guerriglia, con dieci pagine di comunicazioni segrete infilate nel culo, per consegnargliele alla prima distrazione della guardia. In teoria avrebbe dovuto andare con una collega, che doveva occuparsi allo stesso modo di metà delle pagine, ma questa si era tirata indietro all'ultimo momento, terrorizzata.
Quanto alla dependance usata o meno anche dai Tupamaros, per sua fortuna la Danimarca non concesse l'estradizione per il processo, ma in Perù e in diversi paesi latini, ovviamente, non avrebbe potuto mai più mettere piede.

Nella lista dei paesi vietati non c’era il Messico. Erik ci arrivò nell’autunno di quello stesso anno, il 1997, felicissimo di risparmiarsi ancora una volta l'inverno danese, ignaro del fatto che il gelo della morte avrebbe soffiato ancora, implacabile, nella sua direzione. L'antivigilia di Natale un gruppo di paramilitari messicani attaccò i fedeli riuniti per la messa nella chiesa di Acteal, in Chiapas. L'obiettivo erano i membri di una comunità vicina ai ribelli zapatisti, l'esercito di indigeni che sognava un Messico in cui non essere più invisibili, e che cercava di portare a termine questa rivoluzione senza ammazzare nessuno. Ma quel Natale ad Acteal quarantacinque di loro rimasero uccisi.
Erik arrivò sul posto poco dopo il massacro, un po' come se stesse dando il cambio a quell'Erik che aveva evitato i titoli di coda del film peruviano, e stavolta, sì, assistette alla macabra cerimonia dei militari che liberavano il campo dai cadaveri. In quella circostanza decise che avrebbe dedicato il resto della sua vita alla causa zapatista.
Visse per qualche anno in una casa molto colorata nella prima periferia di San Cristobal de Las Casas, dove prese l'abitudine di coltivare etti di erba in un bel vaso di terracotta; perfettamente a suo agio interpretò la doppia vita di militante della comunicazione indipendente e di giornalista professionista al soldo di un quotidiano danese; conobbe centinaia di attivisti da tutto il mondo, ereditò decine di parassiti intestinali e visitò tutte le comunità zapatiste del Chiapas; e naturalmente inventò la ricetta della sua celebre cioccolata in tazza piccante, rovente e polverosa.
Continuò così per cinque anni, fino al 2002. Nel mondo si respirava un vento di cambiamento, spuntavano forum sociali come funghi, la causa zapatista era un evento mediatico permanente ed Erik sentiva che quello che faceva contribuiva a tenere alta l’attenzione. Ma il destino ci si mise di mezzo. Mentre conviveva con due attiviste americane, amandone una di traverso sull’amaca e spiegando ripetutamente all'altra come si cucina il salmone al curry in Danimarca, un curandero indigeno da cui era finito quasi per gioco lo guardò negli occhi, gli prese la faccia tra le mani callose e gli diagnosticò la morte nel fegato. Un brutto cancro contro cui Erik, guardando a sua volta negli occhi i medici dal camice bianco che aggrottavano le sopracciglia, decise di non provare nemmeno a combattere.
Lasciò l'attivista americana e le chiese di sparire, si assicurò che il suo vaso di erba fosse sempre pieno, e continuò la stessa vita di sempre.
In quel suo modo così sintetico da apparire brutale, una delle ultime sere che passammo insieme a San Cristobal ci spiegò cosa pensava della sua malattia. Mormorò quasi sovrappensiero, tra un aneddoto e l'altro, che sarebbe morto piuttosto che trascorrere un altro inverno in Danimarca, cercando di guadare il deserto di mesi e mesi senza sole, a contrattare scampoli di vita con medici capaci di tirare fuori la vita dalla morte, ma inadeguati nell'impresa di trovare una causa degna in una vita come la sua, finché lo tenevano lontano dall'America Latina.
Aveva tutta l'aria di uno che aveva riconosciuto la sua fine, e trovava persino che gli assomigliasse. Vi andava incontro tranquillo.
Ma non morì in Chiapas come si era immaginato, né un paio d'anni più tardi, quando io, Filippo e Ilaria arrivammo a Copenhagen dopo quel viaggio iniziatico e rocambolesco attraverso l’Europa. Anzi, la mattina in cui sbarcammo a casa sua, lui era appena uscito dall'ospedale, si era già rimesso in piedi e progettava di partire per il Venezuela di lì a poche settimane.
Continuò insomma a farsi affidare missioni in America Latina. E a lavorare. E a vomitare. E a uscirne sempre vivo, da ogni luogo, da ogni ricaduta, dal proprio farsi beffe della morte. Ma divenne una persona sempre più difficile con cui avere a che fare. O più semplicemente noi avevamo imparato a conoscerlo sempre meglio, e ora il suo abisso si apriva, un po' alla volta, anche sotto ai nostri piedi.
Alla fine del 2005 Erik venne in Italia grazie a un ambizioso progetto della radio pubblica danese, che si era proposta di intervistare i reduci della guerra di Spagna settant’anni dopo i fatti. Io gli avevo procurato un’intervista col comandante Giovanni Pesce, brigatista internazionale in Spagna e poi partigiano nei Gap milanesi. Dopo l'intervista, Erik si fermò da me una settimana: era ottobre, pioveva tutti i giorni e io partivo di lì a poco per l'Argentina, così in quella settimana non dovevamo fare altro che montare l'intervista, guardare film in spagnolo e chiacchierare di tutto. Parlava soprattutto lui, a dire il vero: così, in quei giorni nella casa di via Togliatti, avendo probabilmente già deciso che non ci saremmo mai più visti, finì per raccontarmi la sua vita.

Era nato una cinquantina d'anni prima a Copenhagen. Era scappato di casa a diciassette anni a causa del turbolento rapporto col padre, dopo di che aveva vissuto in strada arrabattandosi con qualche lavoretto nei cantieri – tra i pochissimi meriti di suo padre c'era quello di avergli insegnato a impilare mattoni – finché non aveva conosciuto la gente di Christiania, il quartiere occupato che sorge nella prima periferia di Copenhagen. Ne divenne uno dei più agguerriti militanti e prese parecchie delle manganellate collezionate in quegli anni dagli occupanti per evitare lo sgombero di massa: in particolare il 24 dicembre del 1974, quando gli agenti caricarono gli attivisti vestiti da babbi Natale per il «Natale dei Poveri», un banchetto gratuito per centinaia di persone.
Poi il suo caratteraccio, padrone di casa in quel corpo minuto, tornò a riscuotere l'affitto e nel giro di pochi mesi Erik litigò con tutti per inconciliabili differenze di vedute, abbandonò Christiania e rimbalzò non solo verso le vecchie abitudini della vita di strada, ma anche tra le braccia dell'eroina, aggiungendosi alla schiera di quanti accendevano fiamme gassose sotto i cucchiai ossidati degli ultimi anni settanta e dei primi ottanta. Anni che nel suo racconto si riassumono come un prolungato, anonimo bip, sintomo della sua volontà di calare un velo.
Il prolungato bip si interruppe solo quando un luterano di buona volontà, convinto di offrire una tazza di caffelatte a un tossico qualunque raccattato per strada, si ritrovò invece a discutere delle nefandezze della Chiesa con uno che intavolava argomentazioni migliori delle sue; e dopo aver ammirato l'acume del biondino, gli offrì di disintossicarsi e di andare a lavorare come volontario in una certa missione laica e anticolonialista da qualche parte in Africa. Era una proposta talmente diversa da tutto ciò che gli avevano sempre suggerito o imposto per uscire dalla tossicomania, che Erik accettò, mosso dall’unica emozione che sempre l’ebbe vinta su di lui per una vita intera: la curiosità.
Non so dove andò in Africa – forse nello Zimbabwe dove aveva appena preso il potere un guerrigliero marxista, il futuro dittatore Mugabe? – fatto sta che laggiù qualcuno, forse un altro cristiano con la vista lunga, incaricò il taciturno biondino di scrivere i resoconti delle loro attività per una futura, modesta pubblicazione. Chissà che l'idea all'origine di tutto non fosse riuscire nell'evangelica impresa di trasformare un ottimo tossicodipendente in un ottimo predicatore.
Sarebbe andata diversamente, ma in fondo non di molto. Erik si mise all'opera controvoglia, ma pian piano le semplici cronache delle loro giornate si trasformarono in un appassionato resoconto della situazione di un paese, della storia di un popolo. E fu così che Erik sostituì la dipendenza dall'eroina, non già con Dio, ma con il giornalismo.
Nel giro di pochi anni, forte del suo talento e dei suoi modi da impenitente seduttore, era l’inviato di un giornale dalle basse tirature ma piuttosto in voga nella radical-sinistra danese, in seno al quale Erik coltivava il più classico rapporto di amore e odio col direttore suo capo, che stimava la sua capacità di scrivere, invidiava il suo inafferrabile fascino e minacciava di cacciarlo per il suo caratteraccio. A una conferenza pubblica sulla guerra tra Iran e Iraq, per esempio, Erik si scazzottò con un altro inviato, rimediando una pessima figura per il suo giornale. Nondimeno era un lavoratore instancabile: si era buttato talmente a capofitto nell'impresa di assistere a tutto ciò che accadeva, e di scrivere di tutto ciò a cui assisteva, che per anni non si prese un giorno di ferie, fino a quando un amico tedesco non lo convinse a fare un viaggio in Portogallo, dove conosceva una comunità di hippy che viveva ritirata sulle montagne. «Mal che vada, ne tirerai fuori un reportage» gli aveva detto.
Era il 1990. In quel momento Erik, lasciati alle spalle i trent'anni già da un po', si trascinava in una storia d'amore con molti tira e molla, e l'idea di una lunga vacanza in Portogallo gli sembrò un'adeguata exit strategy. Una mattina lasciò sul tavolo del direttore un biglietto di saluti e partì con l'amico tedesco.
La vita nella comunità si rivelò subito dannatamente gradevole, anche se gli hippies, che venivano sia della Germania dell'est che dell'ovest, avevano tifato tutti per la caduta del Muro, al contrario di Erik, che si definiva comunista ortodosso, nonché convinto sostenitore della tesi secondo cui il fine giustifica i mezzi, e pretendeva di spiegare ai tedeschi come avrebbero dovuto andare le cose a casa loro. Risolsero il contenzioso dopo una notte di urla e liti davanti al fuoco, e all’alba rinunciarono a pensarla allo stesso modo, convenendo che i destini del mondo passavano in secondo piano dal momento che la convivenza tra loro funzionava a meraviglia; e che Erik se la cavava davvero bene a riparare le loro baite, a coltivare ortaggi e marijuana e a prendersi cura delle pecore.
Quanto a lui, si adattò così tanto alla nuova vita che smise di telefonare periodicamente al suo direttore, così come a sua madre. Scoprì questa nuova dimensione rivoluzionaria e si disintossicò dal giornalismo: si affezionò molto a una pecora già anziana e, quando questa stette per morire, le diede da mangiare una manciata di funghetti allucinogeni. Non gli capitò mai più di vedere uno sguardo tanto beato quanto quello della pecora quando stramazzò al suolo a gambe larghe, come nei fumetti.
Mentre ancora elaborava questo lutto, si invaghì di una cantante portoghese finita, un po' per noia della città e dei suoi locali notturni, un po' per caso, in quella comunità di tedeschi ritirati sulle montagne del suo paese. Erik la conquistò sgominando i topi che tormentavano le baite: ne catturò uno e lo inchiodò, vivo, alla porta di casa, per dissuadere gli altri.
La cantante non parlava inglese né tantomeno danese, e lui spiccicava poche parole di portoghese, così si dicevano il minimo indispensabile in un tedesco raffazzonato, imparato dai compagni di ventura. «Ecco perché sarebbe potuta durare per sempre», mi disse più tardi Erik. Solo che... solo che un giorno lei cercò un modo internazionale per dirgli che era incinta.
«D'accordo», disse lui. «Allora devo tornare in Danimarca a mettere le mie cose in soffitta». Lei non capì la parola soffitta ma sorrise.
Stava ancora cercando di venire a patti con l'idea della paternità quando bussò alla porta di sua madre e scoprì che nel frattempo suo padre era morto. Non gli importò granché: aveva sempre odiato quel grasso ubriacone che lo aveva sbattuto fuori casa. «Non sono di quelli che si mettono gratis a rimpiangere i morti», si disse, «una merda era e una merda rimane». Ma doveva fermarsi un po' per occuparsi di sua madre. Almeno aiutarla con la burocrazia. E aiutarla a comprendere che sarebbe diventata nonna, ma a distanza.
Ma questi improvvisi impegni erano un guaio. Avrebbe voluto rimanere in Danimarca il meno possibile, perché quando se n'era andato l'aveva fatto senza dire addio a una persona, e i grandi fantasmi o si guardano in faccia tutti i giorni o è meglio non vederli mai più. Decise di andare dritto nella tana del lupo per togliersi il pensiero, e bussò alla sua porta senza sapere bene cosa dirle.
La mattina dopo, svegliandosi nel letto accanto al fantasma, Erik trovò la forza di dirle che sarebbe presto diventato padre per via di una bella cantante portoghese, e che questa bella cantante portoghese lo stava aspettando in Portogallo. Lei lo cacciò in malo modo e lui, sgusciando via, promise a se stesso che non l’avrebbe mai più vista. Per strada si fermò a bere un caffè in un bar, scottandosi la lingua pur di non pensare a come sarebbe potuta essere la sua vita sotto a quelle coperte.
Accelerò i tempi del suo ritorno in Portogallo e riuscì a sedersi su un aereo tre settimane dopo, badando bene a evitare gli amici e i luoghi che entrambi avrebbero potuto frequentare, riuscendo insomma a non incrociarla più per le strade di Copenhagen. In fuga da lei, per la seconda volta.
Ma, sbarcato a Lisbona, commise l’errore tipico di chi, nonostante solide apparenze, brancola nel buio: decise di sancire quella nuova fase della sua vita chiamando un'ultima volta il fantasma, giusto per dirle addio. Ormai, tanto, un continente intero li separava.
Entrò in una cabina e compose il numero. La prima volta si scordò di aggiungere il prefisso danese. La seconda trovò occupato. «La terza è l'ultima», si disse.
La terza lei gli rispose e colse l’occasione per annunciargli che era incinta.
La mattina dopo, svegliandosi accanto alla cantante portoghese, Erik trovò il coraggio di raccontarle tutto, o forse non riuscì a tenere per sé questo ingombrante segreto. Implorò il suo perdono con l'aiuto di un interprete tedesco, e l'interprete dovette fare del suo meglio, o forse sbagliò qualche sinonimo, ma alla fine la portoghese lo perdonò davvero; anzi, spinta da un'inconcepibile solidarietà femminile – o da una suprema volontà d'ordine – insistette persino affinché lui tornasse al più presto in Danimarca a «sistemare la cosa personalmente».
Erik non seppe risponderle che non ne aveva il coraggio.
Salì la scala dell'aeroplano come si sale al patibolo. E durante il volo, anche se era accanto al finestrino, Erik si impedì di guardare in basso, e per la prima volta in vita sua fu lui a cercare di attaccare bottone col vicino, che però si era imbottito di sedativi per controllare la paura dell'aereo e a malapena rispose col suo nome quando Erik si presentò, lasciandolo in una sconfinata solitudine a risolvere i suoi crucci.
Il fantasma andò a prenderlo all'aeroporto di Copenhagen e, mentre lo abbracciava, gli sussurrò una sola parola: «Proviamoci». Lui scoppiò a piangere per la prima volta in decenni, e per l'ultima per altri decenni ancora, senza sapere se di gioia o di dolore, di amore o di impotenza. Piangeva ancora quando per telefono disse alla portoghese che forse il fantasma era davvero l'amore della sua vita.
In realtà, noi spettatori lo sappiamo, il fantasma era solo un fantasma. All’ottavo mese di gravidanza i due erano già ai calci, ai pugni e ai piatti fracassati contro le pareti.
Erik, dopo essersi dedicato per mesi a rendere la propria e l’altrui vita un inferno, una mattina prese la porta, vestito a strati ma senza valigie, e andò a spiegare a sua madre che doveva tornare subito a Lisbona. E lei, che conosceva bene gli antefatti e ancora meglio suo figlio, gli prestò il denaro senza battere ciglio.
Non aveva la minima speranza di tornare con la cantante portoghese, voleva solo conoscere suo figlio o sua figlia, il bebè che doveva essere nato qualche settimana prima. Quando arrivò ai piedi della collina su cui aveva vissuto così felicemente, uno dei suoi vecchi amici tedeschi lo vide e, senza dire una parola, raccolse un bastone da terra. «È maschio o femmina?» chiese Erik. L'amico sollevò il bastone, minaccioso, poi capì dal suo sguardo spento che Erik se ne sarebbe andato senza fare tante storie. «Maschio».
Erik tornò sui suoi passi, cercando di non chiedersi come sarebbe stata la sua vita su e giù per quel pendio portoghese. All'aeroporto di Lisbona entrò in una cabina, non la stessa che otto mesi prima gli era stata fatale, per telefonare al suo vecchio direttore di giornale.
«Figlio di puttana», reagì questo, «dove sei finito? Mi hanno detto che sei stato a Copenhagen e non sei nemmeno passato dalla redazione».
«Sono all'aeroporto di Lisbona», rispose Erik, che sentendo la voce del suo vecchio capo avvertì all'improvviso una sensazione famigliare, rassicurante, di cui aveva dannatamente bisogno.
«E dove stai andando?»
«Dimmelo tu. Di sicuro vi serve un corrispondente da qualche parte nel mondo».
Seguì una pausa. Erik si sentiva sull'orlo del precipizio, e in quel momento sarebbe bastato un soffio per spingerlo nell'abisso. Ma il direttore disse: «Ti dirò, figlio di puttana che non sei altro, pare che il Perù sia in ebollizione».
Erik si sfregò la faccia con le mani per non piangere di sollievo. Spiegò al direttore come spedirgli un po' di soldi, poi riattaccò e rimase seduto per qualche ora nella sala del check in, immobile, a guardare la gente normale che andava e veniva, desiderando una canna, concentrandosi sul tabellone delle destinazioni. Cercando di convincersi che quella svolta fosse la cosa migliore che potesse capitargli, e augurandosi ingenuamente che fosse l'ultima.
Visse per qualche giorno in un motel a due passi dall'aeroporto di Lisbona, e quando ricevette qualche banconota da mettere in tasca e un indirizzo da imparare a memoria, partì alla volta di Lima.
E ricominciò a fare il giornalista.

Mentre mi raccontava le vicende del suo misterioso passato, Erik se ne stava appoggiato alle piastrelle color sabbia della cucina di via Togliatti 18, nella prima periferia della città con la toponomastica più comunista d’Europa, e sorseggiava una cioccolata in tazza, chimica e troppo liquida – solo vagamente comparabile a quelle che lui stesso preparava quando ci eravamo conosciuti in Chiapas.
«Che avrei dovuto fare?» Concludeva. «Che avrei dovuto fare di quei due amori e delle loro pance esorbitanti?». E poi, per salvarsi, aggiungeva: «È stato meglio così. Entrambe hanno trovato mariti migliori di me. Non parliamo poi del padre che quei due bambini si sono scampati. Anzi, quella bambina danese e quel bambino portoghese. Non li ho mai visti neanche in foto, né loro me, credo. So solo che oggi sono due adolescenti che non mangiano miele, perché io lo detesto così tanto che i miei geni non scenderebbero a compromessi».
Quando Erik se ne andò da casa mia eravamo molto amici. Pensavo che in qualche modo lo avrei accompagnato, da amica distante ma comunque vicina, verso la morte.
Invece poche settimane dopo, quando mi trovavo già in Argentina, colse un'occasione stupida per litigare con me e non rispose più a nessuna email. In quell’anno la Danimarca stava vivendo un momento politicamente convulso a causa delle celebri e poco divertenti vignette su Maometto, apparse su un giornale di destra e riprese con rabbia in tutto il mondo islamico, così inizialmente mi dissi che doveva essere molto indaffarato. Poi scoprii che con i miei amici del mitico viaggio a Copenhagen aveva fatto lo stesso, offendendoli a morte per poi sparire nel nulla.
Grattandosi via con rabbia la polvere dorata di cui lo avevamo cosparso, Erik volle liberarsi di noi. Lo fece sempre in modo orribile, per essere sicuro che non si potessero mettere delle pezze; lo fece con noi e probabilmente con tutti gli altri, come se stesse ostinatamente cercando di andare da solo incontro alla fine. Forse pensava che se nessuno avesse saputo della sua morte, se nessuno fosse stato lì a guardare quella tavola pronta da sparecchiare, morire sarebbe stato meno umiliante. Probabilmente si era anche convinto che il troppo affetto non avrebbe fatto altro che rinviare una morte già sottoscritta, prolungando la sua doppia agonia di uomo malato e solo.
Ma il destino si è preso gioco di lui ancora una volta. La sua malattia si dev’essere fermata a vivacchiare sul fondo scucito delle sue tasche, come fanno le briciole. Lo so perché, facendo ricerche su internet, ho scoperto che è ancora vivo.
Ma non ho voglia di scrivergli per chiedergli se nel frattempo è diventato un santo. Se come tanti ha approfittato della propria miracolosa guarigione per votarsi a una religione evitata per tutta la vita. O se tutto intorno a lui c’è ancora terra bruciata.
Della sua storia mi restano una domanda e un monito: la domanda è se uno dei suoi figli sia riuscito a trovarlo quando era malato, mandando a monte il suo piano di cocciuta solitudine; forse in questo stesso momento sta raccontando a uno di loro la strabiliante storia della sua vita.
Il monito lo tengo per me: forse ne parlerei solo con lui, che è stato il primo artefice della mia passione per le storie degli altri, se un giorno, pentito o solo curioso di sapere che fine abbiamo fatto, tornasse a cercarci. Lo farà?
Non lo so. Solo i presuntuosi credono di sapere a che punto si mette la parola fine delle storie altrui. In fondo, finché le persone non muoiono, sono vive.

© gennaio 2012 Serena Corsi