Serena Corsi, Reportage da tre continenti e mezzo


Un pellegrinaggio dopo l'altro


Vladimir aprì gli occhi e vide una donna specchiarsi nella propria ombra. Stropicciò le palpebre intirizzite dal sonno e guardò meglio, ma non c'era molto da vedere: era proprio così, la tizia si truccava con gli occhi a pochi centimetri dal muro. Poiché nello stanzone per i pellegrini non c'erano specchi, la cosa più simile a un riflesso che la donna aveva trovato era la propria ombra, proiettata sulla parete dagli impietosi neon che alle sei e trenta si erano accesi tutti contemporaneamente, per esortare i pellegrini a riprendere il viaggio.
Vladimir si mise a sedere attento a non battere la testa contro le doghe del letto di sopra, come gli era già capitato parecchie volte da quando, un mese prima, aveva cominciato il Cammino di Santiago, e si mise a piegare il sacco a pelo ascoltando con un senso di gradevole familiarità i rumori del mattino: letti e ossa che scricchiolavano, sussurri di saluto, sospiri di dolore per gli acciacchi che si moltiplicavano.
“Se torno in Brasile” pensò Vladimir “devo ricordarmi di dire a mia sorella che non ha bisogno di uno specchio per truccarsi”. Sempre che, da quando l'aveva vista l'ultima volta – sette anni prima, in un fugace ritorno a casa che gli aveva lasciato la sensazione che nessuna briciola di sé appartenesse più a quel luogo – Beatriz non si fosse procurata un favoloso specchio in ferro battuto pagandolo in natura a qualche ladruncolo della favela.
La donna gettò un'ultima occhiata soddisfatta alla propria ombra e Vladimir le sorrise prima di tuffarsi nell'imperscrutabile destino di un'altra giornata in pellegrinaggio.

La prima vera compagna di viaggio di Vladimir era stata Monica, una portoghese magra e spettinata che lavorava per un'agenzia di commercio navale tra Portogallo e Brasile.
Poiché Vladimir aveva lavorato come scaricatore e poi come marinaio in quella che ormai sembrava la sua vita precedente, i due, dopo l'incontro su un marciapiede di Pamplona, dove lei zoppicava per una fastidiosa tendinite e lui da galantuomo aveva deciso, senza ammettere repliche, di caricarsi sulle spalle anche il suo zaino, avevano condiviso una zuppa e qualche bicchiere di vino, e poi, contrariamente a quanto avrebbero fatto nella loro vita di tutti i giorni, avevano lasciato che lo spazio allontanasse i loro corpi ed erano andati a sdraiarsi nei letti a castello quando non erano ancora le undici, pronti a ricominciare il cammino l'alba successiva. E per dieci giorni erano stati sempre insieme, così vicini e familiari da far credere agli altri pellegrini di essere sposati da tempo. Con lei Vladimir riscopriva il piacere della sua lingua natia, e anche di una compagnia femminile liberata dalla circostanza del sesso; superati i primi giorni, quando fu finalmente chiaro che non avrebbero scopato si rilassarono alla meraviglia e si godettero la scoperta dei paesaggi e dei passaggi compiuti dalle loro gambe sempre più alleggerite dalla fatica, bambini di città alle prese con il primo vero incontro con la natura.
C'era qualcosa di Monica che a Vladimir ricordava Lotte. Il che ancora lo sorprendeva: era presto, infatti, per capire che avrebbe trovato qualcosa di Lotte in ogni singola donna che avrebbe incontrato in vita sua. Nello specifico, Monica arrotolava le sigarette in un modo assai simile a quello della sua ex moglie, anche se poi le fumava più frettolosamente, non fosse mai che un po’ di nicotina si disperdesse nell’aria invece di finire tutta nei suoi polmoni. Anche il suo modo di russare somigliava a quello di Lotte; totalmente innocuo e altrettanto irregolare, comprensibile forse solo ai coprotagonisti dei loro sogni.
Infine, di Lotte Monica possedeva anche la determinazione a non lasciare incompiuto nessun progetto. La portoghese aveva infatti iniziato il Cammino cinque anni prima, e da allora ogni volta che aveva una manciata di ferie la usava per percorrere qualche chilometro in più tra Saint Jean e Santiago de Compostela, iniziando da dove aveva interrotto la volta precedente. Accanto a Vladimir tagliò il traguardo della metà, e sotto una pioggia improvvisa che rinfrescava la terra brindarono facendo cincin con le borracce a quella che ragionevolmente poteva essere la metà delle loro vite. Vladimir vide chiaramente negli occhi di Monica il desiderio che la seconda metà fosse migliore della prima, e si chiese cosa stessero esprimendo i suoi in quello stesso momento. Avrebbe potuto essere più fortunato? In venti giorni di cammino aveva capito almeno questo: che lui e Lotte si fossero lasciati dopo quindici anni di matrimonio era meno importante del fatto di essere stati insieme per tutto quel tempo, nella buona e nella cattiva sorte. Di nuovo: avrebbe potuto essere più fortunato? Aveva ancora una famiglia che lo aspettava dall'altra parte dell'oceano, una famiglia con meno vecchi e più bambini dell'ultima volta che si era seduto alla loro tavola. Beatriz lo avrebbe riaccolto come un fratello o come un estraneo, o peggio ancora come un traditore? L'alternativa era tornare in Germania a riprendere dal punto in cui aveva smesso di vivere, ricominciare senza Lotte. C'era molto da vincere e molto da perdere qualsiasi cosa decidesse di fare: tornare in Brasile dove la sua vita di un tempo languiva, o in tornare Germania, dove lo aspettavano solo macerie? A questi pensieri una lacrima solitaria gli attraversò la guancia sinistra alla stessa velocità in cui le gocce di pioggia percorrevano l'intera venatura di una foglia di castagno. Monica gli sorrise.

Vent'anni prima di intraprendere il Cammino di Santiago, Vladimir faceva lo scaricatore nel porto di Santos, a cinquanta chilometri da San Paolo, la città in cui era nato e cresciuto e da cui era scappato dopo essersi messo nei guai grazie a un furto in una villa finito con la morte di qualcuno.
Quella notte Vladimir era tornato alla favela con la coda tra le gambe, aveva trascinato la sua fidanzatina sulla sponda del canale che attraversava l'agglomerato di baracche e aveva risolto il pro forma della verginità di entrambi con un amplesso spaventato e frettoloso, ottenuto soltanto dopo averle detto che non sia sarebbero mai più rivisti. Mentre le veniva su una coscia lei piangeva, non si sa se di nostalgia o di delusione per la puzza di fogna e la noncuranza di quel corpo schiacciato sopra di lei.
Sui moli di Santos Vladimir si era distinto nell'arte di ritagliarsi un angolo di sopravvivenza nel fumoso ambiente dei portuali. Era un ragazzino alto e dinoccolato, con le ossa ancora in formazione e la voce da uomo non del tutto sbocciata, eppure nel giro di pochi mesi anche i veterani avevano cominciato a trattarlo, se non con rispetto, senz’altro meglio dei suoi coetanei, relegati a una semischiavitù. Aveva capito subito quando tacere e quando parlare, quando ridere e quando fare finta di niente, aveva intuito col fiuto del randagio, una dota importante per presentire i profumi e le pestilenze della natura umana, chi evitare come la peste e chi far sentire degno della sua fiducia.
Divenne così il cocco di uno degli scaricatori più anziani, che non solo gli offrì la prima birra e la prima bistecca che Vladimir avesse mangiato dopo parecchi mesi, ma gli procurò un posto come mozzo in una nave merci diretta al porto di Rotterdam, esaudendo un desiderio che Vladimir aveva avuto il coraggio di confessare solo durante la prima vera sbornia.
Su quella nave visse due anni, scendendo solo per frequentare i quartieri a luci a rosse delle città, in ognuna delle quali presto trovò una prostituta, non un amore, che lo aspettava.
Se da ragazzino era ancora passabile, crescendo Vladimir si era inesorabilmente imbruttito; i suoi lineamenti avevano mancato tutte le occasioni fornite dall’anatomia, optando per le forme più sgraziate e disarmoniche. Il cibo e la vita sregolata dell'uomo di mare non avevano contribuito a compensare in grazia quel che la natura non aveva messo di suo. Nonostante questo, fu esattamente negli occhi a palla di Vladimir che una barista di Amburgo, che a forza di luppolo fermentato provava a scaldare le ossa fradice della gente del mare del Nord, posò il suo sguardo a caccia d'amore, in una sera di primavera che nessuno dei due avrebbe mai più dimenticato.

L'alba fiammeggiava alle sue spalle, proiettando la sua ombra sull'asfalto come un ago sospeso tra i due piatti della bilancia. Sia alla sua destra che alla sua sinistra Vladimir aveva le distese piatte dei campi di grano della Castilla. Vladimir pensava a Monica che quella mattina era salita su un aereo per tornare a Lisbona dopo avergli confessato con un sorriso completamente privo di aspettative di essersi innamorata di lui, ma che nel tran tran del lavoro e della metropoli in quel senso lo avrebbe senz'altro dimenticato, e che quindi di qualunque cosa avesse bisogno si facesse vivo, che a Lisbona possibilità per uno come lui se ne potevano trovare, mi raccomando. In quei minuti finali Monica più che mai gli sembrò una bambina; una bambina che era stata bravissima a mentire e ora si fregiava di una tardiva e necessaria sincerità implorando l'adulto di prendere provvedimenti; una bambina che si lamentava per la ferita del distacco, eppure una bambina coraggiosa che era andata incontro a questo finale con la determinazione di un kamikaze. Le sue lacrime promettevano di asciugarsi in fretta e di non lasciare traccia, con la naturale rapidità della rugiada.
Da bambina Monica aveva pianto pochissimo. O meglio, aveva pianto il giusto fino a un certo punto – gli otto anni, per essere precisi – e poi aveva smesso quasi del tutto. All'epoca suo padre, un militare progressista che aveva partecipato alla Rivoluzione dei Garofoni e che la notte del 25 aprile 1974 giurava di aver concepito il suo primogenito, fu trovato morto di infarto in un postribolo. Il luogo e le circostanze della sua morte Monica le seppe solo molto più tardi, naturalmente, quando anche dedicare un pensiero fugace alla gioia che doveva aver pervaso suo padre appena prima dell'infarto non sarebbe bastato a ridarle la capacità di piangere. Dopo il funerale – in chiesa c'era più vergogna che parentela – la famiglia si era trasferita frettolosamente a Coimbra, dalle cugine della madre di Monica, che si erano prese cura di Monica e dei suoi fratelli mentre sua madre giocava a scacchi con la depressione. I suoi fratelli piangevano quando venivano picchiati, quando venivano traditi, quando si sbucciavano le ginocchia e quando pioveva troppo forte; Monica non piangeva mai.
Vladimir dunque non si stupiva di quanto Monica sembrasse una bambina quando finalmente quella diga cedeva; sapeva già che l'amore mette al mondo bambini, e non solo per una questione biologica. Lui e Lotte erano stati una coppia di bambini più che di amanti, soprattutto nei primi mesi della loro storia. Si erano raccontati le loro infanzie, che non avrebbero potuto essere più diverse, come non avevano mai fatto prima con nessun altro, con una dovizia di particolari che alimentava e forse truccava il bagaglio dei ricordi. Vladimir non aveva con sé foto di quando era bambino, così Lotte, per rimanere in pari, non gliene mostrò mai una di sé, lasciando anche a lui campo libero all'immaginazione drogata dell'innamoramento.
Dopo l'arrivederci in odore di addio dell'amica portoghese, Vladimir si concesse le ore che mancavano al tramonto per godersi quella nostalgia ora dolce ora lancinante e per chiedersi, com'era sempre stato per ogni incontro fugace che gli aveva concesso l'esistenza, se in qualche maniera Monica sarebbe rimasta presente nel modo un poco ingannevole che la tecnologia rende possibile a dispetto di vite lontane; e naturalmente non poté darsi alcuna risposta. Attraversò la giornata in solitudine ripercorrendo pensieri che si trasformavano inesorabilmente in ricordi, riconducendoli e poi di nuovo allontanandoli dal loro punto d'origine, che era la fine del suo matrimonio con Lotte, e quando il sole calò e non ci fu più il pericolo di essere scottato dalla malinconia umida della solitudine, Vladimir scoprì di aver percorso sessanta chilometri senza mai fermarsi e senza vedere nulla intorno a sé se non una fitta e sgradevole foresta di fantasmi, e questa asciutta consapevolezza aumentò il suo desiderio di tornare tutt'intero nel presente, nel passo-dopo-passo del Cammino di Santiago.
Quella notte, sdraiato sulla branda dell'albergo per pellegrini, prima di addormentarsi rivide come ultima cosa il sorriso comprensivo di Monica quando lui si lamentava per la cesura netta che in un modo o nell'altro stava per imporgli il destino, e lo ritrovò identico ai modi accondiscendenti di sua madre, di sua sorella e poi di Lotte, ogni volta che lui aveva protestato contro le disarmonie futili o cruciali del destino.
Si addormentò sicuro che non avrebbe più sentito la loro mancanza fino all'arrivo a Santiago.

Dieci giorni dopo la partenza di Monica, Vladimir incontrò un compagno di viaggio capace di modificare il senso del Cammino.
Mael era un francese di appena vent'anni. Per l'anagrafe avrebbe potuto essere suo figlio, per la biologia no di certo: era un biondo dalla carnagione quasi slavata, con due guancette rosse da vichingo e lo sguardo sdolcinato di chi ha la fortuna di non aver ancora fatto i conti con la morte. Era partito alla volta di Santiago due anni prima, dalla soglia della sua casa ad Arles, in Francia, in compagnia di una cilena un po' più vecchia di lui ma altrettanto hippy, con cui all'epoca voleva formare una famiglia itinerante lavorando come braccianti nelle fattorie della Provenza.
Ma dopo un anno e mezzo di vagabondaggio agricolo la storia con la cilena era finita. «Troppo fuoco, ci siamo bruciati» sintetizzava mesi più tardi Mael un po' svogliatamente. Quando si era ritrovato da solo, Mael non era lontano dalla parte francese dei Pirenei, e aveva deciso che era arrivato il momento di puntare senza indugi verso Santiago, come si era ripromesso di fare con la fidanzata mesi prima. Aveva scelto una delle vie più lunghe e difficili per scavallare le montagne, ed era quasi morto di freddo una notte limpida in cui il cielo lo aveva sfidato a starsene sdraiato sull'erba rigida di gelo per spiare ogni singola stella del firmamento. Poi si era perso, e per due giorni si era nutrito solo di frutti di bosco, finché un pastore non l'aveva rimesso sulla giusta via con un cenno indignato del bastone. Era sceso a valle in fretta, ansioso di recuperare il clima dolce delle colline, e si era fatto male al ginocchio destro e al tendine sinistro; quando aveva finalmente messo piede a Roncisvalle si era ammalato, e per tre giorni non aveva potuto muoversi dal letto, accudito da altri pellegrini che gli portavano brodi fumanti e si fermavano a chiacchierare con lui nei pomeriggi di siesta, dopo che a loro volta avevano salito e ridisceso i Pirenei.
Prima di incontrare Mael, Vladimir era sicuro che il proprio passo andasse bene. Non si era reso conto di quanto fosse veloce, di quanta ghiaia scorresse inosservata sotto le sue scarpe consumate, compagne di letto dei suoi piedi instancabili. Mael camminava molto più lentamente di lui per una ragione evidente: da settecento chilometri procedeva a piedi nudi.
Anche se era partito molto prima, era destino che Vladimir raggiungesse Mael e si fermasse a chiacchierare con lui, incuriosito dalla strabiliante visione del pellegrino scalzo. D'altra parte il francese raccontava a chiunque gliela chiedesse, e molto volentieri, la sua storia.
Dopo aver recuperato dalla malattia a Roncisvalle, Mael aveva ripreso a camminare, ma il suo corpo manifestava ogni giorno un nuovo malanno. Lui si incaponiva a proseguire, nonostante le spie luminose accese qua e là su quelle giovani membra che non avevano mai patito alcun acciacco. Si trascinava con la rabbia che danno le delusioni d'amore, lo spingeva il bisogno di finire ciò che la cilena aveva lasciato colpevolmente incompiuto. La sua attenzione non era mai nel paesaggio, nel cammino, nella ghiaia sotto le scarpe. Una sera in cui si incideva le innumerevoli vesciche della giornata e si massaggiava le contratture indolenzite, un uomo si sedette accanto a lui e gli disse: «Questa mattina mi hai superato senza nemmeno vedermi. Stai camminando troppo velocemente perché i tuoi pensieri sono troppo veloci, sono troppo lontani dal presente. Togliti le scarpe, continua scalzo. Andrà meglio». Mael volle sapere da che pulpito veniva la predica, e scoprì che il tizio, un altro francese, era al suo ventisettesimo pellegrinaggio tra i Pirenei e Santiago de Compostela.
Poiché era stanco dell'inquietudine che si portava appresso, Mael decise di seguire l'assurdo consiglio. Scalzo, per qualche giorno non poté camminare che un chilometro o due; si armò di un bastone che lo aiutava a mantenere l'equilibrio quando un dolore improvviso sotto la pianta del piede lo gettava a destra o a sinistra; ma non si arrese, sostenuto dal pellegrino veterano che rimase con lui finché sotto ai suoi piedi non si furono formati calli spessissimi, e Mael poté così perfezionare l'arte di calibrare ogni passo fino a padroneggiarla completamente.
Non provò più il desiderio di indossare scarpe, né di riprendere un ritmo sostenuto, anche se con l'abitudine a camminare scalzo avrebbe potuto ricominciare ad andare veloce come gli altri pellegrini. Ma non lo fece perché finalmente stava meglio; il suo corpo non si lamentava più, a ogni passo il suo pensiero era consapevole di dove si trovasse, le giornate scorrevano tranquille. I suoi occhi coglievano ogni sasso appuntito sul sentiero, ogni riflesso di pozzanghera; la calma del bosco lo avvolgeva, non si limitava più ad attraversarla, indifferente e lontano.
Quando Vladimir lo incontrò, non poté fare a meno di rallentare e di rimanere con Mael fino alla fine di quella giornata, e poi quella dopo, e quella dopo ancora. “Di solito le persone ci provano” si stupì Mael. “Resistono qualche ora, poi non ce la fanno a camminare così piano, e quasi si scusano quando si arrendono e allungano il passo, e si allontanano”. Molta gente chiedeva a Mael se il suo andare scalzo fosse una penitenza: “A me sembrate in penitenza voi” sorrideva il ragazzo, “che pensate solo ad arrivare”.
Vladimir capì che Mael era stato messo sul suo cammino per fargli capire la fretta bulimica con cui aveva sempre vissuto. Da bambino era già stato adolescente, da adolescente partecipava a crimini da uomo e da uomo aveva dovuto fuggire; poi era stato marito che ancora non aveva vent'anni – l'età di Mael, precisamente – e a trentacinque era un uomo separato con due o tre vite già alle spalle, e una completamente misteriosa da iniziare una volta arrivato a Santiago. La velocità e la determinazione con cui aveva sempre voltato pagina erano sinonimo della sua innata e profonda sfiducia verso il corso naturale delle cose; Vladimir credeva solo nella sua capacità di decidere, di decidere bene, di decidere in fretta. Così era stato anche quando aveva lasciato Lotte, dopo che lei gli aveva confessato il tradimento; se n'era pentito presto – strano, che si pentisse di una decisione, che si voltasse indietro a rigirarsela tra le mani, non era da lui – ma riallacciare la loro storia era stato impossibile, perché Vladimir aveva fretta che tutto tornasse come prima, e si imbestialiva perché come prima non ci tornava, e più ci metteva mano, peggio si mettevano le cose. Alla fine era stata Lotte, saggiamente, a chiedere a nome di entrambi di essere lasciata in pace, di accettare quella fine che beffarda si infilava dappertutto, e di prenderla come una liberazione.
Dopo sette giorni al ritmo di tartaruga di Mael, a meno di una settimana dall'arrivo presunto a Santiago, Vladimir si sentì finalmente pronto per la fine del viaggio. Sentì che il passo di Mael era troppo lento, e che era arrivato il tempo di fare come tutti gli altri pellegrini e lasciarsi alle spalle quel compagno di viaggio.
Disse addio al giovane francese dopo un lungo e armonioso silenzio durante il quale entrambi avevano tenuto i piedi a mollo in un torrente della Galizia, e nel sorriso tranquillo di Mael riconobbe quello di Lotte il giorno in cui lui era uscito dalla loro casa – quella casa, arredata insieme giorno dopo giorno per quindici anni: un museo a cielo aperto di loro due – con un odio profondo verso quella pace che lei, autoproclamata principessa dell'ineluttabilità, gli sbatteva in faccia. Ma misurare il tempo, stabilire un troppo e un troppo poco, si rese conto Vladimir con le caviglie congelate e vive che raccoglievano e buttavano verso il cuore sangue entusiasta, anche misurare il tempo è operazione di tracotanza che avvicina in un lampo alla morte, in virtù di un certo assaggio quotidiano di antipatia alla vita.
Allungò dunque il passo, Vladimir, ma non di molto; giusto il necessario per mettere qualche chilometro al giorno tra sé e Mael, che continuò il cammino nella sua bolla di limpidezza che contagiava gli altri ma non poteva contenere che se stesso.
Per un paio di giorni Vladimir marciò in una splendida solitudine, inzuppato dalla testa ai piedi dalla pioggia intermittente della Galizia, protetto talvolta dai castagni e dalle querce e dagli eucalipti, con le loro fronde e i loro odori possenti.
Mancavano tre tappe a Santiago quando Vladimir si imbatté nell'ultimo compagno di pellegrinaggio.

L'ingombrante somiglianza con Groucho Marx, appena attutita dalla canizie, già a un primo sguardo rendeva il botanico di San Francisco una preda irresistibile per la curiosità di Vladimir. Si incontrarono sotto a un gazebo che proteggeva dalla pioggia una tavola imbandita su cui dei volenterosi, o più probabilmente degli oculati commercianti, avevano disposto cestini di frutti di bosco, biscotti e fette di torte fatte in casa e diversi thermos di caffè rovente. Una manna per i pellegrini che affrontavano i sentieri fangosi con lo stomaco vuoto fin dalle prime luci dell'alba, per non perdere lo spettacolo sublime del sole che perforava lo strato di nuvole in cielo, e poi quello della foschia che si levava dai campi per una manciata di minuti prima di sparire per tutto il resto della giornata.
Sulla tavola c'era anche una scatola salvadanaio dove i pellegrini lasciavano le loro offerte in cambio della colazione piovuta dal cielo. Vladimir vide Groucho Marx, che in realtà si chiamava Bob, tirare fuori dalle tasche rotoli di banconote di piccolo taglio facendo cadere monetine americane nelle pozzanghere attorno al gazebo, e lo tolse d'impiccio offrendogli la colazione.
Bob accettò caffè e torta con quella limpida scrollata di spalle che nei due giorni a seguire Vladimir avrebbe imparato a riconoscere come il suo gesto più distintivo, una specie di “così è la vita!” che lo aveva accompagnato nei suoi sessant'anni di vita anomala, come lo stesso titolare amava definirla. Vladimir registrò immediatamente questa parola, “anomalia”, che divenne la chiave dell'interminabile conversazione che iniziarono quel giorno sotto al gazebo e conclusero – o forse sarebbe meglio dire che lasciarono in stand-by fino al prossimo incontro – solo l'indomani all'ora di dormire.
Bob era il figlio adottivo di una solida coppia di ebrei tedeschi approdati nel Sud Dakota durante il delirio nazista. A ventidue anni aveva deciso di saperne di più della Torah e se n'era andato in Israele a vivere in un kibbutz con un'amica che fin dai tempi del liceo fingeva di non aver capito quanto lui ne fosse sempre stato innamorato. Nel kibbutz Bob aveva vissuto nove mesi, il tempo di realizzare che presto si sarebbe trovato a fare da babysitter ai figli della sua amica e di qualche altro kibbutznik mentre lui sarebbe affogato tra le braccia di una zitella che la comunità avrebbe oculatamente scelto per lui.
Questa ossessione per la collettività lo portò alla nausea, tanto che quando tornò negli Stati Uniti era pronto ad abbandonare la fede ebraica. Per darsi una spintarella in quella direzione decise di cercare la sua vera madre e scoprì un indirizzo nel vicino Nebraska, in una cittadina sulla sponda del fiume Missouri. Dopo aver guidato una vecchia Lincoln attraverso pianure coltivate e canyon mozzafiato, e dopo aver atteso pazientemente il passaggio di decine di mandrie di buoi e aver arricciato il naso per la puzza di merda di migliaia di maiali, parcheggiò su una sponda del fiume Missouri e chiese indicazioni per la fattoria che mostrava in foto.
Sua madre lo aspettava sulla veranda di una casa ben più grande di quella che Bob si era immaginato. Accanto alla donna c'erano un ragazzo e una ragazza un po' più giovani di lui, entrambi obesi. La sponda del fiume era troppo lontana dalla soglia di casa per continuare a immaginarsi, nell'infanzia che non aveva avuto, immerso fino alla vita con una canna da pesca in mano e un tizio col berretto da baseball che lo chiamava figliolo.
Bob sorrise e abbracciò tutti con più calore di quello che ebbe in cambio, e si sedette in un soggiorno senz'anima a fare conversazione. In pochi minuti si rese conto che in quella casa erano tutti ridicolmente repubblicani e per di più infelici fino al midollo, ma soprattutto – ennesima anomalia della sia vita – non solo anche la sua vera madre era ebrea, ma era a sua volta un'ebrea tedesca emigrata negli Stati Uniti durante le persecuzioni di Hitler, e per di più originaria della stessa regione della sua madre adottiva.
Bob si rese conto che c’era davvero la possibilità di essere lontano parente di quella che aveva sempre considerato la sua madre adottiva. Dapprima trovò la cosa raccapricciante, poi, mano a mano che conosceva i suoi consanguinei, sempre più consolatoria. Una spennellata di ironia buona. Non si fermò nemmeno a dormire, come in un primo tempo aveva programmato; ripartì a bordo della sua Lincoln e tornò indietro velocemente. Negli anni a venire conservò un'educata relazione epistolare con la madre naturale, che gli aveva spiegato senza perdersi in futili dettagli che un militare in congedo l’aveva messa incinta quando era ancora ragazzina, ed era stata mandata dalla famiglia a partorire in Sud Dakota per evitare che il resto della cittadina sapesse dello scandalo.
La conoscenza della sua famiglia biologica lo spinse più che mai a legarsi alla madre adottiva, di cui pianse la morte lo stesso anno in cui diventò padre di Ryan.
Questo successe molto più tardi, quando Bob aveva già quarant'anni ed era un affermato botanico nei giardini più chic di San Francisco, dove si era trasferito per amore di Dorothy, una californiana cui aveva dato un passaggio mentre faceva l'autostop con un'amica in direzione del lago Michigan, dove le aspettavano i rispettivi fidanzati. Lui e Dotty ebbero una lunga e burrascosa relazione, nel corso della quale, dopo che lui aveva attraversato gli States per starle più vicino, si lasciarono svariate volte, una per ben due anni, alla fine dei quali si rincontrarono nella folla di una manifestazione per i diritti dei gay e decisero su due piedi di farla finita con quei tira e molla e di sposarsi. Da sposati continuarono per un po' a vivere in due contee diverse, per non correre il rischio di litigare prima che fosse troppo tardi, cioè prima che Dorothy rimanesse incinta; quando l'irreparabile finalmente accadde, e il dado fu tratto, si decisero a comprar casa insieme a Berkeley.
Ma non furono tutti felici e contenti. Non subito, almeno. Tanto per cominciare, il parto fu un gran casino. «È nato praticamente morto, rimarrà un vegetale» fu la prima diagnosi dell'ostetrico.
Bob rimase accanto all'incubatrice per due notti e due giorni finché un altro medico non modificò un poco il tiro: «Qualche organo funziona, ma la maggioranza no. Stiamo a vedere», e alla fine se ne presentò un terzo con la diagnosi più rassicurante: «Starà bene, ma è cieco». Dopo aver ascoltato questa sentenza, Bob sollevò suo figlio e lo guardò negli occhi a lungo, fino a quando Ryan non ricambiò il suo sguardo, e Bob sentì nel profondo del proprio essere che non solo Ryan non era cieco, non solo non aveva nessun handicap fisico ma sarebbe stato un tipo eccezionalmente sveglio per la sua età.
E così fu. Con qualche parentesi di infelicità che non aveva nulla di anomalo (ad esempio il periodo della menopausa di Dotty), negli anni successivi a Bob sembrò che il suo angelo custode stesse continuando a fare un ottimo lavoro. Di tanto in tanto portava il figlio a pesca nella baia di San Francisco – anche se nessuno della sua famiglia biologica pescava a mollo nel Missouri, a Bob era rimasta un innato, e a questo punto inspiegabile, talento per la pesca – e alle partite dei Dodgers; Ryan gli faceva le domande che ogni figlio rivolge al padre, sempre un attimo in anticipo sui tempi dei suoi coetanei. Una volta – una volta sola – Bob considerò un po' eccentrica la curiosità smodata che suo figlio dimostrava per gli arcani della mestruazione femminile. Ma quando la dinamica gli fu spiegata, lui sembrò dimenticarsi la faccenda. Invece quello era solo l'inizio. L'anomalia in agguato aveva appena cominciato a manifestarsi.
Ryan dalla sera alla mattina diventò un ragazzino inquieto. Smise di frequentare i compagni di scuola, si fece introverso e cominciò a passare prima i pomeriggi, e poi anche le mattine, in casa, attaccato a internet. Abbandonò la scuola. La via crucis degli psicologi non lo portò da nessuna parte, o almeno in nessun territorio conosciuto. Forse riuscì soltanto ad allontanarlo dai suoi genitori, che lo vedevano ciondolare in casa come un fantasma, ovvero come un depresso. E la causa di tanto malessere rimase ignota finché un giorno, stanco di sentirsi apostrofare dal padre, Ryan tuonò: «Smettila di dire che in fondo sono un bravo ragazzo. Se mai, sono una cattiva ragazza».
Ryan aveva scoperto di essere una donna imprigionata nel corpo sbagliato. E malgrado fosse cresciuto nella città più liberale del pianeta, con due genitori di mente molto aperta, questa rivelazione lo aveva gettato in un’angoscia da cui non trovava la via d'uscita.
Da quando aveva capito cosa tormentava suo figlio, Bob incontrava di rado la propria felicità, quella sobria felicità ordinaria che in fondo aveva inseguito da sempre come una compagna di viaggio difficile da tenere con sé; gli capitava ormai solo nelle mattine diafane in cui si trovava sulla cima di qualche albero da potare, e tra l'odore delle foglie e la compagnia modesta degli uccellini dimenticava le inquietudini di Ryan e della sua guerra senza tregua.
«Da tre anni io e Dotty facciamo le vacanze separati» spiegò Bob a Vladimir, «in modo che ci sia sempre qualcuno nei paraggi di Ryan. La nostra paura più profonda, che nemmeno osiamo confessarci, è che lui non sopporti più di vivere con la sua tristezza e si ammazzi mentre siamo lontani».
Dopo queste parole, lui e Vladimir avevano camminato in silenzio per un po’, finché Bob non aveva scrollato le spalle alla sua maniera, aggiungendo: «chissà perché ti vengo a raccontare queste cose», e prima che Vladimir avesse il tempo di ringraziarlo, Bob aveva attaccato con una brillante barzelletta sul papa.
Quando la mattina dopo Vladimir si svegliò, Bob, fanatico dei boschi di notte, doveva essere già in cammino da qualche ora. Non se ne stupì. Quel giorno si arrivava a Santiago, e i due avevano già deciso da tempo di camminare l'ultima tappa in silenzio e in solitudine.
La storia di Bob diceva a Vladimir che nella sua vita dovevano succedere ancora molte cose. Tutto, o quasi. C'era il tempo per un'altra grande storia d'amore, o due, o tre; c'era il tempo perché Lotte gli comparisse accanto in una manifestazione gay, e che decidessero su due piedi di risposarsi; c'era il tempo per mettere al mondo un figlio e illudersi che non ci sarebbero state brutte sorprese, e poi ci sarebbe stato il tempo di soccombere davanti a sorprese ora terribili e ora meravigliose, e poi il tempo di provare a gestirle. E dopo tutto questo ci sarebbe stato ancora il tempo di incontrare compagni di viaggio e di riuscire a commuoverli con i propri racconti in boschi piovosi dall'altra parte del mondo, raccontando loro brillanti barzellette sul papa, e poi di sparire nel cuore della notte lasciando ricordi indelebili.
E chissà che altro ancora.

Tutto questo Vladimir lo racconta alla sua ultima compagna di viaggio, una giovane italiana che come lui ha appena concluso il cammino, e come lui sta ripartendo alla volta del Portogallo.
Vladimir era convinto che avrebbe dormito sull'autobus che ora lo sta portando da Santiago de Compostela a Lisbona.a fatica questa mattina si è alzato per raggiungere la stazione, e quando ha visto che il sedile accanto al suo era già occupato si è dispiaciuto di non poter rubare un po' di comfort dopo settimane di sobrietà.
Ma il viaggio passa in fretta, perché l'italiana è ancora più brava di lui a scucire storie senza che quasi gli interlocutori se ne accorgano. E quando Vladimir si rende conto che lui ha parlato tanto mentre lei ancora non gli ha detto nulla di sé, della sua storia di pellegrina, l'autobus già attraversa la periferia di Lisbona, e non c'è più tempo per chiedere niente, né di darsi un appuntamento in città.
Lui prende un taxi per la zona del porto, dove Monica lo aspetta davanti agli uffici di una famosa compagnia navale. Indossa tacchi da impiegata e una molletta che dà pace alle sue ciocche ribelli, ed è orgogliosa di esibire questo brasiliano bruttino che profuma ancora di boschi a quelle scettiche infelici delle sue colleghe,.
Gli ha procurato un colloquio per imbarcarsi su una nave cargo alla volta di Santos, in Brasile. Il colloquio è fissato da tempo, ma lei non era sicura di vederlo arrivare finché Vladimir lui non è uscito dall'ascensore con una camicia appena comprata, più sorridente e più leggero di quando pensava di averle detto addio.

© novembre 2012 Serena Corsi