Stefano Amato, L'apprendista libraio (ottobre 2009)


«Quindi mi consiglia questo libro. Bene, e di che cosa parla esattamente?»
Ecco una domanda che temo di sentirmi rivolgere ogni volta che consiglio un libro a qualcuno. Chissà perché la gente non può semplicemente fidarsi di me e comprare il romanzo che gli dico io. C’è bisogno di sapere di che cosa parla un libro prima di leggerlo? Insomma, perché devono sempre mettermi in difficoltà?
Quale difficoltà? Quella di riassumere in poche parole un romanzo, magari mentre alla cassa si sta formando la fila, il telefono squilla, e un altro cliente sta cercando (inutilmente) di attirare la mia attenzione dall’altra parte della libreria. Sembra facile, e per qualcuno magari lo è, ma per me sintetizzare la trama di un’opera – con lo scopo di renderla interessante – è un compito quasi impossibile. E se anche ne fossi capace, secondo me sono proprio i libri a non essere d’aiuto. Pensateci. Molte delle trame dei più grandi romanzi che siano mai stati scritti sembrano ideate apposta per allontanare i curiosi. Qualche esempio? Ecco che cosa risponderei a chi mi ponesse la fatidica domanda dopo avergli consigliato il libro in questione.
Moby Dick: «È la storia di un equipaggio pre-Greenpeace che tenta di cacciare una balena innocente che non aveva fatto loro nulla di male».
Furore: «Una famiglia di bifolchi gira inutilmente gli Stati Uniti in cerca di lavoro».
E il mio preferito, Delitto e castigo: «Parla di un ragazzo che conficca un'accetta nella testa di una vecchietta per poi farsi consumare dai sensi di colpa».
È un fatto che chiunque avesse mai avuto voglia di leggere quei libri difficilmente lo farà, dopo riassunti del genere. Certo, potrei sforzarmi di rendere un servizio migliore a quei capolavori della letteratura mondiale. Eppure il massimo che riesco a fare è aggiungere un “anche” da qualche parte nella presentazione, con la speranza di dargli l’enfasi e l’alone di mistero necessari per incuriosire il cliente.
«Parla anche di un ragazzo che conficca un'accetta nella testa di una vecchietta per poi farsi consumare dai sensi di colpa» suona già meglio, non è vero?

Chi crede che la libreria dove lavoro non sia visitata da gente famosa solo perché si trova all’estremo sud d’Italia si sbaglia di grosso. In tre anni ne è venuta un mucchio, di gente famosa. Valerio Massimo Manfredi, Simona Izzo, Antonella Boralevi, Giorgio Albertazzi, l’attrice che in un film di Aldo Giovanni e Giacomo si becca una testata in faccia da Aldo, il tizio che per un po’ ha venduto i materassi la sera tardi sulle reti Fininvest, sono quelli venuti mentre ero di turno io.
In generale devo dire che nessuno di loro mi ha fatto una grande impressione, e anzi spesso hanno confermato la mia idea secondo cui in Italia solo gli stronzi riescono a diventare famosi.
Valerio Massimo Manfredi, per esempio, non ha salutato né quando è entrato né quando è uscito, nonostante fosse già passato altre volte e anni prima avesse presentato un suo libro da noi.
Simona Izzo non si è mai tolta gli occhiali da sole (eravamo al chiuso; fuori era buio da qualche ora), e non mi ha mai guardato in faccia per tutto il tempo che è rimasta. Ma forse era solo imbarazzata perché doveva chiedere se avevamo il romanzo scritto da suo figlio. Anzi, ora che ci penso, per un istante mi ha guardato. È stato quando le ho detto che non avevamo mai avuto in giacenza quel libro. Anche se forse “mi ha fulminato con lo sguardo” sarebbe un’espressione più appropriata.
Antonella Boralevi, invece, si è affacciata dalla soglia della porta, ha aspettato che ci accorgessimo di lei e quindi ha urlato: «Salve, sono Antonella Boralevi!» Poi ha chiesto se avevamo tutti i suoi libri; ha detto che voleva regalarli ai suoi vicini di barca. Ho controllato al computer. Purtroppo non ce li avevamo.
«In che senso?» Ha urlato lei, chissà perché restando sulla soglia.
«Nel senso che li abbiamo finiti», ho detto io.
«Come?»
«Li abbiamo finiti!» Ho ripetuto un po’ più forte per coprire i venti metri che ci separavano.
«E che aspettate a ordinarli di nuovo?» Ha gridato lei.
«Va bene!» Le ho detto.
Quindi se n’è andata, ovviamente senza salutare né niente.
Ho aperto il software per ordinare i libri. Ho cercato i suoi. Dopo averli selezionati stavo per cliccare sul tasto “ordina”, ma poi ci ho ripensato.
Non li ho ordinati.

© 2009 Stefano Amato